La vivisezione

Augusto Agabiti

AUGUSTO AGABITI

LA VIVISEZIONE

(TORTURA DI ANIMALI E SCEMPIO DI COSCIENZE).

Dalla Rassegna Nazionale

*** Ristampa per cura “della Società Italiana contro la Vivisezione abusiva” * *

ROMA
STAB. CROMO-TIP. CARLO COLOMBO

1910.

LA VIVISEZIONE
(TORTURA DI ANIMALI E SCEMPIO DI COSCIENZE).

«La vivisection est un crime»

Victor Hugo.

«Amo gli animali come miei fratelli».

S. Francesco d’Assisi.

«Nessuna rivendicazione della Scienza, nessun risultato che si possa sperare, nulla può giustificare tal genere di atrocità».

Cardinale Manning

Come le bare egizie di sicomoro, fatte per serbare indistruttibili le salme mummificate, avevano il coperchio scolpito che raffigurava intiero l’estinto nella serena immobilità del sonno di morte; così stava costrutto uno degl’istrumenti più tremendi della tortura giudiziaria tedesca: era una semplice cassa, irta nell’interno di crudeli aculei, ma esternamente ornata di un intaglio elegante, a forma d’uomo dall’impassibile aspetto.

La descrivono i principali storici della tortura, in libri lugubri e disperati, per le sinistre impressioni che producono.

La «Eiserne Jungfrau» esistente nel castello di Norimberga, nella orribile «Fünfeckige Turm», ne è uno degli esemplari perfettamente conservati: è tutta greve di struttura, pesantissima, spaventevole, e, per essere di ferro arruginito, quasi rossa di sangue recente.

La maschera restava immota, il legno od il ferro non avevano fremiti, potendo anzi quella scoltura rozza, mostrare il perpetuo sarcasmo di un sorriso stupido e calmo, mentre dentro la vittima veniva trafitta dai pugnali che lentamente penetravano, senza uccidere, nelle vive carni; ed era insieme soffocata ed oppressa dalle pareti di legno, nell’impossibilità di agitarsi e di urlare, perfino; di tutto impedita, fuorchè di soffrire intiero il tormento, quasi inenarrabile.

Orbene, chi fosse entrato ignaro nella sala di tortura cinque minuti dopo quelle esecuzioni, tanto spaventose e crudeli che l’animo s’attrista tuttora a ricordare, avrebbe veduto allineate ad una parete e ritte in piedi, tante casse dai coperchi chiusi e scolpiti, e le avrebbe credute bare destinate al riposo di morti, non sospettando la realtà; che dentro quelle bocche di coccodrillo fossero uomini, uomini stretti vivi nella morsa acuminata dei denti, e coi denti acutissimi del mostro, confitti nei polmoni, nelle reni, in bocca, dentro le orbite... Quale tormento più feroce? Pur non durava a lungo.

Ma sapete voi, lettori gentili, quel che si perpetra ogni giorno nei gabinetti di fisiologia; a Firenze, a Roma, a Parigi, a Londra, ovunque esistono studiosi di medicina?

Se la pietà umana non è estinta, se è vero che il pianto degli oppressi ed il dolore muto degli esseri privi di favella, che lo esprimono con lo sguardo e col convulso, non sono divenuti vani ed inefficaci dinanzi alle coscienze, dopo aver letto i documenti che qui arreco, sono certo che non giudicherete inutile cosa o superflua, l’avervi io intrattenuto su argomento sì grave ed angoscioso.

Nei suddetti laboratori, gli animali vivi (conigli, cani, cavie, gattini, cavalli) mediante una goccia del terribile veleno dei selvaggi dell’Orenoco, detto curaro, vengono resi immobili, come la scoltura in legno del coperchio di sicomoro e, così, feriti, spaccati, attanagliati, bruciati nelle piaghe col ferro infuocato ed i caustici, arsi a fuoco lento. E tutto ciò per ore, per un giorno intiero, per più giorni...

Il curaro, in tutti questi casi, quando viene impiegato, rende immobili le membra, ma non toglie il dolore; accentua la sensibilità, anzi!

«Tutte le descrizioni, dice il vivisettore Claudio Bernard, ci fanno apparire come cosa dolce e tranquilla la morte avvenuta sotto l’azione del curaro. Un semplice sonno sembra essere la transizione dalla vita alla morte. Ma così non avviene: l’apparenza esterna è ingannevole... Se, infatti, affrontando la parte essenziale del nostro soggetto, entriamo, per mezzo dell’esperimento, nell’analisi organica dell’estinzione vitale, vedremo come questa morte che ci sembrava sopraggiungere in maniera tanto calma ed esente da dolore, è accompagnata, invece, dalle più atroci sofferenze che l’immaginazione umana possa concepire».

….. «Infatti in quel corpo senza movimento, dietro quell’occhio appannato e con tutte le apparenze della morte, la sensibilità e l’intelligenza persistono ancora tutte intiere. Il cadavere che si ha dinanzi agli occhi, intende e distingue tutto quanto si fa intorno a lui, sente impressioni dolorose quando viene punzecchiato od eccitato. Insomma possiede ancora sentimento e volontà, ma ha perduto gl’istrumenti che servono a manifestarli».

Eppure lo stesso scrittore, in altro libro, nota:

«Il curaro è oggi impiegato come mezzo d’immobilizzamento, in un grande numero di esperienze; vi sono pochi studi nei quali non si cominci coll’avvertire il lettore che si è agito su di un cane curarizzato, per esempio».

Il numero degli animali sacrificati è enorme. Più di cinquemila cani subiscono a Parigi tale sorte miserrima ogni anno; e si cita il prof. Schiff di Firenze, per avere sacrificato da sè solo circa mille cani all’anno.

Ed egli osserva, nell’opera su la «Physiologie de la Digestion»: «Sono obbligato a tagliare le corde vocali, alla maggior parte dei cani che vengono portati al mio laboratorio, per timore che i loro urli notturni, non compromettano i miei studi fisiologici, destando il risentimento dei miei vicini».

Del resto l’enormità del numero degli animali sacrificati si deduce indirettamente pensando che esistono varie Ditte industriali produttrici esclusivamente di ferri per la vivisezione, e specialmente di macchine per la respirazione artificiale degli animali curarizzati.

La penosa respirazione con soffietti meccanici li tiene in vita, nonostante la paralisi che il curaro produce, e che investe subito pure i polmoni. E gl’istrumenti sono di forma e di grandezza varie: semplici anche, complicatissimi, costosissimi perfino.

Nei cataloghi delle fabbriche suddette, vediamo le illustrazioni di coltelli (dai piccoli ed aguzzi che servono per pungere, incidere ed estirpare le profonde viscere, a quelli larghi e pesanti, atti a mozzare gli arti d’un colpo), di seghe, per aprire le vertebre della spina dorsale; di tenaglie per strappare i tendini, per schiacciare o per troncare le ossa più grosse; di chiodi, per assicurare le zampe e le orecchie alla tavola incisoria; di museruole di ferro, restringibili per mezzo di un sistema di viti, onde serrare forte forte la bocca, o per tenerla spalancata smisuratamente; di trapani, infine, per forare ossa e porre a nudo il cervello; di macchine elettriche per la galvanizzazione, di stufe per l’abbruciamento metodico e lentissimo, fino alla carbonizzazione... dopo due mesi!

Figure di simili istrumenti e descrizioni di tali esperienze si possono vedere e leggere in tutti i principali trattati di fisiologia, ed in particolar modo, per esempio, in «Physiologie opératoire» di Claude Bernard; nel «Manuel de Vivisection» de Ch. Livon; nella «Rivista di Fisiologia», di Firenze; in «Methodik der physiologischen Experimente und Vivisectionen» (con atlante), del Cyon; ed anche nel libro di Paolo Mantegazza, intitolato «Del Dolore».

La narrazione degli esperimenti di vivisezione, è scritta spesso con cruda semplicità, da specialisti; ma altre volte assume il carattere di tragica invettiva, se vergata da medici non del tutto anestetizzati... nel cuore.

Aprendo a caso il volume dell’anno 1907, dell’«Archivio di Fisiologia», leggiamo:

«Esperienza I (1° settembre 1903). Cagna giovane, a digiuno completo anche di acqua da 19 giorni, durante i quali ha perduto in peso 45,5%. Curarizzazione, respirazione artificiale. Cannule vengono innestate nel dotto pancreatico principale, nel duodeno, nel moncone centrale della giugulare esterna... ecc.».

«Esperienza II (12 settembre 1903). Cane giovane a digiuno completo anche di acqua da 18 giorni, durante i quali ha perduto in peso il 34,6%. Non si curarizza perchè è assai abbattuto e depresso...».

Il Metzger poi, nel volume «La vivisection. Ses dangers et ses crimes», racconta:

«Le docteur Murdoch rend compte, en ces termes, de ce qu’il a vu à l’École vétérinaire d’Alfort: «Une petite jument alezane avait malheuresement survécu aux innombrables tortures d’une seule journée, et n’avait plus de ressemblance avec un être de notre monde. Les reins étaient ouverts, la peau déchirée, labourée au fer rouge, et traversée par de douzaines de sétons, les tendons étaient coupés, les sabots arrachés, les yeux crevés. Et la pauvre créature, aveugle et sans défense, fut placée debout, au milieu des rires, sur ses pieds saignants, pour montrer aux opérateurs présents, occupés à lacérer sept autres chevaux, tout ce que la dextérité des hommes peut produire sans amener la mort».

Per quanto la ragione dei lettori possa cercare di rifuggire dal far confronti, dato che qui si tratta non di uomini ma di animali, certo la loro memoria, con uno spontaneo fenomeno di automatismo, farà presente loro il tremendo supplizio del Mora e dei suoi compagni, così straziantemente descritto dal Manzoni. «Quell’infernale sentenza, dice egli, portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate le ossa con la rota e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati...».

Come sopportano gli animali lo strazio?

Un medico ci racconta che i cani, sempre generosi, anche se hanno il cranio scoperchiato ed il cervello con cento lacerature, simile, insomma, per usare l’immaginativa parola di un vivisezionista, «ad un campo dal quale siano state cavate fuori da poco le patate», leccano la mano, per impietosire.

Un medico inglese narra che, essendo studente, si recò una volta alla lezione sperimentale di fisiologia. Venne recato un cane, intelligente, bello, delicato: e questo, posto sul marmo, si accorse degli strumenti e dai preparativi, di essergli imminente la morte atroce, e cominciò a raccomandarsi come seppe, con lo sguardo lagrimevole e con segni, ad uno ad uno, a tutti gli astanti.

Gli studenti, impietositi, pregarono, scongiurarono il professore di vendere loro, a qualsiasi prezzo, la bestiola; ma non ottennero nulla. Fu torturata crudelmente; ed avendo sopravvissuto, il giorno dopo venne sottoposta a ferite nuove, a dolori sì terribili che ne morì.

Scene simili di pietà accadono spesso.

Si tratta talora di cani sensibilissimi, che appartenevano a gentili signore, a poveri vecchi, a ciechi, e che perdettero il padrone, dopo anni di convivenza e di affetto.

Ed avevano appreso ad intuire i suoi dolori, ed i crucci suoi, perfino; e, durante lunghi giorni d’inverno, freddo, dinanzi ad un focolare spento, per notti insonni, per anni d’indigenza angosciosa, gli si erano dimostrati sempre ubbidienti ed espansivi, più che amici pazienti, quasi figliuoli affezionati!

Credo che sia bene piangere nella vita: di tutti i dolori conoscere l’origine, di tutte le disperazioni chiedere le cagioni.

Chè se i fatti orribili della vivisezione non fossero una realtà, della quale, pur ignorandola, tutti noi cittadini degli Stati civili, tutti noi uomini siamo, sebbene indirettamente, compartecipi e corresponsabili, ben lieto sarei di non produrre a me stesso ed a chi vorrà ascoltare, quel brivido invincibile di raccapriccio cui lo spettacolo del male suscita nei cuori ancora umani: ma che è necessario per determinare le forti risoluzioni, nelle grandi cause.

E però indispensabile; ma è utile almeno la vivisezione?

Molti scrittori, per profonda pietà esagerati ed intrattabili per aver troppo sentito e veduto, le negano ogni ragione ed efficacia scientifica, la dichiarano nociva, profondamente, alle stesse discipline terapeutiche; ne reclamano l’assoluta abolizione, come delitto la odiano e la condannano.

Sono di quest’avviso, in ogni paese del mondo, chirurghi celebri.

E certamente, se consideriamo il fatto che l’Università di Dublino abolì, or son molti anni, ogni esperimento in anima vili; e che i Parlamenti inglese e francese, i quali si sono occupati varie volte di tale questione, dopo d’aver raccolto il giudizio dei più celebri medici, per mezzo di apposite inchieste e con l’ausilio capace di commissioni di tecnici, hanno votato leggi grandemente restrittive, potremmo essere tentati a rifiutare, come speciosa, ogni giustificazione.

A parte il problema di storia della Medicina, se la vivisezione sia stata praticata nell’antichità e nei secoli di mezzo, nel decimonono il suo uso si diffuse e si allargò straordinariamente, in vista di questi tre scopi precipui: per sorprendere la vita durante il suo funzionamento, ed acquisire, per tal modo, nuovi veri all’arte ed alla scienza della salute (in medicina la fisiologia sta alla dinamica come l’anatomia alla statica); per insegnare agli studenti dottrine biologiche e fisiologiche difficili a dimostrare senza la conferma dei fatti, teoriche riguardanti la circolazione del sangue, l’influenza di sostanze chimiche e di farmachi sui vari organi, la funzione dei nervi nell’economia generale del corpo, ecc.; per educare infine gli apprendisti chirurghi alla pratica delle più comuni operazioni, con sicurezza di polso, nonostante le sofferenze dei pazienti ed il sangue.

Charles Richet, nel volume: «The Pros and Cons of Vivisection», adduce, come vittorie della fisiologia sperimentale, le scoperte sulla circolazione del sangue; sul meccanismo della respirazione; sui processi digestivi; sulla struttura ed il funzionamento del sistema nervoso. Ricorda poi, nel corso di quel suo lavoro, che l’uso dell’antisepsi è dovuta ai due vivisezionisti Pasteur e Lister. Il primo, meno felice negli studi sulla idrofobia, scoprì però la causa microbica della febbre puerperale, salvando da morte un enorme numero di madri. Infine le scoperte dei bacilli del colera, della febbre mediterranea, della difterite, della malattia del sonno, hanno posto in grado la scienza di estirpare questi flagelli, di prevenirli e di creare ottimi farmachi per reprimerli.

Contestare questi fatti, nonostante la tenace impugnativa di molti dottissimi professori di chirurgia, non sarebbe giusto. La classe dei medici vivisezionisti ha diritto al rispetto che merita chiunque, in vista di risultati utili per l’umanità sofferente, dedica parte della vita e l’ingegno alla scienza. Però vi sono abusi orribili e generali, dannosi alla scienza, alla società; anzitutto allo spirito ed alla mente, di coloro che li commettono. Contro essi è necessario invocare altamente, provvedimenti legislativi, senza dimora.

Gli abolizionisti obbiettano anzitutto che lo studio della vivisezione ha fuorviato le menti degli studiosi dai problemi dell’anatomia umana, la quale sola può apprendere la struttura dell’organismo dell’uomo ed il trattamento efficace delle sue malattie; che la natura degli animali è molto dissimile, in modo non prevedibile, da quella dell’uomo, tanto che l’effetto delle sostanze medicamentose, già provate sugli animali, produce spesso risultati contrari sul corpo umano.

A tal uopo citano i fatti seguenti (esposti e documentati nel capitolo Toxicologie dell’opera del Metzger): Le esperienze del Weir-Michell hanno dimostrato che l’oppio e la morfina agiscono sui polli soltanto «in dosi straordinariamente elevate»; e si è constatato che i conigli, i piccioni, i cavalli e le scimmie possono mangiare il veleno detto belladonna; come le capre, la cicuta; ed il rospo, l’acido prussico! «Le terrible poison dans lequel les Touaregs trempent leurs flèches, se tire des graines d’une plante nommée falezlez. Pour peu que l’homme en goûte, il s’expose à la mort par la folie furieuse. Les gazelles, cependant, les chèvres et les brebis mangent le falezlez sans danger, tandis que, moins heureux, les boeufs, les vaches, les chevaux et les chameaux en meurent».

Ed il Metzger, Ernest Bosc, ed altri, citano l’opera «Scientific researche,» del medico Smith, il quale, nel riepilogare la descrizione di tutti gli esperimenti che si eseguono ora sugli animali viventi, osserva che potevano farsi ugualmente bene su corpi estinti.

«Il dottore Fergusson, scrive il Licò, nemico giurato della vivisezione, è giunto a meritata fama senza praticare sevizie sugli animali. Egli vorrebbe, come altri suoi colleghi, l’abolizione completa della vivisezione e stima inutili gli esperimenti sugli animali anestetizzati, giacchè un esperimento conclusivo non può aver luogo che in un animale posto in condizioni normali». Un altro inglese, Lawson Tait, in un suo libro intitolato «Inutilità degli esperimenti sugli animali», annienta le principali argomentazioni dei vivisettori a proposito delle scoperte che si dicono dovute alla vivisezione. Il dottor Roche, dell’Accademia di Medicina di Parigi, dichiarò in pubblico congresso quanto segue: Non vediamo forse tutti i giorni fatti certi delle vivisezioni della vigilia essere smentiti dai risultati incontestabili dell’indomani?...

«Sì, forse con rare eccezioni, gli esperimenti conducono a dati fallaci, e riempiono l’animo di dubbi...».

«Il famoso vivisettore Charles Bell scrisse:

«La vivisezione ha contribuito piuttosto a perpetuare l’errore, anzichè a constatare le giuste deduzioni che si traggono dall’anatomia». Nell’analogo modo si esprimeva il dottor Parchappe: «Gli esperimenti sugli animali servono di appoggio all’errore come alla verità». Il famoso professore Beclard, che praticò a lungo la vivisezione, in un suo trattato di fisiologia confessò che le esperienze sugli animali non possono avere il valore delle osservazioni patologiche fatte sull’uomo, «a causa degli sconcerti che apportano le mutilazioni nel sistema in generale, e nella circolazione in particolare».

Ed a proposito delle scoperte della vivisezione, il medico Viguier di Parigi, presidente della società antivivisezionista di Francia, dice: «Mais quand le lendemain, profanes ignorants, mais modestes, nous soumettons ces assertions d’ordre scientifique ou médical au contrôle des Docteurs que la vivisection n’a pas grisés, nous apprenons à nôtre grande surprise, que les découvertes ou moyens thérapeutiques si bruyamment invoqués avaient précédé le moment où la physiologie vivisectrice leur avait fait l’honneur de s’en occuper...»

«... Evidemment une enquête parlamentaire où les dépositions seront sténographiquement enregistrées comme elles l’ont été en Angleterre, feront bonne justice des assertions hazardées».

«Si la science humaine parvient jamais à expliquer la vie organique ce sera par l’observation patient et prolongée de son fonctionnement normale, combinée avec le demontage minutieux et infinitésimal des organismes oú elle se faisait voir, mais non point en portant sur l’appareil vivant une main brutale et destructrice qui début par la perturbation de tous les phénomènes naturels».

Ed il Nélanton, dopo lunghi studi sulla fisiologia e la biologia, dava la seguente pessimistica conclusione:

«Tous les systèmes fondés sur la physiologie experimentale sont faux».

La causa fondamentale di ogni perturbamento d’indagine, è il dolore. Il dolore che rende odiosa la vivisezione (perchè lo scopo, per quanto buono, nonostante Machiavelli, non è valevole a giustificare tutti i mezzi, e sempre) è pure la ragione prima per la quale sono tanto discussi, e restano spesso inutili affatto, migliaia di esperimenti, leggi: milioni di torture.

Il Flourens dice:

«Magendie a sacrifié 4000 chiens pour démontrer la justesse des vues de Sir Charles Bell relativement à la distinction des nerfs sensitifs et moteurs; il en a ensuite sacrifié encore 4000 pour prouver la fausseté de ces vues. A mon tour, j’ai entrepris les expériences et j’ai demontré que la première opinion était la seule exacte. Pour arriver à mes conclusions, j’ai aussi pratiqué la vivisection sur un grand nombre des chiens».

Pure ammettendo che in varie ricerche la vivisezione sia utile od anche indispensabile, necessario è pure il dolore?

Molti, quasi tutti i medici celebri (sebbene divisi nella questione dell’utilità di queste pratiche in anima vili), sono d’accordo nel ritenere non esservi bisogno alcuno che gli animali soffrano; che il dolore è invece una conseguenza deplorevole e dannosissima. Il dolore atroce turba infatti profondamente le funzioni dell’organismo, negli animali come nell’uomo. Si pensi allo spasimo sofferto in una anche delle più semplici operazioni chirurgiche, come nell’estirpamento di un’unghia incarnita, di un dente, senza l’azione preventiva e sedativa degli anestetici, e si potrà ben capire come le funzioni corporee principali, quali il moto circolatorio del sangue, la respirazione, le secrezioni, vengano alterate affatto dal dolore.

Il paziente, se soffre davvero, per minuti non respira, piange, subisce arresti ai moti del cuore. Qual meraviglia, adunque, che moltissime prove di vivisezionismo, diano risultati incerti, contraddittori, per la reazione disperata sempre, ma varia secondo l’età, la costituzione, la sensibilità individuale delle vittime, di tutto l’organismo martoriato? Attenuando sempre e togliendo in tutti i casi possibili il dolore, le esperienze diverranno probanti. La scienza sarà meglio servita se ricercata con mezzi umanitari.

Tolti pochissimi esperimenti in cui il dolore è necessario perchè fa avvertiti gli esperimentatori delle reazioni organiche (p. e. nello studio dei nervi); o quando infine la presenza di qualsiasi anestetico nelle vene potrebbe turbare l’indagine (così in alcune ricerche di farmacologia); in tutti gli altri casi gli spasimi, a parte ogni altra considerazione sentimentale o morale, debbono venire eliminati, pel bene stesso della scienza, come qualsiasi causa perturbatrice e d’errore.

Vi sono adunque mezzi pratici che permettano di limitare la vivisezione ai casi strettamente necessari, senza ingiuria alla scienza?

Ne citeremo alcuni: i tecnici potranno continuare l’elenco.

Anzitutto v’è da prendere in esame la questione dell’uso degli anestetici.

Fu tentata la cloroformizzazione ma con pessimi risultati; e per la difficoltà di somministrare del continuo, durante gli esperimenti, il farmaco, e per gli effetti varî e tutti dannosi, che produce e che rendono inutile l’esperimentare.

La morfina però, usata ad alte dosi, ed il cloralio che produce una eccellente anestesia generale se propinato per iniezione endovenosa, possono sostituire vittoriosamente il cloroformio, in molte operazioni minori.

Infine non si dimentichi che Charles Richet, professore di fisiologia alla Sorbona, che pratica la vivisezione in modo limitato ed umano, ha trovato un prodotto chimico nuovo, chiamato «cloralosio», del quale anche altri fisiologi pietosi si servono, che abolisce la sensibilità senza influenzare nè la respirazione od il cuore, nè modificare o togliere i movimenti riflessi.

Cito a questo proposito le belle parole di un geniale nostro scrittore di medicina, il Patrizi, il quale nel libro intitolato: «Nell’estetica e nella Scienza» (v. il cap. «Crimine scientifico»), scriveva: «Quell’istesso fisiologo, Charles Richet, felice composto di artista fine e di scienziato profondo, fu il ritrovatore d’un farmaco, il cloralosio, provvidenziale, più che dal punto di vista terapeutico, per le indagini sugli animali viventi. Avendo tra le altre proprietà, quella di immobilizzare, e di attutire la sensibilità al dolore, lasciando persistere la eccitabilità della corteccia cerebrale, quel farmaco potrebbe sostituire in tante vivisezioni di scuola e di gabinetto, il curaro, quel terribile veleno che arresta ogni moto importuno del cane, o del coniglio, ma lo fa assistere coi sensi integri, colla coscienza vigile alla scientifica tortura, togliendogli anche il sollievo di urlare il proprio tormento. Ma si disinganni chi suppone che l’impiego di quel sussidio sperimentale siasi molto diffuso dall’epoca, ormai non troppo recente, che l’inventore lo additava, oltre che alla mente al sentimento dei colleghi».

Insieme all’uso degli anestetici, sono consigliabili altri mezzi pratici per diminuire le sofferenze degli animali. Ed anzitutto dovrebbe essere proibito di eseguire più di una operazione, su di uno stesso animale. Infatti tanto A. Kingsford, quanto altri scrittori di vivisezione, affermano che il fatto più straziante che si verifica nelle scuole di fisiologia, è quello di vedere i professori affidare agli alunni, perchè vi si esercitino in nuove operazioni, tremende per lo spasimo, animali tormentati già da loro durante ore intiere di esperimento.

Ricordate la descrizione dello strazio di Alford!

E dovrebbe pure venir stabilito che l’animale ferito, mutilato, venisse ucciso in modo rapido, con un veleno o qualsiasi altro mezzo, e non già curato per essere sottoposto a nuovi tormenti, od abbandonato a sè, così amputato, squarciato, per morire di lentissimo spasimo.

Infine si potrebbe con molto buon successo, adottare nell’insegnamento della fisiologia sperimentale, l’uso delle proiezioni cinematografiche; come già si è cominciato a fare per lo studio della chirurgia. Vi sono, infatti, operazioni molto difficili, e per malattie rare, che non potrebbero essere studiate da ogni studente di medicina, durante la pratica negli ospedali. In tali casi le operazioni, fatte da specialisti insigni, vengono ritratte con ogni cura per mezzo dell’apparecchio cinematografico. Un solo caso serve per addottrinare migliaia di studenti. A Napoli, or sono due anni, vennero mostrate, durante le lezioni all’Università, le cinematografie delle operazioni eseguite dal chirurgo francese Doyen, celebre per la celerità. E vi sono operazioni chirurgiche stranissime, uniche affatto nella storia della chirurgia!

Perchè non si potrebbero eseguire, una volta tanto, le vivisezioni più dolorose, e riprodurle poi con le proiezioni agli studenti; senza dovere essere costretti, come si fa ora, a ripeterle in tutti i gabinetti di fisiologia del mondo, tutte, per ogni nuova classe di alunni?

Il Patrizi a proposito della fredda crudeltà che alcuni docenti di medicina raccomandano ai praticanti, diceva, molto ragionevolmente:

«Riconosciamo necessario un certo allenamento all’impassibilità nei futuri scienziati; ma guardiamoci bene dalle esagerazioni della freddezza e della severità scientifica, dal trascurare del tutto, a profitto dell’intelligenza, la coltivazione delle capacità affettive.

Correggiamo pure lo studente di troppo facile commozione nella sala incisoria o nel gabinetto fisiologico, ma non plaudiamo al tirocinante anatomico, a cui il cadavere sta dinanzi, sempre senz’eccezione, come oggetto di conoscenza e mai come oggetto di emozione; e non lode al vivisettore, che posseduto dal suo scopo di ricerca, non procuri il minimo di sofferenza nella vittima: nè al clinico, che non sia capace di adombrare la soddisfazione pel così detto «bel caso» colla compassione per la sventura del malato; e un po’ di diffidenza pel patologo, che affretti coi voti la fine di un infermo, sia pure insanabile, per aver sul tavolo di marmo la conferma dell’ardua diagnosi...» – «L’incoraggiare le indifferenze ed i cinismi, conduce a ribellioni più gravi contro i sentimenti umani».

Sì purtroppo: la pratica della vivisezione influisce terribilmente nell’animo dei giovani studenti che devono, per ore, freddamente, con le mani nel sangue e fra le viscere palpitanti di un animale torturato, pensare a studiare, o, meglio, studiarsi di pensare; comprimendo i palpiti del proprio cuore.

Per vario tempo, finchè il veleno terribile della crudeltà non si è loro inoculato nel sangue, vivisezionati sono pure essi, mentre la vittima geme, e la macchina per la respirazione artificiale, con rumore monotono e fatale, conta, per ore ed ore, i respiri forzati e mozzi dell’animale agonizzante!

Ma il veleno morale a poco a poco s’infiltra, e tutto l’animo cauterizza: in certi tipi anormali, predisposti alle psicosi, fa sviluppare perfino gli stimoli morbosi del sadismo.

Il sadismo, la voluttà per la sofferenza, pel sangue, sboccia come un tristo fiore del male, ove c’è la crudeltà lungamente praticata e disperatamente sofferta. E come non dovremo ammetterlo in alcuni casi, nei vivisezionisti, quando leggiamo, per esempio nell’introduzione del volume intitolato: «Methodik der physiologischen Experimente und Vivisectionen» del Cyon (citato dal Power Cobbe), questo ritratto spaventevole del perfetto vivisezionista?

«Il vero vivisezionista, deve mostrare dinanzi ad una vivisezione difficile la stessa eccitazione gioiosa, la stessa contentezza che il chirurgo dinanzi ad una operazione difficile, dalla quale s’attende un grande successo. Chi indietreggia con orrore quando deve operare un animale vivente, quegli che procede ad una vivisezione come se si trattasse di una necessità speciale, quegli potrà bensì ripetere tale o tal’altra vivisezione, ma non diverrà mai un artista. Chi non può durare ore intiere e con attesa e gioia seguire dentro le membra e per quanto è possibile fino ad una nuova ramificazione, un sottile rametto nervoso appena visibile ad occhio nudo, chi non prova alcun piacere, allorchè, infine, separando ed isolando quel ramo nervoso dalle parti vicine, può sottoporlo all’azione della corrente elettrica; o quando in una profonda cavità, guidato unicamente dal senso tattile della punta delle dita, egli (l’operatore) allaccia un vaso sanguigno invisibile e lo taglia, quegli manca delle più necessarie qualità per divenire un vivisettore atto ad ottenere successo. La gioia di avere trionfato delle difficoltà tecniche considerate fino allora come insormontabili, procura sempre al vivisezionista una delle sue supreme gioie. Ed il sentimento che il fisiologo prova quando da una ferita ripugnante, piena di sangue e di tessuti strappati, toglie fuori un rametto qualsiasi di nervi finissimi e vivifica, per mezzo della corrente galvanica, una funzione già estinta, questo sentimento è molto analogo a quello che anima lo scultore quando dal seno di un blocco informe di marmo fa uscire forme belle e viventi!»

Involontariamente, non vien fatto di pensare al luogo noto della «Storia della Colonna Infame» del Manzoni, ove è riferito un passo dell’opera di Pietro Verri, «Osservazioni sulla tortura», § VIII, così: «Farinaccio stesso» dice l’illustre scrittore «parlando de’ suoi tempi, asserisce che i giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei, inventavano nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species» (Praxis et Theor. criminalis, Quaest. XXXVIII, 56)»?

Dal piacere nel vivisezionare a quello nell’operare su membra umane, non v’è molta distanza. Prova ne sia che la vivisezione umana, di fatto, è sempre esistita un poco, e tuttavia permane.

Sembra che allo studio dei Tolomei, in Alessandria, sia stata permessa; e che medici celebri l’abbiano esercitata sporadicamente nel Medio Evo. È certo che tuttora, nelle corsie degli ospedali, come narrava splendidamente il Sue, quando un medicamento non è sicuro, una cura ipnotica non è provata, una operazione chirurgica rappresenta ancora per la scienza un enigma con maggiori probabilità per l’insuccesso, tuttavia il medicamento, l’esperienza ipnotica, l’operazione chirurgica, vengono tentate senza rimorso.

Tutto viene messo nel conto della scienza! I medici sono stati i primi a svelare, ed ora a riconoscere e confermare questi fatti dolorosi: che il popolo, già da tempo, aveva intuito.

«Maestro Iacopo Berengario da Carpi (1460–1530), nonostante la dimestichezza col signore della sua terra, ne esula imputato d’avere sviscerato vivi due spagnoli per osservare i moti cardiaci. La fulgida gloria di Andrea Vesalio, il medico di Carlo V e di Filippo II, l’anatomico, il fisiologo del secolo decimosesto, il chirurgo che il pennello del Tiziano ritrasse, è offuscato dall’accusa di avere aperto il torace di una matrona moribonda, e di averne inciso, a scopo di studio, il cuore ancor palpitante...».

«... Un processo identico di smentite si è svolto circa il crimine rimproverato a Gabriele Falloppio, che sacrificò persone vive a certe sue ricerche sui farmachi. Un suo panegerista del 1795, dopo averlo scusato col dire che il Duca avea dato l’autorizzazione di sperimentare sui condannati e che questi consentivano; dopo avere aggiunto che anche Luigi XII permise ai medici della sua epoca di tentare l’operazione (in quei tempi, mortale) della pietra sui soldati destinati al supplizio, ritiene calunniosa l’imputazione ascritta a Falloppio, essendo essa in antitesi colla straordinaria bontà del cuore, colla caritatevole proverbiale pietà dell’anatomico modenese. L’argomentazione è assai fiacca, ecc...» (p. 30 e 31).

«... So di un giovane americano, entusiasta delle ricerche della moderna Psicologia – le quali nel nuovo continente hanno avuto testè tanto slancio – che, per segnare il momento della comparsa nell’uomo della sensibilità dolorifica, sottopose il proprio piccino, a cominciare dalle prime ore di vita, a quotidiane punture di spillo nella pianta dei piedi» (p. 42).

«Da simili ottusità o peccati veniali dell’affetto si può precipitare anche ai dì nostri – lontani dal Vesalio, da Berengario e da Falloppio – nel solenne crimine scientifico, cioè in quello del patologo, illustrato da Krafft-Ebing, che inocula con intento sperimentale la tabe celtica; in quello del chirurgo francese, che, per lo stesso fine, innesta il cancro nella mammella di una cliente».

Richiamare l’attenzione del pubblico colto e del legislatore su questi gravi problemi, significa preservare i giovani che si dedicano agli studi di medicina, specialmente quelli che rivolgono la mente ai problemi della fisiologia, da gravi pericoli. Oggi infatti, lo dicono gli stessi scrittori medici, non essendo richieste, dalle Facoltà di medicina, speciali doti morali, ma solo qualità spiccate dell’intelletto, latenti degenerazioni trovano maniera di manifestarsi, nel diuturno ripetersi di crudeli esperienze.

Ben è vero che le scienze mediche furono onorate non solo da grandi scoperte, da sublimi concezioni, ma pure da eroismi. Tutta la coorte modesta ed infaticabile dei medici di condotta, viventi in villaggi, mal pagati, gravati di eccessive responsabilità, se non altro morali, senza istrumenti e gabinetti per le esperienze; di giorno e di notte col dovere assiduo di esporre a rischi, gravi talora, la salute propria, per salvare l’altrui, potrebbe servire di esempio a chi si studia di condurre una esistenza di sacrificio, di carità fortemente sentita e virilmente vissuta.

Si ricorda, volgarmente, l’eroica fede nella scienza dello Jenner, ed a noi sorge vivida nella memoria la descrizione, fatta dal Turghenieff (nel romanzo «Nichilismo»), di un medico giovane che muore di tifo contratto in una autopsia; e stanno presenti le parole serene ma piene di strazio, del giovane medico tedesco, che, recatosi di recente a studiare la malattia del sonno in Africa, il morbo incurabile quasi ed orribile, contrattone casualmente il bacillo, ne descriveva fase per fase i sintomi; dico l’appressamento della morte! Eroica è pure la condotta del dottor Müller di Vienna, morto facendo il suo dovere di scienziato, durante gli studi sulla peste.

E chi più coraggioso del dottor Bochefontaine, il quale, per provare un vero scientifico, da lui intuito, che cioè i prodotti colerici i quali contengano il bacillo virgola non sono contagiosi, ne inghiottì alcune pillole, e se li inoculò nel braccio?

Quando nell’animo del medico stanno preziosi tesori di virtù e di bontà, il ministero della cura dei malati porge occasione ed offre le condizioni adatte perchè quei fiori dell’anima sboccino tutti; ma quando, per atavismo, o per degenerazione acquisita, non esistono germi buoni, ma tutt’altro, ed il medico comincia a dimostrarsi crudele, spietato verso le bestie, il suo piacere pel patimento loro ed il sangue, non dovrà servire quale indizio, per le autorità che hanno il dovere di tutelare, da ogni parte e da tutti, la società?

Non dovranno esistere mezzi legali per prevenire gli abusi, impedendo ai tristi sentimenti crudeli, di manifestarsi, di ripetersi, di accrescersi?

L’animo non è divisibile: fu sempre considerata verità assiomatica non poter divenire buon cittadino chi è cattivo figlio, nè buon amico, nè buon sacerdote o maestro.

Divenuti sordi e ciechi, saremo sordi a tutti i suoni e ciechi per tutti i colori: anche i sensi morali, come i fisici, si ottundono, e, per tutte le commozioni, si perdono.

Che se poi i vivisezionisti, come altra volta tentarono, cercassero difendere i loro procedimenti, spesso orribili, sostenendo che essi soltanto, e non i profani della scienza medica, sono in grado di giudicarli, e di dichiararli inutili, all’occasione, e dannosi; il filosofo, il pedagogo, il filantropo, potranno rispondere: Ma che cosa ne sapete dunque voi, medici e non moralisti, e non psicologi, dell’esercizio di atti crudeli, sul carattere?

Avete osservato e sapete l’effetto che la vista perpetua del sangue causa nell’animo; e di quelle agonie lentissime, angosciose, disperate, che sopportano centinaia di animali, ogni giorno?

Si può, anche, ritorcere l’argomento. L’effetto di sentimenti morali o immorali, di pietà o spietati, d’odio od amorevoli, sono esclusiva spettanza dello psicologo, non del medico. Gli psicologi tutti condannano ad una voce l’abuso del sangue e dell’esperimento crudele.

Quando economisti ed industriali, instaurarono sistemi di sfruttamento feroce (lavoro esauriente mediante il corrispettivo di salari irrisori: lo sweating system), non vennero ascoltati gli argomenti, dottissimi, dei tecnici; che dimostravano essere quei sistemi il portato fatale di leggi economiche immutabili e necessarie, i cui effetti sarebbero stati utili a tutti; ecc. ecc. – Meglio la povertà –, disse la pubblica opinione, insorgendo. Ed avvenne così per l’esercizio, pure, di industrie malsane. Allora intervennero i medici. Gl’ingegneri, gl’industriali, i proprietari, tutti i cointeressati insomma, dichiararono che per ottenere alcuni prodotti necessari al paese, erano indispensabili le suddette industrie, considerando essi come fatti insignificanti, l’avvelenamento dell’aria e l’inquinamento delle acque e del suolo, che ne derivavano.

Gl’igienisti però ribatterono che la salute pubblica aveva i suoi diritti, e che ogni altra considerazione, economica o sociale, doveva passare in seconda linea.

I medici allora vinsero; perchè rappresentavano interessi più elevati e più generali, di quelli dei loro contraddittori; ed ottennero la limitazione, per legge, degli abusi perniciosi alla salute del pubblico.

Nella questione della vivisezione, i moralisti, oggi, hanno pure essi, dovere e diritto d’intervento. Anche se fosse dimostrata o dimostrabile l’utilità, la necessità, l’indispensabilità sua, pel progresso della medicina, deve venire limitata perchè è deleteria coi suoi miasmi morali; perchè inquina le coscienze, perchè attossica gli animi.

Vi sono pericoli sociali più facilmente intuibili che dimostrabili.

In Roma, di recente, si è costituita una forte Associazione di medici, di scrittori, di signore, con l’intento di patrocinare la causa di tante vittime, e di rivendicare la dignità umana, troppe volte inconsideratamente calpestata dai vivisezionisti, per amore del sapere.

E Luigi Luzzatti ha dato il suo nome all’impresa nobilissima.

Tipo completo dell’uomo di Stato secondo il classico concetto orientale, era il saggio che, detenendo il potere, sapeva rivolgere il suo pensiero paterno a tutto il suo popolo, senza distinguerlo dall’ambiente proprio naturale e storico.

Dovevano avere le sue cure tutti gli esseri; anche quelli preumani, ma partecipi con l’uomo della vita e del respiro.

Noi non conosciamo (le scienze, la filosofia, ignorano) chi siano e quale ragione di esistenza abbiano gli animali.

Noi nulla sappiamo dello scopo naturale e spirituale ultimo, di tutti quegli esseri che stanno a noi in rapporto di soggezione, e cui i nostri padri e gli antenati hanno lasciato frequentare il nostro focolare, e correre le campagne. Certo però, secondo i sistemi religiosi e morali più elevati (di Gesù Cristo, di Budda, di Maometto; del Voltaire, del Rousseau, dello Zola), noi uomini abbiamo verso di essi un dovere: quello di esseri più forti verso fratelli (Darwin e S. Francesco) minori…

E la nuova società italiana che s’intitola contro la vivisezione abusiva, tenterà di ottenere con la propaganda, illuminando la pubblica opinione e provocando provvedimenti legislativi, affinchè l’esercizio della vivisezione, limitata ai casi strettamente necessari, venga permesso soltanto a persone tecniche ed espressamente autorizzate.

Ho finito.

La causa è buona: le ragioni addotte sono state molte.

Ho avuto la fortuna di convincere i gentili lettori?

No? Ebbene, in tal caso, dimentichino pure tutti gli argomenti che ho esposto ed i nomi dei celebri scrittori che ho ricordato; reputino anche esagerati ed illusori i pericoli morali che ho previsto; e le considerazioni che ho fatte, torcano al ridicolo... quando così sembri loro giusto; io sarò pago se vorranno soltanto leggere la narrazione di questi due ultimi casi, attestati da atti ufficiali accademici.

«Il Brachet, fece un esperimento detto da lui experience morale, per constatare scientificamente i limiti dell’affezione di un cane pel suo padrone. A tal fine egli tormentava il suo cane in ogni modo immaginabile tutte le volte che lo vedeva. Poi gli distrusse gli occhi affinchè l’animale non potesse riconoscerlo, e, ciò non bastando, gli perforò i timpani delle due orecchie, e ne riempì l’interno con cera fusa. – «Allora io accarezzai l’animale (diceva quell’uomo [uomo?], nel Rapporto all’Accademia di medicina di Francia) e non potendo più vedermi nè udirmi, non solamente non dimostrò collera, ma pareva anzi sensibile alle mie carezze».

«Una prova non del tutto dissimile, è quella che fece il Magendie, aprendo il ventre d’una cagna pregna, per vedere se l’affetto materno si facesse valere anche nel momento di morte.

«La scienza, per mezzo di questa seconda experience morale, fu difatti arricchita dal risultato prezioso, che la povera cagna, pure morendo, leccò i piccoli».

Sono sicuro che le immagini cruente di queste due miserrime creature, non si cancelleranno dalla memoria di chi leggerà queste pagine; e che renderanno più vigile il sentimento, più sdegnosa la protesta dell’animo.

Roma, giugno 1909.

Augusto Agabiti.

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