II.

La lontananza parve spegnere affatto l'antica fiamma nel cuore di messere Alvise Pasqualigo; ma bastò che ritornasse a Venezia perchè la vista dell'amante gli ravvivasse nell'anima, dalle poche faville che v'erano rimaste, tutto il fuoco d'un tempo. Ahimè! Trovò madonna Vittoria mutata al bene e molto sicura contro le tentazioni.

«Mentre che siete stato lontano (essa gli scriveva), per non perdere l'anima insieme col corpo, ho pregato Iddio che rompa il fisso pensiero che di voi avea... e fui esaudita».

Non le credette. E lei:

«Io conosco il vostro amore verso me, fuori di ogni mio merito, ardentissimo, e confesso di aver ricevuto da voi quantità di cortesie, che quando anche spendessi mille volte la vita per voi, non pagherei la minor di quelle. Ma perchè io mi sono deliberata di voler rimettere tutte queste vanità corporali, rivolgere l'animo a Dio e riconoscerlo per mio Signore vivendo vita cristiana, vi prego che non vogliate romper questo mio proponimento col molestarmi ogni ora colle vostre lettere...».

No no... non le credeva; Alvise sospettava il tradimento.

Infatti non pentimento, non rimorsi l'avevano mutata così, ma la colpa di lui che era stato lontano quattro mesi e non le aveva scritto neppure una lettera. E non s'era mutata così come diceva: aveva davvero un amante. Un giorno Alvise vide che nell'altana, ove si biondeggiava i capelli al sole, accoglieva Fortunio. Fortunio, quello delle lettere anonime! Fortunio il delatore!

Essa negò. Ma Fortunio, per vanagloria e paura a un tempo, disse al Pasqualigo: — È vero —. Lei stessa, madonna Vittoria, l'aveva tratto a sè.

E Madonna Vittoria dovè confessare. E confessò senza vergogna, con audacia, con impudenza:

«Voi sapete che vi partiste contra mia voglia e ch'io rimasi tra tanto duolo che come morta me ne giacevo nel letto; onde alla fine, disperata, veggendo che non vi curavate nè anche di consolarmi con una semplice carta, caddi in tanta gelosia, ch'ebbi ad impazzire, e mi risolsi vedendo il mio male senza rimedio, di oprar ogni sorta di malia per liberarmi di tante angoscie.

«Attesi l'occasione, la quale non sì tosto mi venne che l'abbracciai nel modo che avete inteso da quel crudele, che più tosto dovea patir morte che confessarvi le cose passate tra lui e me... Ma pazienza! La mia fortuna ha voluto ch'io spenga affatto l'amor vostro e sì m'accenda di lui che non abbia mai requie...».

Pazienza? Ed essa perdonava a quel perfido: l'amava e nell'amore nuovo, e nell'abiezione, non avrebbe avuto più un pensiero, una parola, uno sguardo per Alvise!

Alvise Pasqualigo allora non sopportò l'abbandono deciso ed assoluto della donna che aveva amata troppo e troppo a lungo; non volle rassegnarsi alla vendetta di madonna Vittoria; non si riebbe, e la gelosia travolse nel fango l'anima sua e la dignità d'un uomo. Nessun innamorato fu mai un mendico più sordido di Alvise Pasqualigo, che scriveva:

«Fate almeno per una volta sola che io venga a voi, ch'io venga a baciar la terra dove voi tenete i piedi...».

Madonna Vittoria, senz'altro, gli rimandava i ricchi doni; le lettere, il ritratto.

E lui:

— «O mio amore infinito, o donna ingrata! E qual altro sarebbe stato che non avesse scoperto al mondo i vostri tradimenti acciocchè foste stata riconosciuta per quella che siete? Voi meritavate pure ch'io scoprissi il vostro adulterio a vostro marito; ma io non voglio che la fragilità di donna poco savia mi faccia far atto indegno di me».

Si sarebbe contentato di essere amato da fratello purchè talora gli fosse concesso di vederla, di ragionarle «con quell'amore che sogliono i fratelli famigliarmente»!

No: essa l'odiava, ora.

«Voi secondo ch'io bramo vi lasciate vedere ogni giorno, ma vi mostrate sì colma d'orgoglio che men noia mi apporterebbe il non vedervi. Se io vi saluto voi vi volgete ad altra parte; s'io vi parlo, sorda e muta vi mostrate, e io posso dire, in verità, d'essere odiato a morte».

Peggio: era burlato.

«La mia mala fortuna vuole che io abbia gli occhi d'Argo acciò ch'io vegga la cagione della mia rovina. Son contento, poi ch'altro non posso, che voi m'inganniate. Ma che i vostri amanti mi burlino, non patirò mai. Se gli avete cari, fate che mi lascino stare e che si contentino di godervi».

Troppo a basso era caduto: un impeto d'ira contro l'amante di lei, se non contro la donna, se non contro se stesso, non avrebbe potuto scuoterlo e sollevarlo? A vedere madonna Vittoria alla finestra, con la faccia ridente, e Fortunio sotto, che le rispondeva, «spinto da furor geloso» e attaccata questione, ferì il drudo...

Ma dopo scongiurò Vittoria che gli perdonasse!

Atterrata, essa rispose: «Il solo rispetto mio doveva por freno ad ogni vostra voglia, nè amandomi doveva aver maggior forza lo sdegno che l'amore; ma poi che le cose passate non hanno rimedio e che mi chiedete perdono, io ve ne faccio grazia...».

E, per convincerlo, gli mandò copia della lettera con cui diceva addio a Fortunio. Gli diceva:

«M'abbandonai ad amarvi vinta da certe qualità che mi pareva di scorgere in voi».

Le pareva! Le qualità di quell'uomo le parevan amabili dopo che l'aveva saputo delatore, sicario, vigliacco! Che menzogna! Che infamia! Spudorata. Abietta.

E allora, ma solo allora, Alvise Pasqualigo aprì gli occhi. Non comprese che se lei era giunta a tal segno, la prima colpa ricadeva su lui stesso; non ricordò che per amor suo la donna aveva pianto. Con un pretesto, finalmente, spezzò l'ignobile legame.

E mutato il nome di lei, ne pubblicò, insieme con le sue, le lettere: nel 1569.

Share on Twitter Share on Facebook