Il mercato delle voci

Giuseppe Adami

Innegabilmente il colmo per un artista analfabeta è di avere una bella scrittura. Ma l'ottenere una bella scrittura è il sogno persistente, continuo, indistruttibile d'ogni artista anche non analfabeta.

Ora una scrittura si ottiene un poco per il valore intrinseco della merce cantante, e molto per l'abilità di chi rappresenta o tutela questa merce, ossia dell'agente teatrale.

Il pubblico ne sente parlare spesso. Sa che si formano delle compagnia liriche, si firmano dei contratti, si pagano delle percentuali. Sa che spesso la fortuna di un artista è nelle mani di questo individuo che agisce nell'ombra, ma costituisce l'elemento indispensabile al nascere o al divenire di chi si dà all'arte canora. Ma quale esattamente sia la funzione dell'agente, quali le sue attribuzioni, come si esercitino, a quale prezzo, entro quali limiti, sotto il regime di quali leggi particolari, non sa o sa male.

Avrete sentito spesso parlare di sfruttati e di sfruttatori, di favoriti e di combattuti, di fortunati o disgraziatissimi che devono appunto all'agente teatrale la loro gloria o la loro oscurità. C'è senza dubbio dell'esagerazione in tutto questo, ma c'è anche della verità. Nell'alta e bassa marea che circonda il mondo lirico navigano pesci grossi e pesci piccoli, uomini d'affare o uomini di malaffare, alla mercè dei quali devono abbandonare la loro sorte tutti quelli che dal teatro aspettano la gloria e le paghe.

Ma, generalmente, il funzionamento esteriore di questo complesso meccanismo che si chiama «l'affare teatrale» è assai più semplice di quello che a prima vista non possa sembrare.

L'impresario o i vari impresari d'un qualunque teatro d'Italia o dell'estero, arrivano a Milano per comporre una compagnia di canto per la determinata stagione, con un determinato repertorio. Naturalmente si recano nell'ufficio dell'agente di fiducia, espongono i loro desiderata, la somma di denaro che hanno disponibile, i gusti e le predilezioni della cittadinanza, i nomi degli artisti vagheggiati, e si affidano poi completamente al loro uomo per la risoluzione dell'affare, nel quale sono sempre in conflitto questi due estremi: ottenere con i minimi mezzi quanto di meglio può offrire il mercato.

E allora, si incomincia. L'agente ha già tracciato un vasto elenco di nomi. Sa press'a poco quali sono le pretese dei cantanti che tratta. Uno per uno li fa sentire in particolari audizioni, o nell'agenzia stessa o in un teatro dove la voce si può meglio giudicare, ai componenti l'impresa. I prescelti sono chiamati ad intimo colloquio dall'agente. Si offre una somma, si discute, si aumenta se ne vale la pena, si conclude o si passa a trattarne un altro. Tutto ciò pare di una semplicità incredibile, ma effettivamente è il risultato complesso di molta abilità e di alquanto interesse messi insieme. I tre interessi da conciliare sono insomma: quello dell'impresa, quello dell'artista, e quello dell'agente.

Procurare l'interesse dell'impresa cercando di darle un artista sicuro a prezzo conveniente, significa assicurarsene la clientela; tutelare l'interesse dell'artista ottenendogli una paga massima vuol dire guadagnare su questa paga una maggiore somma di percentuale. Nel bivio l'abilità dell'agente sta in un discreto barcamenarsi a danno dell'una o dell'altra parte, facendo però convinti tanto gli uni che gli altri d'aver concluso un affare eccellente.

Un artista fa la sua brava audizione, piace molto, si deve scritturare ad ogni costo. L'agente ha capito ciò a volo, da una semplice e furtiva occhiata scambiata con i suoi clienti. Ma tace, impassibile. Sa, per esempio, che l'impresa può arrivare ad un massimo di cinquemila franchi, ma che l'artista ha pretese superiori. Chiama l'artista a tu per tu:

— Dunque, firmiamo questa scrittura?

— Firmiamo pure.

— Badate però che più di tremila, tremilacinquecento non possono pagare.

— Allora non firmiamo. O seimila o resto a casa.

— Siete proprio deciso?

— Decisissimo.

— Pazienza – conclude serenamente l'agente, – Io ho fatto quanto ho potuto per sostenervi. L'impresa vorrebbe il Tale che è piaciuto più di voi. È di là; l'avete visto. Se non firmate voi, firma lui, e non ne parliamo più.

Il gioco è primitivo, ma di effetto immancabile. Il Tale che non è di là, e che l'impresa ha già scartato, pende come la spada di Damocle sull'indecisione dell'artista. Sulla bilancia del pro l'agente enumera i vantaggi dell'opera, del teatro, della stagione. Su quella del contro l'artista elimina una parte delle sue pretese. Breve: fra le seimila che l'artista domanda, le tremila che l'agente offre, le cinquemila che l'impresa è disposta a pagare, a quattromila lire si firma. Contenti tutti.

Stavolta si è fatto principalmente l'interesse dell'impresa.

L'agente si rifarà sulla paga di un altro artista della diminuita percentuale. Ma altra volta è l'interesse dell'artista che, abilmente e sempre non parendo, viene tutelato. Un agente ha prima di tutto un certo numero di cantanti che egli rappresenta. Il cosidetto rappresentato, oltre alla percentuale d'obbligo, paga al suo tutore la percentuale di rappresentanza, ed è di conseguenza prima d'ogni altro proposto, e a condizioni superiori a quelle di un altro. Spesso, oltre a queste tangenti, l'artista offre personalmente all'agente una somma particolare, per premiarlo della particolare sua opera, quando la scrittura sia di prim'ordine. Spesso è l'agente che esige questo trattamento speciale, per il quale non ci sono limiti e non ci sono controlli.

Non molto tempo fa un tenore di magnifica voce, ma all'assoluto inizio della carriera, fu scritturato a queste condizioni: l'impresa lo pagava quattromila lire per la stagione, l'agente ne dava mille e cinquecento al cantante e ne intascava duemila e cinquecento per il suo personale disturbo. Tutto questo che pare a prima vista un'enormità non contemplata – purtroppo – dalla legge, si è convertito in un eccellente affare per tutti e tre i contraenti: quell'impresa ha avuto per una somma modesta un eccellente artista, quell'artista ha avuto dal successo di quella stagione una scrittura magnifica in un gran teatro per l'anno successivo; quell'agente oggi guadagna regolarmente la percentuale sulle forti paghe che il tenore da lui lanciato va intascando in Italia e in America. Gli affari di teatro si fanno così.

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* *

Ma si fanno anche in un altro modo.

Gli agenti teatrali che hanno veramente una notevole importanza ed esercitano il loro ufficio con relativa onestà sono pochissimi. Ma vicino a questi ne vivono decine di inutili e intraprendenti, che accampano un potere che non hanno consumando le loro gesta spesso deplorevoli sugli ingenui che cadono facilmente nella loro rete.

Una di queste agenzie di infimo ordine riusciva a cavare talvolta un discreto utile con un trucco di questo genere: nei mesi d'estate, mesi di miseria e di attesa per il piccolo mondo lirico, l'agenzia propagava la notizia di un affare d'America, per una lunga tournée che richiedeva non meno di tre compagnie complete. Decine di soprani, mezzo-soprani, tenori, baritoni, bassi, e centinaia di comprimari aprivano il cuore alla più rosea speranza. In quelli uffici dove l'affare d'America balenava, era un via vai di gente, una pioggia di lettere, un imperversare di telefonate.

L'impresa c'era. Era lì, in carne ed ossa, rappresentata da un elegante segretario che parlava perfettamente italiano, ascoltava impassibile audizioni su audizioni e dimostrava un'incontentabilità esasperante. Ogni artista chiamato per l'audizione pagava regolarmente due lire per il maestro che l'accompagnava al piano e venti o trenta lire d'abbonamento annuo al giornalucolo teatrale, organo dell'agenzia stessa. Tutto questo tramestio durava un mesetto. Poi, un bel giorno, proprio quando si trattava di concludere, il segretario spariva. Nessuno ne sapeva più niente. L'affare d'America? Sfumato. Effettivamente non era mai esistito. Un semplice inganno, con divisione proporzionale di utili: tanto all'agente truffaldino, tanto al segretario per burla, tanto all'accompagnatore da strapazzo.

Ai truffati non restava che il periodico settimanale, che serviva a ricordare settimanalmente la loro incommensurabile ingenuità.

Il giornale teatrale, annesso alle grandi e alle piccole agenzie, ne è il complemento necessario. Esserne abbonato per un artista è un obbligo.

C'era un agente che quando veniva richiesto al telefono a mezzo del suo fattorino, rispondeva:

— Chi mi domanda?

— Il Tale.

— È nostro abbonato?

— Nossignore.

— Allora non può parlare con me – E faceva togliere la comunicazione.

Perchè un'altra cosa si deve bene stabilire: la grande, l'enorme distanza che l'agente teatrale ama porre fra la sua autorità di dispensatore di grazie e la folta schiera degli artisti postulanti. Il suo ufficio, arredato quasi sempre con lusso e dignità, è accessibile a pochi e in determinate ore. Solo qualche tenore di buona fama e di buona rendita, o qualche prima donna preferita hanno una certa confidenza con il loro uomo d'affari, Per gli altri tutti c'è una vasta anticamera. Là, si spera e si aspetta. In quei periodi che precedono le stagioni liriche più importarti, carnevale e quaresima, l'anticamera pullula di gente in umiltà. In quelle sedie allineate, in una confusione indescrivibile di condizioni e di dialetti, ma in un accomunamento di sorti sono affratellati uomini e donne, giovani e vecchi, eleganti e dimessi che attendono il loro turno per passare, per essere ammessi all'agognata presenza. C'è del comico in queste anticamere d'agenzia, ma anche del pietoso. Talvolta lo spirito gigionesco vi fa capolino. Ma più spesso, vi regna il silenzio, con scambio furtivo di sguardi in cagnesco,

A un determinato momento l'usciere entra e ammonisce:

— Non si riceve più nessuno. Abbiano la compiacenza gli altri di ripassare domani.

E gli altri ripassano, domani, e dopo, e sempre, per quella e per dieci altre agenzie, in una via crucis umiliante e grottesca.

Volete che seguiamo – così per divertimento – un'artista nella lunga geremiade che precede il suo debutto, se questo debutto arriva? Può servire a togliere qualcuna di quelle illusioni che sono il più grave e prezioso fardello di chi arriva nel grande centro del mercato lirico, dopo aver compiuto lunghi anni di studi dispendiosi e difficili.

L'artista sbarca a Milano: con madre, se preferite. Ha qualche lettera di presentazione e un po' di risparmi. Prima di essere riuscita a consegnare tutte le lettere i risparmi se ne sono già andati. La madre che nella preoccupazione di dover ripartire subito per qualche piazza non aveva osato disfare completamente i bauli, si decide a disfarli e a telegrafare a casa per nuovi fondi. Nell'espresso che segue – è naturale – al telegramma, spiega che per il momento, in seguito alla guerra di Libia, un'acuta crisi travaglia i teatri italiani. Ma annuncia che all'indomani Enrichetta farà un'importante audizione per un importantissimo affare in vista. L'audizione si compie. È il primo passo. Enrichetta, – il nome vi va? – emozionatissima ha cantato l'aria della Wally

...Ebben... ne andrò lontana...

mentre l'agente è stato distratto due o tre volte da chiamate telefoniche. Ma al «fra le nubi d'or» eccolo riapparire nella sala.

— Bene bene... La voce e carina. Graziosa anche la figura... Vuol cantarmi qualche altra cosa?

— Mi dica...

— Quello che vuole.

— La Bohème?

— Ma sì, la Bohème.

Quattro accordi del maestro e il «Mi chiamano Mimì» dell'Enrichetta è, stavolta, più franco, più espressivo, più colorito. Ha veramente una bella vocina di soprano lirico. Potrà fare. L'agente la licenzia:

— Si faccia vedere... Per ora non ho niente, ma capiterà. Si faccia vedere... E lasci di là il suo indirizzo, caso mai....

In anticamera il fattorino domanda:

— La signorina è nostra abbonata?

No. Non lo è. Ma Enrichetta, che capisce a volo, ha tutto il desiderio di esserlo. Paga le quota, dà l'indirizzo, la mancia al fattorino e se ne ritorna a casa con la coscienza tranquilla di chi ha compiuto il proprio dovere.

Lungo periodo di speranza. Il teatro, la paga, il successo, la gloria. Verranno? Non verranno? Sì, verranno.

Il giorno in cui legge sotto la rubrica «Scritture e disponibilità» che essa sarebbe un ottimo acquisto per le buone imprese, trema di gioia al pensiero che all'indomani forse qualcuno l'acquisterà. Invece, niente. I giorni passano. Passano i mesi. «Si faccia vedere», le aveva raccomandato il suo agente. Altri agenti le avevano ripetuto: «Si faccia vedere». E si è fatta vedere, con madre e senza, ottenendo da tutti la stessa risposta alla stessa domanda:

— Novità per me?

— Non abbia fretta. Andrà a posto anche lei.

— Mi raccomando.

— Vedrà. E interesse mio.

Enrichetta è fiera di poter rappresentare l'interesse di qualcuno. E il giorno in cui le viene recato con la prima posta l'invito di recarsi in ufficio alle quindici, per comunicazioni che la riguardano, non sa trattenere l'impeto della sua commozione, Le sofferenze, le angosce, le lunghe attese penose non esistono più. Ora è sole e festa: la prima scrittura!

Stavolta, in agenzia, non è nemmeno costretta a fare anticamera. Passa subito, fra un mormorio d'invidia dei sette od otto che aspettano. L'agente l'accoglie con il suo migliore ma pur sempre dignitoso sorriso.

— Sareste disposta a fare un mesetto di bagni?

Enrichetta sgrana gli occhi. Ha un tuffo al cuore. Crede a uno scherzo. I bagni? Cosa c'entrano i bagni con la scrittura? L'agente rassicura e spiega:

— Un mese di bagni, a Senigallia. Stagione di fiera. Si dà il Faust con il celebre Coso. L'impresa è di là, disposta a sentirvi anche subito. L'aria dei gioielli l'avete in gola?

Sì. Enrichetta l'aria dei gioielli l'ha in gola. L'impresa l'approva. Ma non si può dare una gran paga. Il celebre Coso costa già un occhio e di Margherite che pagherebbero per essere scritturate, c'è grande abbondanza. Ma l'impresa è seria. Sfruttamenti niente. Si deve concludere? Trecento franchi per tutta la stagione. Se le cose vanno bene ci sarà anche un regalino per la serata d'onore: servizio di spazzole completo, in metallo bianco; o servizio da liquori, se proprio le cose andranno come devono andare,

Ed Enrichetta firma: con trecento lire un mese a Senigallia, lei e mamma, in albergo, quattro recite per settimana, bagni a volontà.

Ma che importa? C'è la scrittura. Enrichetta se lo contempla, a casa, lungamente, questo foglio di carta tanto agognato. Vediamolo un po', nei suoi articoli più interessanti:

«L'artista si obbliga salvo l'approvazione della direzione del teatro, o del maestro direttore e dell'editore, di prestare i suoi servigi nel teatro di...».

Dunque tre persone possono distruggere i suoi obblighi e i suoi servizi. Speriamo bene.

«L'artista sarà obbligato per ogni settimana di eseguire quattro rappresentazioni, e non più di due di seguito». Toppo giusto. Ma nell'articolo addizionale si aggiunge, specie per chi è all'inizio della carriera, l'obbligo di cantare tre sere di fila una volta almeno durante la stagione. E non si cancella, in questi casi, nemmeno quel circa inclusivo che per la data della fine stagione significa una proroga di cinque giorni del contratto, a tutto beneficio dell'impresa.

«L'artista donna, ha l'obbligo di indossare all'occorrenza abiti virili». Nel Faust, non è il caso. Margherita è donna.

Il contratto può essere sciolto per tutti i casi fortuiti: «incendio, guerra, rivoluzione, sconvolgimenti politici, malattie epidemiche, morte di Principi, sventure pubbliche». Può essere sciolto «in caso di malattia» o di «gravidanza per l'artista donna». Per l'artista uomo la gravidanza non è contemplata.

«L'artista si obbliga d pagare direttamente ed esclusivamente all'Agenzia la provvigione del sei per cento, per l'Italia, dell'otto per l'estero».

Altro cinque per cento all'agente che rappresenta l'artista. Nel caso di Enrichetta scaliamo dalle trecento le trentatrè lire di provvigione. Aggiungiamo le spese per «il basso vestiario» che comprende tutto ciò che è complemento del puro vestito: scarpe, calze, parrucche, gioielli.... C'è veramente da stare allegri. Un affarone.

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Eppure, spesso, da uno scherzo di questo genere o press'a poco si determina la fortuna di un artista. Hanno cominciato un po' tutti così. Se la cantante o il cantante «fanno successo», se qualche buon impresario li sente, se i compagni al ritorno a Milano ne parlano bene, la carriera incomincia. Gradino per gradino le trecento lire per stagione possono diventare tremila, poi trecento per recita, poi cinquecento, poi mille, Ma i casi sono rari. Ed oltre al valore intrinseco troppi elementi devono concorrere ad attribuire all'artista anche un valore commerciale. Le spese che gravano sulla carriera d'un cantante sono enormi: percentuali, abbonamenti, inserzioni, costumi, claque e un'infinità di altri incerti proporzionati al teatro, alla stagione, alla città nella quale si canta. Nella cittadina di provincia, ancora ancora, con una paga discreta si riesce a cavarsela. Ma un debutto a Milano, per esempio, costa molto. E bisogna notare che un artista è difficilmente preso in considerazione se non ha cantato a Milano. È qui che si fabbrica o si distrugge la fama di un cantante. Arrivare a Milano, in una stagione d'importanza, è nello stesso tempo una fortuna e un pericolo. Se il pubblico sapesse quanti interessi occulti sono legati a un tenore che si presenta al suo giudizio, lo compiangerebbe. L'agente A che vuole accaparrarselo fa la guerra all'agente B che gli ha già fatto firmare un compromesso. Il rappresentante C che sostiene gli interessi di un competitore sguinzaglia i suoi vassalli per dirne male e cercare di farlo andar peggio; il giornale D che non l'annovera fra i sui abbonati si dispone a stroncarlo; e in mezzo a questo incrociarsi di piccole rivalità,ciascuna delle quali rappresenta veramente un occulto pericolo, il disgraziato si dibatte come può. A suono di denaro, generalmente: due o tre persone sono in vario modo cointeressate alla sua paga. Gli abbonamenti scaduti si rinnovano; se ne fanno degli altri; si allunga un cinquantino al capo claque; un po' di argento a quei quattro o cinque che in Galleria parlano o sparlano; si comperano dei biglietti, molti biglietti per gli amici; parecchie poltrone per i critici e affini.... Una vera rovina. Senza contare che il debutto, perchè abbia un carattere d'importanza, deve essere corredato di tutto un relativo bluff che va dall'albergo di primo ordine al costume di Caramba.

Necessità assolute, dal più al meno, tutte queste. E se perfino gli arrivati sono costretti a piegarvisi, figuratevi se possono non farlo i principianti o quelli che nel mercato lirico non hanno ancora un valore determinato. È così che l'arbitrio diventa sistema, il sistema un dovere.

Fatto sta che nessun artista è mai riuscito a ribellarsi. E se qualcuno l'ha fatto e scomparso poco tempo dopo dalla circolazione. Impossibile non assoggettarsi, per esempio, alla claque nei teatri dove esiste, organizzata ed imposta perfino con regolarità di tariffe. L'applauso a tariffa! Ci avete mai pensato? Eppure c'è, e con una distinzione bene specificata. Eccone uno di questi listini di gloria comperata a spiccioli, tale e quale come m'è capitato fra mano:

Applauso di sortita.

Applauso di sortita.

Uomini

Signore

L. 25

L. 15

Notata la delicatezza? Procediamo:

Applauso regolare.

Applauso insistente

Applauso caloroso

Cadauno

»

»

L. 10

L. 15

L. 17

Interruzione con voci di «bene» «bravo»

indistintamente

L. 5

Qui, l'uguaglianza dei due sessi è portata come si suol dire sugli... scudi.

«Bis» a qualunque costo L. 50

La circolare reca in fondo, fra due mani nere con l'indice teso, questa avvertenza:

«Fanatismo», prezzo da convenirsi.

È comico tutto ciò? No. Pare che sia utile. Ecco, ad esempio, un aneddoto che riguarda il celebre Stagno quando cantava la Cavalleria rusticana con la Bellincioni al Carlo Felice di Genova. Il suo successo era grande. Specialmente al brindisi egli trascinava il pubblico all'entusiasmo nella ripresa del «viva» e in una famosa nota tenuta che aveva del miracoloso. Ma il miracolo non era che un sapientissimo gioco di bussolotti, con la complicità necessaria della claque. A metà della nota scoppiava un irrefrenabile tentativo d'applauso, subito represso. Era un attimo. Ma quell'attimo bastava a Stagno per riprendere il fiato, tenere la nota per un altro bel tratto e risolvere quindi la frase tutta di seguito fra il delirio del pubblico.

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Il delirio del pubblico! Ecco una delle tante frasi consacrate al giornalismo teatrale. Nelle riviste liriche vi sfido a trovare meno di dieci città nelle quali il pubblico non sia in delirio. Ogni teatro che si rispetti è un manicomio. Se per caso il pubblico non delira è certo fanatico. Se non è fanatico è elettrizzato. L'iperbole è la base del frasario teatrale. Il superlativo vi assume proporzioni enormi. Se leggete «successo discreto» dovere tradurre: fischi, senz'altro. Se un tenore «egregio» si è appena «distinto» state sicuri che all'indomani non canterà più. Per un successo degno sono assolutamente necessari il delirio o il fanatismo o l'elettricità. Per un artista che piacque bisogna scrivere almeno «che superò l'esigente aspettativa del pubblico».

Ecco perchè difficilmente troverete in un giornale teatrale un fiasco chiamato con il suo vero nome, ed ecco perchè un cantante per il quale non si sia adoperato un aggettivo mirabolante può, dopo un successo, respingere il giornale.

Non esagero. Un baritono ha scritto testualmente così:

«La prego, d'ora in avanti, di sospendere l'invio del suo giornale. Quando un artista mio pari viene qualificato, come nel numero precedente del suo periodico, ottimo Jago, non c'è nessuna ragione che paghi l'abbonamento».

Questo Jago che non vuole essere ottimo a nessun costo, tanto meno a costo d'un abbonamento annuo, non è che un piccolo rappresentante della incommensurabile vanità gigionesca, e va giustamente accoppiato a quell'amo che telegrafando al suo agente «Accetto affare propostomi» firmava: «Celebre X. J.».

Il giornale teatrale non è, in fondo, che un bollettino di pubblicità artistica, a pagamento. I diritti all'elogio, sia come qualità che come quantità, variano soltanto in ragione del prezzo. E sono veramente divertenti e curiosi nella loro forma e nella loro espressione. Ne diamo qualche esempio? Ecco come si illustra il successo di una Traviata che paghi bene:

«Le rappresentazioni straordinarie sull'importanti scene del massimo teatro di.... ebbero brillantissimo risultato artistico e finanziario. Il pubblico, entusiasmato fino dalla prima sera, dalla voce calda e carezzevole, dalla dizione espressiva ed appassionata e dall'arte potente e persuasiva della rinomata prima donna – che corrispose, pienamente, alla vivissima aspettativa – accorse affollato a festeggiare la stupenda «Violetta» dalla quale volle la replica della cavatina e dell'«Amami Alfredo». Nella splendida interpretazione dei due difficilissimi brani, essa apparve cantatrice di sorprendente bravura – eseguendo la cabaletta «Sempre libera» con virtuosità ammirabile e di grande sentimento.

«Acclamatissima al duetto con «Germont» – ottenendovi accenti emozionanti – interessò all'invettiva d'«Alfredo» esprimendo, con sentito dolore, il cantabile «Alfredo, Alfredo di questo cuore», destando poi profonda impressione nell'intero ultimo atto, in cui si dimostrò anche attrice valorosissima, poichè dopo aver miniato – è la parola – il melodioso adagio «Addio del passato» e resi con mirabili effetti il famoso «Gran Dio, morir sì giovane» e gli impressionanti canti «Prendi questa è l'immagine» e «Se una pudica vergine», eseguì la scena della «morte» con straziante verità, destando in tutti gli spettatori immensa commozione».

Gli spettatori, se non delirano... o giù di lì, sono «commossi», mentre invece, la stampa politica nonchè quotidiana «inneggia». Il tenore «impressiona»;la prima donna entusiasma. Le prime notizie d'uno spettacolo sono sempre date con ineffabile imitazione di stile telegrafico:

Revere, 15. – Prima, seconda Traviata, celebre X X X entusiasmò pubblico voce bellissima, padronanza scenica, eleganza figura, sfarzo toilettes, rese con grande efficacia passionale parte Violetta, cantando squisito senso arte, strappando applausi interminabili, tutti pezzi salienti, specie cavatina terminata bellissimo re bemolle, frase Amami Alfredo, detta grande sentimento, impressionando scena morte, interrotta grida brava, evocata scena aperta e fine atti – Impresa.

Chi firma è sempre l'Impresa. Ciò non perchè risponda a verità, ma per uno strano pudore che hanno gli artisti a firmare col proprio nome gli elogi che essi stessi compilano e diramano. La cosa produce talvolta delle incresciose controversie. Per esempio:

«Teramo, 25. – Norma Sociale segnò grande trionfo magnifica protagonista... Stampa concorde inneggia arte voce resistenza proclamandola vera colonna stagione».

E subito più sotto:

«Teramo, 25. – Pubblico enorme acclamò superbo Pollione.... Egli concordemente giudicato voce intelligenza fraseggio gioco scenico assoluta colonna spettacolo».

Tutti e due i dispacci sono firmati, si capisce, Impresa. Le colonne si innalzano dunque l'una dopo l'altra con incredibile rapidità. Ed è con queste varie colonne che si viene formando il pantheon degli artisti celebri.

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Il calmiere di tanto entusiasmo ha scelta la sua vastissima sede in Galleria, in quel vivaio del mondo lirico che per molte ore della giornata si agita dentro e fuori del Biffi o del Campari. Qui la verità vera non riesce a mascherarsi in nessun modo. Qui, si sa tutto. Spesso si sa anzi di più di quello che effettivamente non sia, e il pettegolezzo a volte gustoso, a volte sanguinosamente atroce, dà origine ai commenti più indescrivibilmente curiosi.

Dal rettangolo della Galleria non soltanto si giudicano le sorti dei vari teatri italiani, ma si varcano mari e monti, si va in America del sud e in America del nord, si conosce in ogni più sottile dettaglio la vita di una compagnia lirica dal suo imbarco a Genova al suo sbarco a Buenos Ayres, al suo debutto al Colon o al Coliseo alla sua tournée al Cile, al suo ritorno: quanti amanti e quali amanti hanno le prime donne, quale dei tenori faccia veramente l'interesse dell'impresa; se il successo di un determinato baritono abbia o non abbia consistenza, se il direttore d'orchestra esiga speciale gratitudine dal soprano drammatico, se la mezzo-soprano trascurata abbia veramente svelata la tresca alla moglie del maestro... Insomma, si sa tutto. Di tratto in tratto con i vari corrieri giungono corrispondenze illustrative e segretissime, fasci di giornali e fasci di libelli; c'è il bene informato e quello che conosce gli avvenimenti a un dipresso; il bonario che indulge e il maligno che insiste e propaga. A volte la maldicenza ha essa pure una base affaristica: demolire uno per innalzare l'altro; denigrare un teatro per sostenere il teatro concorrente. A volte anche la diceria non ha nessun carattere; è fatta per passare il tempo, per la necessità di smuovere un poco la monotonia di questa vita oziosa in apparenza e pur laboriosissima di intrighi, di sotterfugi, di trappole, di ingiustizie.

C'è chi questa vita vive da anni e non sa e non può più staccarsene.

Qualche anno fa bazzicava al Campari il segretario di un tenore. Egli, morto di fame, aveva accettato questo titolo pomposo che nascondeva un più umile ufficio. Nella famiglia tenorile faceva un po' di tutto; dal lavare i piatti all'accompagnare a scuola i bambini. Nei ritagli di tempo piombava in Galleria di tutta fretta, assumeva in pochi minati quante più indiscrezioni d'ogni genere riusciva a raccogliere e se ne ritornava alla casa ospitale, beato, allegro, soddisfatto. La sua vita era una gioia continua, perchè ogni giorno qualcosa di nuovo, di gustoso, di appetitoso c'era da apprendere. Per una combinazione un giorno gli fu offerto un buon posto in una azienda commerciale: era l'avvenire assicurato e il segretario bambinaio e lavapiatti accettò. Ma il principale che lo conosceva bene gli aveva imposta una sola condizione, atroce, terribile: non mettere più un piede in Galleria, pena il licenziamento immediato. Nel bivio tremendo, fra un avvenire onorato, e una rinuncia dolorosissima, il giovanotto riuscì a trovare una via d'uscita: ogni giorno, alle due precise, sull'angolo di via Meravigli egli aveva un appuntamento con un amico della congrega. Colloquio misterioso di dieci minuti. Notizie della giornata lirica precise e complete. Stretta di mano vivissima. Distacco quasi felice: egli sapeva! poteva ritornare al suo ufficio contento come una pasqua.

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Ecco, in brevi tratti, un riflesso del retroscena del mondo canoro. Il riflesso che giunge ai nostri occhi, cioè a quelli del pubblico, è molto diverso. Tale infatti da abbacinare miriadi di falene che vi si abbruciano miserevolmente le ali.

Ma nessun esempio, nessuna verità potrà mai arrestarle. Il sogno è sempre quello, sempre radioso attraverso ogni miseria e ogni difficoltà.

Esso si riassume con efficacia assolutamente priva di ortografia e di grammatica in questa dedica che riproduco esattamente dalla fotografia di una bella prima donna a un influentissimo agente teatrale:

«Vorrei che questo Immagine, col suo desiderio e aiuto prenderebbe posto fra i Stelli dell'Arte».

GIUSEPPE ADAMI

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