IV.

Si diede alla campagna. Bello vagare qua e là lungo i sentieri ombrosi o per le strade solitarie; bello mansuefare con le buone maniere i cani infuriati e chiamar con voci infantili i vitellini e i puledri; bello intendersi con le stelle o ridere con la luna.

Alle case le donne che lo riconoscevano gli chiedevano qual disgrazia lo avesse colpito; quali dispiaceri avesse. Una volta la sua faccia era così allegra! Adesso invece era così magro!

Si schermiva; ricevuto il tozzo di pane, scappava rapido. E finchè poteva resistere, preferiva la fame a mendicar dalla gente.

Ma ahimè! Mentre egli sfuggiva alla vita degli uomini, altra vita sfuggiva a lui. Quella sua sensibilità, quella sua intimità con gli animali e con le cose, comportabile nei limiti del paese, nel mondo sconfinato diventava faticosa troppo; un continuo sforzo; un esaurimento lungo e mortale.

Ed era tanto debole!; pativa la fame. E più che per la fame, pativa perchè in quel lento mancare di sè a sè stesso pareva venirgli meno il mondo, che già viveva con lui e di lui. A poco a poco gli si estingueva l'energia animatrice, povero Mattucco!

Un giorno giacque sotto un olmo in un campo deserto. Guardava con gli occhi languidi davanti e d'intorno, e non ci si trovava più. Tutte le cose ora vivevano per sè sole, in un egoismo mostruoso, in una indifferenza spaventevole, con una incuranza spietata.

Il grano alto e giallo aspettava l'ora di compiere il suo destino E si godeva il suo ultimo sole; il trifoglio si beava di essere tutto in fiore; le viti, distese fra gli alberi, bevevano i raggi ardenti e si mostravano intente solo a produrre; gli olmi o avevano molli dedizioni delle fronde più alte alle carezze dell'aria, o restavano immobili, alcuni in una letizia pacifica e sonnolenta, alcuni in una gravità solenne, come se muovendosi temessero — egoisti anch'essi — di nuocere a ciò che loro solo premeva: il nido che nascondevano nel folto. Nel cielo, a volo rotto i cardellini passavano rapidi e giulivi non conoscendo che la loro esistenza; non altro vedendo dell'universo che la loro letizia. A due a due, le farfalle apparivano e sparivano in una felicità lieve lieve, bianca e silenziosa; e le formiche, lì, in oscura fila... Che da fare! Potevano curarsi, loro, di un povero uomo? Peggio per lui se era nato uomo!

Peggio: Mattucco non aveva mangiato e non aveva da mangiare. E fin la terra gli pareva incresciosa di sostenerlo, perchè s'assopisse, quietasse nel sonno l'inedia, lo struggimento del totale abbandono, l'affanno dell'intero esilio in cui s'era perduto.

Quand'ecco fra i rami, proprio sopra al suo capo, vivacemente:

Francesco mio!...

Come ferito al cuore, nella rimanente vitalità, Mattucco s'alzò in piedi. Come il vinto che raccoglie le forze estreme per ributtare l'ultima viltà prepotente, l'ultimo scherno, si chinò ad afferrare un pezzo di zolla; e l'avventò con un grido osceno in alto. E al crepitìo della polvere tra il fogliame, il fringuello volò ad un altro albero. E di là:

Sì sì sì: Francesco mio...

Allora lo scemo ricadde e si mise a piangere.

Ma Colei che soffriva per il più atroce dolore umano, china nella penombra sul figlio livido e sanguinante, gli apparve; egli la scorse che piangeva tra le sue stesse lagrime. E parlava:

— Si sì sì, Francesco mio... Questo poverino muore, per te. Chiamalo! Fa che torni a prender la zuppa al convento: se no, muore, il poverino!

Ah Madonna santa! ah Madonna buona! Comprendeva lei, aveva compreso lei il torto di San Francesco, il male che aveva fatto!

Diceva soave:

— Vieni, Mattucco. Ritorna. Francesco mio ti dirà: «Sei qui?». Francesco mio! Francesco mio!...; e fra' Pasquale t'accoglierà, buono, tra le sue braccia, e ti darà un mestolo di zuppa.

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