IV.

Il campo dello scibile è lungo e largo, e quando un cervello balzano può scorrazzarvi dentro secondo gli frulla la voglia, è difficile tenergli dietro per vedere dove stia meglio, difficile sperimentare dove gli aggradirà, alla fine, mettersi a posto. Nessuna meraviglia che l’esperimento del conte filosofo durasse parecchi anni. Quante volte esclamò dentro di sè: — Ci siamo! Si ferma! Lo fermo! –, e il cervello di Celso voltava e scappava da tutt’altra banda!

Il procedimento alla scoperta fu metodico: per induzione o deduzione, ed esclusione. E scartati, sin dai primi tempi, la letteratura e gli studi affini, che addormentavano il ragazzo e gli davano il senso di muffa, c’era da ritenerlo segretamente disposto alle scienze anzi che alle arti. Ciò rispondeva pure al segreto desiderio del maestro. Farne, per esempio, un grande chimico?

Questa speranza derivò logicamente dalla considerazione che la vecchia Cleofe non salvava dalle mani di Celso neppur uno dei suoi garofani fioriti.

— Mi piacciono tanto i fiori! – esclamava lui con la voce soave delle ragazze che glieli chiedevano.

Ecco forse la via buona, che conduceva – oltre che alla floricoltura – alla botanica, e allo studio degli elementi costitutivi e produttivi del terreno: cioè alla chimica agraria, e quindi alla chimica in generale.

Tutto un inverno per il conte e Celso, e anche per la Cleofe, passò in una illusione di primavera. Contemplavano cataloghi di giardinieri, leggevano manuali di orticoltura, vedevano l’orticello attiguo alla casa mutato in Eden. Celso, che aveva già quindici anni, ci vedeva anche, nell’Eden, delle belle ragazze che esclamavano con voce soave: — Mi piacciono tanto i fiori! –; e sopportava le spine: i trattati di chimica organica che il conte, senza insistere, intrometteva a quelli del regno vegetale.

A marzo furono provvedute le sementi dei fiori scelti. E pur troppo insieme con esse e con i vasetti e i barattoli di concimi chimici, entrarono nella biblioteca volumi pieni di formule, lambicchi e storte.

Ma le piantine erano appena spuntate nei letti caldi che lo studente involontario misurò il pericolo. – Se il giardino va bene, son rovinato; mi tocca sgobbare più di un farmacista!

Accadde così che, poste a dimora, le pianticelle dei fiori allevati con tante cure, sembrarono svilupparsi tutte uguali: rigogliose, ma tutte uguali.

— Come sarà? – si chiedevano stupiti il conte e la Cleofe.

Il loro stupore sarebbe stato meno grande se avessero saputo che nelle aiuole Celso aveva profuso una certa semente, per cui, ad aprile, l’orto di casa Agabiti era trasformato in una magnifica distesa d’ortica.

Logica conseguenza: il disgusto, la disperazione di Celso; i volumi pieni delle formule internati negli scaffali più remoti; bottiglie, storte e lambicchi banditi dalla biblioteca.

— Hai ragione – disse il filosofo –; la floricoltura non è per te.

— E neanche la chimica – aggiunse il discepolo.

Proseguendo, il metodo – infallibile – escludeva a poco a poco la fisica, escludeva la medicina e studi affini, escludeva tutte le scienze naturali, ad una ad una.

Quando il caso rivelatore, come si sa, di molte vocazioni famose, condusse una sera il conte a esclamare: — Torniamo all’arte!

Celso stava disegnando a meraviglia una scacchiera su cui il dimani, nelle ore libere, giocherebbe con gli amici di via del Fossato.

— Per bacco! – riflettè il conte. – Conosce quello che i pittori moderni ignorano: il disegno! – Inclinazione, dunque, alla pittura o all’architettura; e propose al ragazzo di andare a scuola da un maestro che in città aveva voce di artista insigne. Celso prese volentieri l’occasione propizia per star fuori di biblioteca e scappare più spesso nel Fossato.

— Allorchè sarà in grado d’entrare all’Accademia, mi avverta – aveva raccomandato il conte al maestro. Nè volle mai vedere gli scartafacci e gli abbozzi che consumavano troppe matite, gomme e mollica di pane, aspettando la sorpresa che gli togliesse ogni dubbio per sempre.

L’ebbe! Al sopravvenire di lui, l’allievo pittore, un giorno, ritirò in fretta dalla tavola, e tentò nascondere, il foglio su cui stava sgorbiando.

— Un artista modesto? – esclamò il filosofo –: un artista eccezionale! – Chiese il foglio, guardò.... Ahimè! Che naso! E quel naso, e due occhi strabuzzati, e una barba prolissa significavano un’intenzione di caricatura nell’effigie proprio di lui, del conte.

Ma pur alle caricature non bastano le intenzioni; e il conte giudicò l’opera dal lato serio. – Ti ringrazio – disse – perchè dimostri di avermi sempre in mente; ma la pittura non è per te.

— Neanche la scultura – fe’ mestamente Celso –; neanche l’architettura.

— Neanche la musica – aggiunse il conte scuotendo il capo.

Quando infatti il ragazzo fischiettava le canzonette alla moda, stonava come stonerebbe un cane, se i cani, oltre che abbaiare e cantare, fischiettassero. E poichè non si balla senza orecchio, le arti restavano escluse tutte quante!

— Torniamo alle scienze – il filosofo ripetè a sè stesso, fiducioso. – Il campo è vasto; il caso rivelatore aiuterà!

Aspetta e aspetta.... E una sera, che era uno stellato fittissimo, Celso esclamò, ammirato e rapito: — Sapere i nomi di tutte le stelle!

Commosso a sua volta, il filosofo cominciò a nominargli e indicargli quella dozzina che ne conosceva di vista; e si domandava dentro: — Come mai non ho pensato all’astronomia? Eppure io gli vo sempre ripetendo che bisogna guardare in alto!

Celso sbagliava i conti; senza calcoli non si fanno scoperte astronomiche. Verissimo. Ma la contabilità delle aziende non è la stessa dell’astronomia: questa è matematica pura; quella, impura. Dunque, avanti!

Fu disposto che di giorno studierebbero insieme il Flammarion e la sera si eserciterebbero in escursioni pratiche per l’infinito. Quasi ci prendesse assai gusto, il discepolo non discorreva più che di costellazioni, di nebulose e di pianeti; sbigottiva la Cleofe istruendola intorno alle vicende e ai cataclismi dell’universo e annunziandole la prossima fine della terra; sperimentava la potenza del cannocchiale prismatico, comprato dal conte, perlustrando dai tetti le finestre della città e dei dintorni.

Ma tanta felicità non poteva durare. Il conte si alzava di notte e faceva alzare il discepolo, per innamorarlo sempre più delle contemplazioni celesti.

— Se seguitiamo così, mi rovino la salute – pensò Celso. E una notte gemè:

— Non vado più avanti: ho paura.

— Di che cosa? Parla!

— Ma...., ho paura.

— Sfórzati a esprimere il tuo pensiero, il tuo sentimento – insisteva il filosofo aspettandosi una rivelazione.

— In questo andar di qua e di là per il cielo, ho paura.... d’incontrarmi col Padre Eterno!

Non si poteva significar meglio il terrore dell’infinito.

— Hai ragione – disse il filosofo. L’infinito spaventa; e l’astronomia non è per te.

— E neanche la matematica – esclamò il discepolo. – E neanche l’avvocatura – aggiunse collegando la giurisprudenza alle altre discipline nella speranza di finire, una buona volta, tutte le prove.

Ma dello scibile ne restava parecchio.

Restava, per esempio, la veterinaria.

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