Ipazia

Augusto Agabiti

Augusto Agabiti

Ipazia

La prima martire
della libertà di pensiero

Ipazia

La prima martire
della libertà di pensiero

[...] Bellezza, ingegno, dottrina la rendevano celebre in tutta la città e grande era il prestigio di cui godeva [...]

[...] Partecipava alle assemblee di uomini dotti, insegnava, come Socrate, anche nelle strade a chi volesse udirla, cercando in questo modo di opporsi alla prepotenza della propaganda cristiana [...]

[...] Il pericolo non la trattenne dal continuare il suo insegnamento anche in pubblico.

«Quando io ti vedo e odo la tua voce ti adoro, guardando la casa stellata della vergine: poiché i tuoi atti si estendono al cielo, o divina Ipazia, ornamento di ogni discorso, stella purissima dell'arte della sapienza»        (Pallada)

Le Parche, dicevano gli antichi Greci, divinità misteriose, tessono, tessono in telai d'alabastro, con fili bianchi e rossi, una tela mortale: per dare vesti, veli, alle scintille del Cielo, alle anime.

Il telaio d'alabastro è lo scheletro umano, i fili policromi sono i nervi, sono le vene e i fasci di fibre della carne.

Talvolta non scintille cadono stelle, prive del natural fuoco distruttivo, ma costituite di sola luce.

Che in questo basso mondo terreno perfezionino nelle esperienze del dolore anime rozze, è di regola; d'eccezione invece la discesa quaggiù di enti pel completo evoluti, sostanze costruite di soave melodia.

Quando tal fatto avviene c'è una ragione: sono pure Essenze, dicevano i Greci, sono Eroi, uomini cioè molto vicini agli Dei, e che scendono o per purificare la Terra dai mostri, come Teseo ed Ercole, o per servire altri d'esempio: Lino, Museo, Orfeo...

Questi spiriti eccelsi, per vie diverse, con la musica o con l'architettura, la matematica o la poesia o la forza, compirono la missione celeste, espresso la copia delle idee sempiterne che portarono nella mente dall'alto.

Molte, nel mondo, appaiono spiccate e preclare, le inclinazioni dell'animo umano; e per quante ve ne sono di singolari, tante classi enumeriamo di uomini.

Chi alle opere rudi; chi alle arti gentili. Viene alla vita, pieno di forza, esuberante, alcuno ch'è pronto alle lotte sanguinose; e giunge pure qui, con naturale di squisiti sentimenti, tale ch'è fatto per commuovere e per affratellare.

Saranno: quegli che in altre esistenze molto ha lottato, guerriero, e filosofo o poeta questi che anni diede alle meditazioni ed agli intensi amori.

Così dai primi tempi storici: e avviene tuttora.

Ma anche fra i più nobili uomini eccellono alcuni, i quali ebbero riepilogate nella mente tutte le facoltà supreme. Sono quelli che sanno praticare gentili virtù femminili nei contatti con gli altri, e per sé quelle virili. Hanno il giaco, per usare un paragone medievale, sotto il giustacuore di velluto! Armonizzano, raccolgono essi tutte le doti sublimi dell'anima, formate nella personalità con tanti affanni, nelle vite passate, e di più v'aggiungono, quale vittoria ultima e nuova della propria evoluzione spirituale, la coscienza dell'essere proprio e della missione divina.

La dottrina reincarnazionista della scuola filosofica neoplatonica, alla quale appartenne Ipazia, può solo spiegare certi ricorsi storici altrimenti sibillini, e soprattutto il mistero di alcune vite eroiche, dei grandi lottatori per la liberazione morale e spirituale dell'Umanità.

Occultista, matematica, oratrice, di tale schiatta spirituale è la greca Ipazia alessandrina, la quale per essere stata della gloriosa schiera dei pensatori pagani riformatori del platonismo, e aver difeso dalla cattedra la libertà di coscienza e di scienza, straziata, dalla plebaglia cristiana, incominciò la lunga e pietosissima serie dei martiri della Ragione.

I pochi materiali storici qui raccolti serviranno a dare un'evanescente e imprecisata idea della personalità spirituale e mentale spiccata, della perfetta figura etica della grande assassinata; ma nondimeno saranno bastevoli, speriamo, a dimostrare che fu ispirato Vincenzo La Bella quando scelse come soggetto per un affresco del palazzo nuovo destinato a sede dell'Università di Napoli, la scena straziante e grandiosa della fine d'Ipazia in un tempio, sotto la clave e i pugnali dei settari nazareni.

Allora, quand'ella visse, Alessandria aveva toccato l'apogeo dello splendore nelle scienze, nelle arti e nella letteratura. Il mondo greco (le sette filosofiche e religiose del paganesimo), vi combatté l'ultima e infelice battaglia contro il dilagante prepotere del cristianesimo.

Dall'un lato v'erano idee mortali, difese da uomini grandi, dall'altro stava un ideale immortale, propugnato da indegni sacerdoti e da infime plebi.

Come reazione all'assalto dei satrapi, il mondo greco aveva avuto un movimento d'espansione nell'Oriente mediterraneo, giù fino all'India.

Le conquiste asiatiche del Macedone, l'apertura del delta del Nilo al commercio mondiale, la costruzione di Alessandria con un celebre foro e colossali istituti di cultura, mutano radicalmente l'Egitto antico, e lo asservano di fatto alla Grecia.

In Alessandria viene sistemato, approfondito, raccolto e sublimato, quanto da pensatori solitari, da scuole avversarie, in tempi e luoghi disgiunti, era stato pensato nella terra ellenica e nel mondo barbarico.

Una folla multicolore approda al suo porto; dottrine pure strane e di cento civiltà, l'oratoria di dotti greci asiatici o africani fa penetrare nelle aule del suo Museo tolemaico.

Ogni dottrina scientifica o religiosa, v'annovera qualche rappresentante famoso.

La ristretta concezione mosaica s'allarga e si perfeziona; il paganesimo, fuso con la filosofia idealistica greca, sistematizza; il neoplatonismo occultista sorge; il cristianesimo, si afforza e si nobilita: l'unificazione di tutte le fedi e di tutte le religioni con la Scienza, diviene il programma filosofico, teosofico, della parte più colta dei pensatori.

Il mondo asiatico e greco romano politeista si affronta con quello giudaico e cristiano.

Energie potentissime il cristianesimo acquisisce in questa lotta, poiché ben per tempo, come ricorda Carlo Pascal, venne fondata ad Alessandria una cattedra di filosofia cristiana, che si trova menzionata col nome di scuola delle sacre parole, e alla quale appartenevano Clemente e Origine.

Ammonio Sacca, Plotino, Porfirio, Giamblico, Olimpiodoro, Proclo, Marcione, Filone, Sinesio, Eunapo, Teofilo, Eudesio, Crisanto, Giuliano imperatore e filosofo, Massimo di Tiro, creano in Alessandria scienze e problemi della mente e della vita, tuttora presenti e grevi nella moderna società.

Ipparco aveva scoperto le precessioni degli equinozi; Eratostene misurava la terra, Tolomeo infine e Strabone avevano raggiunto la massima fama scientifica, fissando quegli un sistema astronomico, il quale doveva durare mille e duecento anni, accettato dalla Chiesa Romana e da Dante, descrivendo questi, secondo lo stato della scienza del tempo, la Terra intera.

E d'Alessandria furono Euclide, geometra; Cresibo, Erone e Apollonio, fisici.

Insieme al Museo per l'insegnamento, v'erano giardini zoologici e botanici, sale di anatomia per la scuola di medicina: perfino, credesi, laboratori di vivisezione... umana!

La Biblioteca, descritta in tante opere antiche e moderne, sarebbe stata distrutta, secondo la leggenda, dal califfo Omar; mentre sembra che autori di tanto disastro per la civiltà siano stati Cesare, prima, in maniera affatto casuale, e poi, coscientemente, Teofilo vescovo, il quale fu distruttore parimenti del tempio meraviglioso dedicato a Serapide e di altri monumenti della civiltà greco-orientale.

Ipazia stette per molti anni a capo della scuola dei neoplatonici, nel IV secolo.

Ho già detto che questi volevano la fusione di tutte le Chiese e l'armonizzazione teoretica di quanto si sa con quel che si crede.

Fu uno sforzo nobilissimo: il tentativo di prevenire, di allontanare dal mondo quattordici secoli e più di medioevo!

Oh se la voce di Ipazia e dei suoi fosse stata ascoltata!

Ma i pretoriani di Cesare, prima; ma i barbari che urgono poi sulle frontiere; ma i cristiani fanatizzati della Tebaide, e il malgoverno bizantino, tutto distruggono e radono al suolo.

* * *

Ipazia non è la sola donna greca che rappresenta il pensiero occultista: v'era stata prima la bella e sdegnosa Teano, moglie di Pitagora; Diotima, ispiratrice di Platone; e infine, con altre, Asclepigenia, figlia di Plutarco d'Atene, che diresse ivi la scuola segreta di spiritualismo greco-orientale, chiosando il famoso volume degli Oracoli Caldei.

Ma scarsi, e d'indagine difficile, sono i documenti, le notizie che abbiamo su Ipazia: molto poco ella è conosciuta e ammirata nei nostri tempi.

L'importante Dictionnaire biographique dell'Heffer appena la menziona; e quasi insignificanti accenni troviamo nelle enciclopedie, sulla vita e sulle opere sue.

Qualche storico della matematica la ricorda per libri di geometria e di astronomia; qualche altro scrittore la glorifica quale martire della libertà di pensiero; ma ciò è tutto.

Come visse, che cosa pensò, che scrisse, chi amò, in qual maniera e perché morì, e soprattutto che cosa insegnò a tanti e illustri discepoli, non viene ricordato nei libri più letti e-consultati oggi dagli studiosi.

Il Cantù, nella Storia Universale, scrisse soltanto: «Teone, professore in Alessandria, commentò Euclide e Tolomeo; e fu più famoso per la bella Ipazia sua figlia. Da lui imparato le matematiche e perfezionatasi ad Atene, ella fu inviata in patria a insegnare filosofia; e seguiva gli eclettici, fondandosi però sopra le scienze esatte, e introducendone le dimostrazioni nelle speculative; col che le portò a metodo più rigoroso...».

Qualche monografia è stata scritta in Germania, in Francia e in Inghilterra, su Ipazia; ma anche questi sono studi incompleti e di data non recente.

In italiano abbiamo un Poema d'Ipazia ossia delle Filosofie, del quale uno scrittorello del Giornale Arcadico, dell'anno 1827, ci dice «essere stato mandato alla luce dalla marchesa Diodata Saluzzo Roero», e di superba fattura; ma a giudicare dai pochi luoghi riferiti, si tratta di una poesia di ben poco valore artistico e di niuno storico.

Basti osservare che l'autrice, per la quale il recensionista ha una vera e propria cornucopia di lodi entusiastiche, riteneva la nostra eroina una martire cristiana, mentre, come diremo, fu appunto vittima di fanatici monaci della Tebaide torrida e desolata, i quali distrussero il suo bel corpo come avevano abbattuto i marmi delle religioni antiche: il tempio meraviglioso detto Serapeo, e le rovine imponenti di Tebe e di Menfi.

Cito qualche verso:

Languida rosa sul reciso stelo
nel sangue immersa la vergin giacea
Avvolta a mezzo nel suo bianco velo,
Soavissimamente sorridea
Condonatrice de l'altrui delitto,
Mentre il gran segno redentor stringea.

In italiano abbiamo pure uno studio del Bigoni, un dotto articolo del Faggi, e un saggio elegante di Carlo Pascal.

Il miglior lavoro, per l'estensione e per la conoscenza delle fonti, è quello del Bigoni.

Questi pochi scritti, insieme a un articolo della Revue contemporaine e a una piccolissima biografia pubblicata nella rivista «Preussische Jahrbücher» (Berlin, 1907), formano la ristretta letteratura fiorita su questo argomento nel secolo XIX e nella prima decade del XX.

E anche gli studi del Bigoni e della Revue contemporaine hanno un errore d'origine, perché frutto di menti devote del cristianesimo e sue ammiratrici in maniera esagerata ristretta, e quindi pure involontariamente partigiana, perché non fanno menzione del lato più importante della figura e dell'insegnamento d'Ipazia: non conoscono o rifiutano di apprezzare le sue idee di spiritualismo classico pagano.

Seguace di un sistema eclettico di filosofia, restò refrattaria all'esclusivismo cristiano; forse anche perché conosceva molte parti allora ignote ai cristiani, se non coltissimi, del politeismo greco-orientale decrepito e non capiva la necessità di abbracciare la religione nuova più di forme che non d'idee: predicazione la quale rappresentava pei conoscitori dell'antica Gnosi, soltanto un adattamento nuovo, una volgarizzazione poco profonda e molto popolare dei Veri conosciuti da essi per eccellenza.

I cristiani cimentavano al paragone le credenze proprie e quelle del paganesimo ormai consunto, i Gentili dotti comparavano il cristianesimo alla religione dei loro padri, nei suoi secoli d'oro, e lo stimavano o pari o inferiore alla filosofia orfica ed eleusina.

Seguo perciò l'opinione dell'Aubé, il quale, parlando delle convinzioni religiose di Ipazia, esprime il parere ch'ella, probabilmente, avesse accettato il punto di vista di Temistio e dei pagani contemporanei più illuminati; i quali dicevano «che i culti, essendo soltanto forme esterne ed espressioni particolari del sentimento del divino, non sono differenti l'uno dall'altro, che vi sono molte vie per giungere a Dio, e che ognuno è libero di scegliere quella che più gli aggrada».

Non posso né voglio colmare il vuoto lasciato dai biografi di Ipazia, dovendomi tener pago d'esporre qualche notizia ma credo che se in avvenire taluno studierà la sua vita, profondamente, da questo punto di vista dimenticato, farà opera nova, e, quel che più importa, di gran pregio storico.

In tal modo potrà spiegare ai dotti un perché rimasto molto oscuro alla maggior parte dei biografi di Ipazia, la ragione, voglio dire, del meraviglioso fascino, esercitato da lei su tanti, per così lungo tempo, nella città del mondo allora più sapiente e cosmopolita.

Teone d'Alessandria, matematico famoso, ultimo della lista dei membri del Museo, ebbe per figlia Ipazia.

Fu scienziato, filosofo, occultista, geometra, astronomo, profondo esegeta dei classici. Il suo Commentario all'Almagesto di Tolomeo, è stimato ottimo su tutti i lavori di astronomia, della scuola alessandrina.

Il Bigoni, seguendo Suida e altri pochi scrittori del tempo, dice che fiorì, insieme con Pappo, sotto Teodosio Magno (sec. IV), e che probabilmente era già uomo maturo quando Teodosio salì al trono. Teone si occupò specialmente di meccanica e di astronomia, tanto che si ricorda avere osservato un'eclisse solare e una di luna.

Ipazia nacque poco prima dell'anno 370: nel 400, a trent'anni, sotto l'impero di Arcadio, aveva già acquistato fama mondiale.

È storicamente accertato che la sua città natale fu Alessandria. Il padre che le impose la gloria di tanto nome («sublime», «eccelsa») fu quasi dotato di spirito profetico.

Sappiamo che la nobilissima ebbe un fratello chiamato Epifanio, pel quale Teone scrisse il libro intitolato Introduzione agli Elementi di Euclide.

Studiò col padre filosofia e scienze esatte. Come voleva Pitagora, la geometria le servì di primo avviamento all'esame dei problemi dell'anima.

Però l'imperatore Arcadio perseguitava, pur esso, i pagani e i liberi pensatori.

Infatti Bisanzio e non Roma diede il carattere di religione di Stato al cristianesimo, eresse a sistema, nella Chiesa, la persecuzione degli eresiarchi.

Lo studio dei fenomeni e dei problemi metafisici, concernenti l'ultrasensibile, era molto importante per Ipazia, la quale seguiva i dettami del padre, autore di scritti matematici e magici, come pure accenna il Faggi. Compì gli studi nel Museo; ma non si può affermare che vi sia stata aggregata, pel fatto che il padre fu membro di questa istituzione.

Certo deve avere ascoltato con grande larghezza di vedute, dottrine di ogni scuola, perché tanto Damascio quanto Socrate Scolastico la dicono dotta nella filosofia neoplatonica e nella sapienza aristotelica e dei maggiori.

Alcuni biografi asseriscono che si recò a fare gli studi ad Atene, e si fondano su di un passo di Damascio riferito da Suida. Questa dimora ad Atene avrebbe avuto grande importanza per lei, giacché Plutarco aveva aperto ivi una scuola di filosofia e di gnosticismo.

Sembra che Plutarco apprendesse occultismo neoplatonico dal padre Nestorio, il quale, al dire del Bigoni, fu discepolo di Giamblico; e fu molto dotto e stimato pontefice del corpo sacerdotale, sotto l'impero di Valentiniano.

«Tutti sono d'accordo nel riferire che Plutarco insegnasse con un certo successo», dice la scrittrice della Revue contemporaine, «allorché Ipazia andò ad Atene».

Il suo insegnamento aveva come punto di partenza Aristotele, di cui esponeva la dottrina parallelamente a quella di Platone, ma non si limitava più alle questioni aride della scuola greca. La scienza per eccellenza che Plutarco aspirava a propagare era quella degli Oracoli caldei; e, da questo punto di vista, il filosofo era divenuto piuttosto un teosofo che non un maestro di filosofia.

Sua figlia, l'ardente Asclepigenia, comunicava questo sapere divino a qualche adepto favorito.

Il suo insegnamento era quasi segreto, e, sebbene in tale epoca fosse già condiviso da un piccolo numero, più tardi doveva essere ristretto ancora di più, e divenire una semplice tradizione famigliare.

In questo ambiente Ipazia forse è vissuta.

Sugli Oracoli caldei ha scritto di recente G. R. S. Mead un'opera di piccola mole, che costituisce i volumi VIII e IX della sua interessantissima collezione di testi e di commenti sull'occultismo classico e orientale, intitolata Echoes from the Gnosis.

I Greci, raccogliendo in Alessandria il sapere dei più grandi popoli della Terra, furono in particolar maniera impressionati dalla grandezza e potenza delle tradizioni sacre dell'Egitto e di Babilonia. Adattando alla loro psiche, ai loro abiti mentali, tali tradizioni, spiegandole e rafforzandole, per beneficiare i posteri, con ragionamenti filosofici, produssero quelle grandi opere del pensiero, tanto ignorate: i libri ermetici e i canti caldaici.

Nei primi stavano riassunte le dottrine egiziane, e nei secondi, per aiuto dei soli iniziati all'occultismo orientale, quelle babilonesi e assire.

Si parlava in essi, con frasi molto laconiche, del Principio supremo, dell'Unione mistica, della Monade e della Dualità, della Gran madre, degli Eoni, dell'Emanazione delle idee, dell'Amor divino, dei Sette firmamenti, della natura del Cosmo, delle Leggi del mondo sensibile, degli Spiriti.

Altre sentenze davano insegnamenti sull'anima umana, sui veicoli e strumenti della forza spirituale dell'uomo, sulla schiavitù e liberazione delle anime, sul potere purificatore delle potenze angeliche, sulle virtù morali, sull'arte della Teurgia e della Pietà.

E v'è ragione di credere al viaggio in Atene, anche pel fatto che Ipazia portò in Alessandria, appena incominciò a insegnare, il fascino d'idee non comuni e ignote ivi nella forma com'essa le esponeva. La scrittrice della Revue allude all'ipotesi di un'influenza dell'insegnamento occultista di Plutarco e di Asclepigenia, su Ipazia e nota che «nell'attività intellettuale di Alessandria vi è una specie di infiacchimento quando d'un tratto Ipazia sorge e vi riaccende lo spirito di investigazione filosofica. Né si sa con quali mezzi abbia potuto operare tanta trasformazione; tutto fa credere che avesse portato dal suo viaggio in Grecia qualcosa di veramente originale».

Ampliò grandemente le sue cognizioni filosofiche e scientifiche, e non ebbe certo, di fronte alla causa che sosteneva, la responsabilità attribuita agli oratori brutti e spiacenti, della scrittrice leggiadra giapponese Sei Sônagon: «Un predicatore — parla Sei — dev'essere un uomo di bell'aspetto. Perché allora è più facile di tenergli gli occhi addosso, senza di che sarebbe impossibile profittare di ciò che dice. Se gli occhi si distraggono, infatti, e si voltano qua e là, si dimentica di stare a sentire. I predicatori brutti hanno dunque una grande responsabilità» (v. Abbozzi del guanciale, versione di P. E. Pavolini).

La stessa società alessandrina, raffinatamente istruita e mondana, finemente esteta, trovò leggiadra e grata la compagnia dell'illustre filosofa.

In Alessandria, dicono le fonti, era divenuto di moda il filosofare frequentando la società di una donna attraente per tante virtù e bellezze. Sebbene superiore agli amici e discepoli suoi, essa li trattava con modi gentili e famigliari, franca e dignitosa in un tempo.

«Non si vergognava — dice Socrate Scolastico — di comparire ad un'assemblea d'uomini, perché tutti la rispettavano e onoravano».

La sua virtù, per unanime attestazione, era superiore a qualunque sospetto...

Si racconta che una volta un suo giovane discepolo, bello e gentile: «Ipazia! — le dicesse — Ipazia io muoio d'amore per te!». Ella non si commosse né lo cacciò ma, chiamata una domestica, le comandò di portare panni e filacce che prima aveva tenute su di una piaga, e fattele vedere al giovane, gli disse: «Vedi, la mia bellezza è soltanto apparente, disingannati, poiché anche io sono di carne, di materia vile, cioè, e di putredine!». Pensate: era una donna che parlava così!

E altra volta, ricorda il Chateaubriand, un altro languiva d'amore per lei; la giovane platonica impiegò la musica per guarire il malato, e fece rientrare la pace, per mezzo dell'armonia, nell'animo che aveva turbato (Traditur Hypatiam oye musicae illum a morbo isto liberasse). E non è uno strano caso! In risposta al Brunetière, uno scrittore francese osserva che per i turbamenti del sentimento la musica è salutare. «La natura è l'impero della musica, ma lo è soprattutto la natura umana. San Tommaso d'Aquino parla della musica e della musica vera, pura, religiosa — con simpatia e tenerezza. Afferma (ed è vero) che la musica ci libera dal mondo esteriore, ci riconduce all'interno, centro immobile e libero dell'anima».

Infine Ipazia si maritò. Forse non scelse uno sposo, ma un fratello: era l'amore platonico dei neoplatonici!

* * *

Ipazia ebbe un grande numero di scolari, e molti furono illustri. Sinesio ricorda Esichio, Ercoliano e Olimpio che trova a Costantinopoli. Essi ebbero per Ipazia ammirazione e devoto amore. Assiduo alle sue lezioni e innamorato sì da offrirlese sposo, fu Oreste, prefetto dell'Egitto.

Filostorgio afferma ch'ella fu superiore al padre, specialmente nel'astronomia; e Damascio la contrappone, per la geometria, al dotto scrittore Isidoro.

Pallada, poeta, le dedicò un famoso epigramma che fu trascritto nell'Antologia.

Sinesio, vescovo di Cirene, amato e venerato poeta e pastore, è il discepolo più affezionato d'Ipazia.

Da Cirene imprendeva spesso il viaggio per Alessandria, al fine di riabbracciare lei e gli amici.

Infatti presso uno di questi, di nome Ercoliano, si fa merito di avergli fatto conoscere in quella città «un miracolo ch'egli conosceva solo di fama — così scrive Sinesio — rendendolo spettatore e auditore di quella donna straordinaria che altrui apriva i misteri della vera filosofia».

E altra volta (Epist. 10, confr. patrol. gr., vol. 66, col. 1347): «Sono rimasto solo, senza i figli miei e senza tutti gli amici maggiormente cari, e quel ch'è più, dimenticato dalla divina anima tua, che io speravo a me rimanesse più forte e degli assalti della fortuna e dei flutti del destino».

Sinesio, fra l'altro, fu autore di un Trattato dei Sogni, composto in una notte e inviato a Ipazia perché lo leggesse e giudicasse.

Il fatto è da notare, per l'importanza data in ogni tempo dai filosofi ai fenomeni misteriosi del sonno.

In un'altra epistola di Sinesio a Ipazia, quando già i tempi erano foschi e calamitosi, leggiamo: «Infermo, dal letto ti scrivo questa lettera; possa riceverla stando bene, tu mia madre, sorella, maestra, benefattrice e degna di quanti titoli sono maggiormente onorevoli e pur sempre inferiori al tuo merito...».

Ed ecco qualche frase toccante e famosa: «Se l'oblio avvolge i mortali, di là dall'Erebo — così scriveva altra volta, da Tolemaide assediata dai barbari — là pure io mi ricorderò ancora d'Ipazia; poiché io me ne ricordo qui, in mezzo alle miserie della mia patria, schiacciato dalla vista dei disgraziati che soccombono, e respirando il fetore dei cadaveri ammonticchiati, nell'attesa di partecipare alla loro sorte. (Poiché chi v'è ancora che possa sperare, se l'aria stessa ci è nemica e oscurata dagli uccelli rapaci che agognano alle carogne?). Pure a questa mia terra sono inchiodato. E come nol sarei, se son Libio e di qui sono i miei maggiori, onde veggo le inclite tombe? — Per te sola, credo, oblierei anche la patria e, appena potessi, la lascerei» (Ep. 124).

L'insegnamento filosofico di Ipazia è andato perduto.

«In quel tempo i filosofi che avevano grandi successi oratorii scrivevano poco. Edesio non volle che si raccogliessero le sue lezioni, Plutarco pure, e permise soltanto a Proclo di scrivere qualche frammento negli ultimi anni».

Eppure ci rimangono i titoli di tre scritti di Ipazia, ossia: il Commentario a Diofanto, il Commentario al Canone astronomico e il Commentario alle sezioni coniche d'Apollonio Pergeo.

Per formarci un chiaro concetto del sistema filosofico di Ipazia, non essendoci rimasto nessuno scritto suo, dobbiamo ricorrere allo studio dei ruderi delle opere di Senesio, suo prediletto allievo; appunto come si studiano gli Evangelisti per intendere Cristo, e si leggono Platone e Senofonte, per comprendere Socrate.

Si giova talvolta lo storico del metodo usato spesso dal pittore greco di terrecotte.

Con brevi e fitti tratti di color nero questi copriva la superficie del vaso tutt'attorno escludendo l'esiguo spazio che l'immagine, se dipinta, avrebbe occupato; sicché il rosso naturale della creta, rimasto senza segno né macchia finiva per segnarlo con vivacità inattesa.

Lo scultore sempre suole impiegare questa tecnica che afferma negando. Perizia somma è in lui: vedere intera di contorno e d'espressione la più bella e vivente fra tutte le statue che il macigno, perfettamente l'una nell'altra compenetrata e inclusa, serbasi senza tradirle; e d'isolarla a colpi di scalpello, togliendole d'attorno le membra delle altre che, quasi per invidia, la stringono e la celano, di lei meno belle o deformi.

Dionisio Petavio fu il traduttore italiano delle lettere del vescovo cristiano e filosofo neoplatonico Sinesio.

Era questi deista, naturalmente; e la sua fede confessò con squisite espressioni, in un memorabile discorso detto in presenza dell'imperatore Arcadio, nell'intento di ottenere aiuti a Cirene minacciata di morte.

Egli dice che gli uomini non hanno ancora potuto trovare un nome che esprima di Dio tutta l'essenza, ma che tentarono di significare per mezzo delle opere sue: Padre, Creatore, Principio, Causa, tutte maniere indirette e manchevoli di cercarlo nelle cose da lui provenienti.

Quanto all'esistenza d'insegnamenti segreti, è facile averne testimonianza dallo stesso Sinesio: «Nelle ordinarie conversazioni non parlo mai se non di cose comuni e anche quando scrivo ai filosofi nulla di chiaro dico nelle lettere, per timore che cadano in altre mani».

Nell'Epistola 142 è scritto: «Crisanto non aveva svelato a Esculapio i segreti filosofici, se non vent'anni dopo che aveva cominciato a istruirlo nelle lettere».

Una volta però Sinesio aprì lo scrigno d'antiche gemme dinanzi a un compagno di ricerche chiamato Ercoliano, facendosi promettere che nessun altro avrebbe saputo qualcosa; e fu imprudenza, perché l'amico parlò alla sua volta, e Sinesio dovette rimproverarlo con una lettera nella quale insistette con molto calore nella necessità di saper tacere: scritto per noi molto importante.

Da ciò risulta che Ipazia mantenne la massima fissata da Plotino. Il Matter, nella Storia dello Gnosticismo, sostiene che il legame fra Ipazia e Sinesio è il solo esempio di rapporti fra i neoplatonici e i gnostici (t. II, sect. III, c. 6) e che negli inni di Sinesio il neoplatonismo è associato alle credenze ortodosse insieme coi principi gnostici: nonostante le opposte asserzioni e confutazioni di altri scrittori.

Tempi d'intransigenza, il segreto era diventato strettamente necessario.

Già si faceva sentire lo spirito settario dei Bizantini i quali avevano mostrato di volere parteggiare per il Cristo dimenticandolo; sostenendolo cioè con la sofistica e col tumultuare: come solevano i causidici la mala causa, o gli azzurri e i rossi, al circo, per un destriero di Mauritania.

* * *

La filosofia neoplatonica era tutta occultismo, come ci attestano il Bandi di Vesme, l'inglese Mead nei libri su Plotino e sui Frammenti di una fede obliata, la Blavatsky, e il Matter.

«Yet no sect or school counted so many decepti deceptores — scriveva Max Müller (v. Theosophy or Psychological religion, p. 429) — as that of the Neo-Platonists, Magic, thaumaturgy, levitation, faithcures, thought-reading, spiritism, and kind of pious fraud were practised by impostors, who travelled about from place to place, some with large followings.

«Their influence was widely spread and most mischievous. Still we must not forget that the same Neo-Platonism counted among its teachers and believers such names also as the Emperor Julian (331-363), who thought Neo-Platonism strong enough to oust Christianity and to revive the ancient religion of Rome; also, for a time at least, St. Augustine (354-430), Hypatia, the beautiful martyr of philosophy (d. 415), and Proclus (411-485), the connecting link between Greek philosophy and the scholastic philosophy of the middle ages, and with Dionysius one of the chief authorities of the mediaeval mystics...» (pp. 429-430).

E l'Haret scrive: «Già riassumendo le dottrine di Platone — Le Christianisme et ses origines, «Revue Moderne», 1867 — vi troviamo intera la filosofia cristiana. In morale l'esaltazione dell'anima e il disprezzo dei sensi; il distacco dalla terra e dalla stessa esistenza... la condanna del suicidio, la purezza, l'umiltà, la proibizione di rendere il male per il male. Non vi si trova abbastanza la carità verso il prossimo... In teologia vi si trova un Dio supremo — e piuttosto unico — ineffabile, del tutto spirituale; una fede ragionata nella Provvidenza, l'avversione per l'empietà, le idee di un giudizio dopo morte, che assegna alle anime il castigo e il guiderdone...».

I neoplatonici non volevano credere soltanto, sia pure basando la fede su ragioni filosofiche; ma, sviluppando enormemente le dottrine platoniche, diedero fondamento scientifico agli assunti filosofici del Maestro.

Per riuscire, unirono alla filosofia la teurgia.

La scuola neoplatonica ebbe molti rappresentanti dottissimi, che fiorirono dal secolo III al secolo V d.C. Ricordiamo Ammonio Sacca, fondatore di questa scuola (n. 175, † 250 d.C.), Longino, sommo critico (n. 213, † 273 d.C.), Plotino, il più famoso di tutti (n. 205, † 270 d.C.); e quindi Porfirio, discepolo di quest'ultimo (233 d.C.), Giamblico († 330 d.C.), Ipazia (n. 370, † 415 d.C.) e infine Proclo (n. 410, † 485 d.C.).

Il più grande dottore e scrittore è Plotino, nato a Nicopoli (in Egitto), il quale trae molto profitto dalle dottrine neopitagoriche e giudaiche filoniane. Porfirio, suo biografo, ne pubblica, sotto il titolo di Eneadi, le cinquantaquattro dissertazioni e le divide in gruppi di nove: dei quali il primo tratta dell'Uomo, il secondo della Fisica, il terzo del Cosmo, il quarto della psiche, il quinto della Mente, il sesto dell'Uno.

Egli ammetteva una divinità unica, dalla quale erano emanati gli spiriti della Terra e del Cielo, nominati dèmoni (allora la parola non aveva assunto il significato di «enti del male» — o «diavoli» — come avvenne poi nel M. E.), e le anime umane.

Questi dèmoni o spiriti erano divisi in categorie. E, come tutti gli antichi popoli ci parlano di specie diverse di entità spirituali e astrali, e come gli Israeliti e i Cristiani insegnano esistere nei cieli la gerarchia degli Angeli, così Giamblico distingue i dèmoni in Arcangeli (ἁρχαγγελοι), Angeli (ἀγγελοι), Demoni propriamente detti (δαίμονεξ), Eroi (ἤρωεξ), Arconti (ἄρχοντεξ). Le Enneadi di Plotino e il Libro dei Misteri di Giamblico, trattano di demonologia, ossia di spiritismo.

Il culto di molti alessandrini consistette allora in omaggi resi ai buoni dèmoni; in esorcismi, in purificazioni contro i cattivi: era il moderno spiritismo applicato alla vita!

Queste pratiche formarono la Teurgia, ovvero Magia bianca; invece, la scienza di coloro che si posero in comunicazione con malvagi spiriti, per scopi riprovevoli, fu detta Goezia, o Magia nera.

Come coi dèmoni, così credettero i neoplatonici di poter comunicare con gli spiriti degli estinti. Proclo considera le anime dei morti quali dèmoni, ossia divinità protettrici dell'uomo, e se le propizia con riti funebri ed espiatori; similmente fa Crisanto.

Giamblico dice: «Quanto ai fantasmi delle anime, somigliano a quelli degli Eroi (ἤρωεξ), pure essendo più deboli», e fornisce parecchie spiegazioni particolari delle supposte loro manifestazioni.

«Giamblico — scriveva dunque lo storico dello spiritismo Baudi di Vesme — cadendo in estasi, veniva talora sollevato in aria di dieci cubiti, come spesso succedeva ai Santi cristiani; allora si trasfigurava, il suo capo s'attorniava di un'aureola lucente». Eunapio dice però che «Giamblico, interrogato intorno a' suoi miracoli, o per modestia o per altro, sorrise, benché non fosse uso dipartirsi da un atteggiamento grave».

Un giorno Proclo è ferito al piede da un insetto che gli produce un'ulcera profonda; ne è risanato per cura dello stesso Esculapio, il quale, viene a medicarlo. Altra volta il filosofo si rompe un braccio, cui i medici applicano un apparecchio per farlo risanare. Un uccello scende dall'alto e toglie l'apparecchio; quindi si presenta Apollo, o uno spirito sotto le sembianze del Dio, e guarisce radicalmente Proclo per mezzo di passi e toccamenti benefici.

Al discepolo di Giamblico, Edèso, i Numi svelano l'avvenire in sogno. Un mattino che gli erano usciti di memoria gli oracoli ottenuti nella visione, il suo servo gli fa osservare che gli stavano scritti sulla mano (fenomeno di scrittura diretta). Anche Plotino vedeva gli Dei e conversava con essi. Uno spirito lo avvertì che Porfirio stava per suicidarsi; Plotino accorse presso il discepolo e lo distolse dal triste proposito.

Molto belle e acconce sono le considerazioni poste dal Matter come chiusa della sua opera storica sugli gnostici: «che cioè la scienza moderna non è più saggia, né più previdente della loro filosofia; la scienza moderna, la quale non si cura dei dèmoni e ignora degli angeli, che tutto studia e valuta secondo sintomi ossia apparenze, ma senza ricercare le cause profonde. E invece le ragioni di tutto l'operare della natura, sono dovute a forze dotate di vita e d'intelletto».

Per sua grande dottrina, così diceva il Matter nei primi lustri del secolo XIX: «che cosa possiamo dire di meglio noi, dopo un secolo?».

Il neoplatonismo è un sistema di filosofia panteistica, emanatista, comprendente l'idea dell'esistenza dell'anima e della sua immortalità, è la fede nel progressivo sviluppo delle facoltà spirituali dell'Uomo e del potere della Virtù, la quale purifica gli spiriti dagli influssi della materia e li redime, conducendoli fino a Dio. «L'emanazione è un discendere da Dio, — conclude il Fiorentino il suo dotto studio su questo antico sistema filosofico — l'Etica è un ritornarvi; le due parti adunque del sistema si tengono e si rispondono: quanti gradi di discesa, tante virtù per risalire».

Si tratta dell'antica e mai spenta filosofia dell'amore universale, adombrata da Leone Tolstoj nella leggenda buddistica e indiana di Kandata.

Kandata, un fiero bandito, era morto dopo mille e mille delitti, in disgrazia di Dio, ed era rinato demonio dell'inferno più profondo, ove soffriva terribili tormenti. Nell'epoca in cui il Buddha apparve sulla Terra, un raggio della sua luce penetrò fin nel luogo di perdizione, e incendiò le speranze di tutti i dannati. Kandata pregò Buddha di avere pietà, e questi gli inviò giù un ragno in fondo a un filo lunghissimo. «Attàccati al filo», disse il ragno al demonio; e questi, meravigliandosi della saldezza di quella fune quasi invisibile, saliva su, ascendeva, superando bàratri infernali. A un tratto si accorse che il filo si scuoteva, e vòlto in giù lo sguardo, vide che una moltitudine infinita d'altri infelici si era attaccata al filo del ragno, e lo seguiva.

Allora Kandata gridò a quella gente «Lasciate, scendete, il filo è mio».

Subito questo si ruppe e Kandata precipitò di nuovo nell'inferno.

Quel dèmone infelicissimo non sapeva ancora la forza ideale dell'amore, potenza invisibile, leggera come un filo di ragno, e che pure sostiene migliaia di uomini nell'opera loro di elevazione verso la luce.

Ma non appena, con la pietà, viene a mancare il sentimento d'unione con tutti gli esseri, il filo si rompe, e l'uomo piomba di nuovo nell'antica situazione d'individualità circoscritta.

Che cos'è l'inferno ove soffriva Kandata?, si chiese il Tolstoj. E risponde: — È l'egoismo, la separatività, la divisione di sé dagli altri uomini, mentre il Nirvana si crea con la vita comune di tutti i cuori, tenendo acceso perennemente il sacro fuoco d'amore.

Ecco perché i neoplatonici sono poetici e generosi!

Importantissime per potere intuire quali dovettero essere le idee filosofiche di Ipazia, sono le dottrine di Giamblico e di Proclo; il primo la precedette, il secondo la seguì di pochi anni.

Giamblico e Proclo, poi, sono i due scrittori meno filosofi e più occultisti, fra i neoplatonici.

Giamblico, fondatore di quella specie di neoplatonismo detto «scuola di Siria», crede alla mantica, al culto delle immagini, alla preghiera, alla teurgia; e Proclo di Costantinopoli, campione del neoplatonismo ateniese (fondato da Plutarco, figlio di Nestorio, da Jerocle e da Siriano), non solo insegna magia, ma attesta di essere stato in una vita anteriore il pitagorico Nicomaco, e di avere una missione celeste, quale anello della Catena Ermetica di spiriti, apportatori in terra del mistico sapere.

Infine lo studio delle opinioni dissidenti della fede cristiana, alle quali Sinesio non voleva rinunciare quando gli fu offerto l'ufficio di vescovo, ci rivelano una parte dell'istruzione filosofica che egli aveva ricevuta da Ipazia, riguardando principalmente la preesistenza dell'anima al corpo; dottrina ritenuta allora eterodossa dai cristiani. Venne anzi condannata poi a Costantinopoli, perché sospetta di piegare verso quella, temuta e derisa, della metempsicosi, e l'altra affermante l'indistruttibilità del mondo e delle sue parti.

Ma i vescovi orientali apprezzavano a tal grado l'ingegno e il carattere di Sinesio, che non esitarono e gli permisero di conservare la sua sposa e le sue opinioni (p. 520).

[...]

Unità assoluta, monade suprema: questo è il concetto di Dio per Sinesio. Egli crede in una divinità nascosta nei penetrali del Cosmo e che dirige tutte le intelligenze emanate dal suo seno. La più elevata di queste è il Figlio. L'intelligenza spirituale e divina opera una continua creazione, scendendo fino ai baratri tenebrosi e micidiali della materia.

Compiuta l'evoluzione terrena, l'anima umana risale fino a confondersi con Dio; e a diventare essa pure divina.

Non riscontriamo qui analogie, anzi concetti simili a quelli della Cabbalà ebraica?

La filosofia cabbalistica, riassunta da Adolfo Frank, dal Papus, e da tanti altri scrittori e storici dell'occultismo, insiste in questo sopra ogni altro principio, tanto che le parole di Giamblico «non possiamo giudicare quest'unione divina quasiché dipendesse dal nostro capriccio di ammetterla o di respingerla: siamo contenuti in lei, ne togliamo tutta la pienezza dell'essere nostro, dobbiamo tutto quanto siamo soltanto alla conoscenza degli Dei», sembrano di un cabbalista medievale o moderno.

Parimenti, l'Universo è considerato da Sinesio come unità; avendo ogni parte del Cosmo simpatia per le altre; e vivendo tutte compenetrate dall'energia dell'anima universale, la quale vivifica il Creato intero.

Nel XXII canto del Paradiso Dante, padre nostro, dice:

Ma già volgeva il mio disiro e il velle,
Sì come ruota ch'egualmente mossa,
L'amor che muove il sole e l'altre stelle.

Di questo grande Alito animatore della natura, confessarono l'esistenza in special modo, fra le religioni, il buddhismo, fra i sistemi filosofici lo spinozismo; e a lui, sotto il nome di Ignoto Nume, innalzarono templi non gli Ateniesi soltanto, come è noto, ma perfino gli abitatori dell'America precolombiana.

Molto notevole è il fatto che ora a questa idea si ritorni, che filosofi e scienziati la trovino atta a spiegare i misteri sempre più profondi della moderna psicologia sperimentale.

Anche l'Italia nuova possiede una donna che tenta restaurare, con gli scritti e la parola, l'antica filosofia della Gnosi, Olga Galvari. Natura le è stata prodiga di bellezze, Ella a sé di virtù.

Trattando dei fenomeni spiritici e di quelli stranissimi della divisione, alterazione e moltiplicazione della stessa personalità umana, constatati per mezzo dei fenomeni ipnotici, Gaetano Negri scriveva: «La coscienza in ognuno di noi è limitata a se stessa, per una legge di ottica psichica, se posso così esprimermi, alla quale non può sottrarsi perché è condizione della sua esistenza. Noi possiamo vedere questa duplicità di coscienza e di personalità negli altri, non possiamo vederla in noi; ma il vederla negli altri ci assicura che esiste latente anche in noi. Di qui può derivare una conseguenza d'immensa portata, ed è che se cade l'idea d'una coscienza permanente e una, sorge l'idea d'una coscienza permanente la quale accompagna tutte le manifestazioni della vita, o diremo meglio, tutte le manifestazioni dell'universo. Le barriere, i limiti che noi poniamo alla nostra coscienza, sono illusioni, sono le condizioni dell'apparizione della nostra individualità relativa, ma nella realtà quei limiti non esistono punto. Nella realtà forse non esiste se non un'infinita coscienza universale, donde siamo venuti e a cui ritorneremo».

Né Sinesio volle rinunciare a questa filosofia, accettando dai cristiani della Cirenaica il seggio di vescovo. Poeta, seppe riaffermare i suoi principii con questi versi chiaramente teosofici:

«Vieni a me, lira armoniosa, dopo i canti del vecchio Teone, dopo gli accenti della Lesbiana, ripeti su di un tono più grave versi che non celebrano già la leggiadria di fanciulle dai sorrisi vezzosi, né la beltà di giovani innamorati.

«Felice chi, fuggendo ai richiami della materia e involandosi da questo mondo basso, sale verso Dio volando, rapidamente! Felice l'uomo libero dall'opre e dalle ambasce di questa terra, e che si lancia, su per le vie spirituali, verso gli abissi della Divinità! Un raggio precursore di tutta la luce t'aprirà gli orizzonti dell'intelletto, là ove brilla la divina bellezza: Coraggio, o mio spirito, dissetati alle eterne scaturigini, elèvati con la preghiera, verso il Supremo Creatore; niuno indugio a lasciare la terra! Ecco, fra poco, unito al padre celeste, sarai Dio nel seno stesso d'Iddio?».

* * *

Ma le nuvole si addensano di fronte al sole.

La città era in preda ai partiti più fieri di religione.

Ad Alessandria viveva una grossa colonia di più di centomila israeliti, e v'erano pagani, e idolatri d'ogni culto, e cristiani ortodossi di tutti gli scismi ed eresie. Nel 414 gli israeliti si vendicano contro i cristiani dei loro cattivi trattamenti, e san Cirillo li caccia brutalmente fuori dalla città e ne saccheggia le chiese.

Oreste scrive allora all'imperatore contro la condotta di questo facinoroso, ed egli, a sua volta, accusa Oreste. Gli animi si accendono maggiormente. Il prefetto fa arrestare un tal Jerace, partigiano di san Cirillo, e lo fa battere; ma il popolino cristiano, per rappresaglia, circonda la lettiga del prefetto, e lo ferisce.

Un monaco, colpevole di questo delitto, viene giustiziato: allora Cirillo, non già angelo d'amore e di carità, come gl'impone il ministero di pastore cristiano, giunge a tanta audacia da pronunciarne pubblico elogio.

Una turba di fanatici, che sospetta una nemica in Ipazia, nella gran donna la quale parla di misteri incomprensibili e s'oppone alla loro rozza brutalità idolatra, la circuisce a poco a poco di calunnie e di oscure minacce. Cirillo tenta di conciliarsi l'animo di Oreste e gli si reca innanzi con gli Evangeli, per il giuramento della pace; ma questo tentativo fallisce.

Parve allora ai cristiani che unico ostacolo fosse la venerata cattedra pagana di Ipazia, della quale Oreste era discepolo. Gli odi s'accrebbero. La sorte della filosofa venne decisa. Vivevano, nei dintorni di Alessandria, molti monaci, d'infima plebe, schiavi del volere del vescovo, pronti qua ad ardere templi e là a trar fuori dalle tuniche grigie i veleni o il pugnale: erano i parabolani e gli eremiti della Tebaide. A capo di essi si era posto un energumeno detto Pietro il Lettore.

Un giorno Ipazia ritornava a casa in lettiga. Usciti d'ogni parte, i parabolani circondarono questa e ne strapparono la filosofa trascinandola fino alla chiesa detta di Cesare, nel sobborgo Bruckio, vicino al mare.

I monaci sono presi allora da un impeto furibondo, belluino, di sadismo.

Le vesti di Ipazia sono strappate da costoro e le sue membra ignude profanano, nude e contuse dalla mazza ferrata di Pietro, l'austera santità del tempio.

Ma i parabolani sono accecati: con pugnali fatti di conchiglie, con tali armi barbaresche e crudeli, si fanno tutti addosso al bel corpo della vergine gentile e lo sbranano.

Il sangue arrossa le pareti, il pavimento del luogo, le vesti degli assassini. Poi i suoi lacerti sanguinosi, sono portati al Kinaron e gettati sul fuoco.

«Avvenne questo — racconta Socrate — nel IV anno dell'episcopato di Cirillo, X consolato di Onorio, IV di Teodosio, nel mese di marzo, al tempo dei Fasti».

«Morì — così dice il Chateaubriand — la creatura celeste, che viveva in compagnia degli astri ch'ella uguagliava per la beltà, e dai quali aveva ricevuto le più sublimi influenze».

Si estinse come Eco, e nel modo di Orfeo il quale fu dilaniato dalle Menadi, offerto in olocausto al dio delle orge.

Cantavano le ebbre baccanti, secondo il Poliziano:

Per tutto il bosco l'abbiamo stracciato,
Talché ogni sterpo del suo sangue è sazio:
Abbiamlo a membro a membro lacerato
Per la foresta con crudele strazio,
Sicché 'l terren del suo sangue è bagnato.

E nessuno v'era a difenderla, non Oreste, e nemmeno Sinesio, l'appassionato vescovo-poeta che le aveva scritto: «Se l'oblio avvolge i mortali di là dall'Erebo, là pure io mi ricorderò ancora d'Ipazia!...».

E se non fosse storia, confermataci da tante fonti, noi, assomigliando la morte di Ipazia a quella di Orfeo, a quella di Cristo (et diviserunt vestimenta mea), a quella della mitologica, soave vergine Eco, o, infine, di Osiride, Dio redentore, degli Egiziani, diremmo che la fine d'Ipazia è leggendaria, è simbolica; perché, diremmo, piacque sempre figurar così la fine della vita terrena degli eletti che si sacrificarono per l'Umanità.

Longo Sofista scrive che le membra del bel corpo vibrante di canti della ninfa Eco, furono raccolte dalle compagne, pietosi spiriti delle acque, e che la sua arte e potenza musicale ripete ancora altrui le voci e i suoni, per volontà delle Musa, quando il vento passa attraverso i fitti canneti.

Ebbene diciamo noi: anche quando a un grande ideale sobbalza il nostro cuore, un prodigio simile accade: vibra un atomo di cenere del bel corpo soave d'Ipazia; si desta e si avviva la forza spirituale di quella «stella purissima dell'arte della sapienza», in vita certo e in morte, eco avventurata di ogni sublime armonia dell'Anima.

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