Rousseau

Pilo Albertelli

Nacque il 28 giugno 1712 a Ginevra da famiglia protestante di origine francese già da un secolo e mezzo insediata in quella città. La madre, Susanna Bernard, morì dandolo alla luce; il padre, Isacco, seppe gettare nel suo animo, nei pochi anni che lo tenne presso di sè, il seme di tenaci sensi di dignità civica e alimentò inoltre una già intensa vita sentimentale col favorire pericolosamente la sua precoce inclinazione alle letture. Il R. stesso ricorda determinatamente la sua passione per i romanzi sentimentali e per Plutarco che avrebbe risvegliato in lui il senso eroico e romanzesco. Dal 1722 al 1724 fu a dozzina presso il pastore di Bossey e dal 1724 al 1725 a Ginevra ad apprendere un mestiere. In questi anni ginevrini subisce sotto una brutale autorità le prime deformazioni di carattere, ma ha modo di leggere molto e disordinatamente. La sera del 14 marzo 1728 ritornando alla città dopo una scorribanda in campagna. trovò le porte chiuse: decise allora di non rientrare più e di darsi alla vita libera e randagia obbedendo a una inclinazione che è una delle caratteristiche della sua personalità. Lo accolse il curato di Confignon che lo raccomandò, in Annecy, alla signora L. E. de Warens, la quale, neo-convertita al cattolicesimo, lo mandò a Torino all'Ospizio dei catecumeni perchè fosse conquistato alla religione cattolica (marzo 1728). Dimesso dall'Ospizio dopo aver abiurato senza entusiasmo il calvinismo (nel quale rientrerà nel 1754), cercò un posto a Torino. Durante quattro mesi di permanenza in questa città fu a contatto con un sacerdote di grande animo, l'abate Gaime, il quale insieme con l'abate Gatier di Annecy, conosciuto più tardi, gli offrirà i colori alla figura del vicario savoiardo della Professione di fede. Lasciata Torino, dopo aver vagabondato per qualche tempo tornò ad Annecy dalla de Warens, rimanendo presso di lei per un anno che dedicò con poco profitto al latino (nella speranza di potersi dare alla vita ecclesiastica) e alla musica che resterà sempre una delle grandi passioni della sua vita. Nell'aprile del 1730 essendo rientrato, dopo una breve assenza, ad Annecy senza trovarvi «maman» (così chiamava la de Warens), si diede alla vita errabonda per la Svizzera e la Francia. Dalla fine del 1731, riunitosi alla sua protettrice, dimorò a Chambery (dove fu anche impiegato al catasto) e alla villa delle Charmettes. È questo il periodo più sereno della sua vita. Nella pace dell'animo e dei sensi (giacchè la grazia e femminilità della de Warens esercitarono su di lui un forte ascendente che però non potè mai diventare propriamente amore), a contatto con la natura che adorava, venne gettando le basi della sua futura personalità di scrittore attraverso studi che, specie dal 1738 in poi, furono sistematici. Nel 1740 passò come precettore presso la famiglia Mably di Lione per un anno ed ebbe con ciò lo stimolo alle prime riflessioni pedagogiche che tuttavia non rivelano traccia delle future grandiose impostazioni. Tornato alle Charmettes nel dicembre 1741 trovò la de Warens completamente mutata e allora, anche nella speranza di poterle dare un aiuto finanziario, decise di tentare la fortuna a Parigi. Vi giunse nell'estate del 1742 e presentò subito all'Accademia delle Scienze un progetto di nuova notazione musicale su cui fondava molte speranze; ma l'Accademia nel settembre 1742 diede parere sfavorevole. Nel maggio del 1743 accettò un posto di segretario presso l'ambasciatore Montaigu a Venezia; quivi, a contatto coi problemi della vita politica, sorse nella sua mente il primo pensiero di una vasta opera sulle costituzioni politiche che, non potendo realizzarsi completamente, darà tuttavia origine più tardi al Contratto sociale. Tornato nell'agosto del 1744 a Parigi, si unì a Teresa Lavasseur, donna ignorante e limitatissima, che nel 1768 sposerà. Di essa il R. ebbe sempre a lodare il «cuor d'oro», ma è probabile che il suo carattere e tutta la sua vita futura subissero, per l'opera diretta o indiretta di questa donna, un'influenza deleteria. Ebbe da lei cinque figli che portò ai trovatelli: triste episodio, ma così oscuro e dubbio nei moventi (e non solo nei moventi) che non è il caso di arrischiare una valutazione. Intanto cercava di farsi strada nel teatro e si guadagnava molto stentatamente la vita come segretario presso famiglie signorili: in compenso ebbe modo di stringere rapporti col mondo della cultura, con Diderot, Grimm, Condillac, d'Alembert, tanto che gli fu assegnata la parte musicale della Enciclopedia, pubblicò sul Mercurio di Raynal e probabilmente compilò il Saggio sull'origine delle lingue.

Nell'ottobre del 1749 apprese a caso, sulla strada Parigi-Vincennes il bando dell'Accademia di Digione sul tema: «La rinascita delle scienze e delle arti ha contribuito a epurare i costumi?» A un tratto prese corpo nel suo animo tutta una folla d'idee e di sentimenti fino allora allo stato fluido e mal noti a lui stesso. Nacque così un Discorso che, presentato al concorso (1750), ottenne il premio e riscosse, più che altro per la sua appassionata eloquenza, un successo così grande da assicurare di colpo la celebrità al suo autore.

Questa prima, ancora superficiale e disordinata presa di possesso di uno stato d'animo che poi verrà senza tregua approfondito e ampliato, è divisa in due parti. La prima mostra come il progresso delle arti e delle scienze si accompagni sempre con la corruzione dei costumi, palese a chi sappia vedere la vanità scientifica e la debolezza morale delle società raffinate; la seconda sostiene che tale rapporto di concomitanza è in realtà rapporto casuale in quanto le scienze, vane nel loro oggetto, nascono dall'ozio e alimentano l'ozio, e le arti, nate dal lusso, contribuiscono a corrompere i costumi e il gusto: senza dire che le une e le altre affievoliscono le qualità guerresche e la forza morale. A parte il difetto, d'impostazione, tutto il discorso poggia sull'affermazione dommatica e tendenziosa che l'arte e la scienza siano sotto ogni rispetto manifestazioni deteriori dello spirito umano. Tale paradosso trova già la sua limitazione e quindi confutazione nel fatto che il R. stesso, specie nelle polemiche in cui si trovò impigliato, non potè a meno di dichiarare legittimo l'uso della scienza da parte di alcuni eccellenti ingegni e dovette ammettere che non sarebbe stato un rimedio al male la soppressione delle accademie e biblioteche in quanto «i lumi del cattivo sono ancora meno a temere della sua brutale stupidità»; tuttavia ha il suo valore in quanto con esso R. si leva risolutamente contro l'intellettualismo dominante ponendo in aspra opposizione virtù e intelligenza, moralità e sapienza, per prendere le parti della virtù alla quale sola dà pregio.

Appunto questo moralismo (che tradisce influssi del pietismo ed è destinato a diventare siffattamente prepotente e unilaterale da togliergli la possibilità di un'equilibrata valutazione di tutto quanto non sia direttamente ed esplicitamente attività morale) sarà d'ora in poi il motivo fondamentale di tutta la sua opera di scrittore e opererà quella profonda riforma della sua esistenza che maturerà nel 1752. Infatti, com'egli dice, «non trovando più nulla di grande e di bello se non nell'essere libero e virtuoso, al disopra dell'opinione e della fortuna e nel bastare a se stesso», la troncò col tenore di vita artificioso ed estrinseco della società parigina e, rinunziando per amore d'indipendenza a una vantaggiosa sistemazione, si ridusse a campare stentatamente, ma eroicamente, copiando musica. Di fronte a questa riforma interiore ed esteriore i suoi tentativi teatrali del 1752 e anche la Lettera sulla musica francese del 1753 sono le ultime note di una vita che egli si lascia dietro le spalle. Ormai ha trovato la sua destinazione e si accinge a correre migliori acque: così intorno al 1753 lavora all'articolo Economia Politica per la Enciclopedia (che fu pubblicato nel 1755), e l'anno successivo, avendo l'Accademia di Digione proposto il tema «Qual'è l'origine della disuguaglianza umana e se essa è autorizzata dalla legge naturale?», presentò il Discorso sull'origine e fondamenti della disuguaglianza tra gli nomini. In quest'opera, che non fu premiata benchè segni un grande progresso sulla precedente, il R. (riconnettendosi direttamente alla tradizione giusnaturalistica) si propone di sceverare nella natura umana ciò che è originario da ciò che è artificiale e sopravvenuto, allo scopo di determinare quali norme di diritto convengano immediatamente all'uomo naturale e se la disuguaglianza abbia un fondamento in natura. I risultati della ricerca sono dichiarati, senza troppa chiarezza, come ipotetici: più che altro per evitare obiezioni da parte della tradizione religiosa. Bisogna stabilire innanzi tutto, dice R., che la ragione è un'attività spirituale logicamente e cronologicamente posteriore, e che in genere soffoca e corrompe in noi la spontaneità della natura in quanto matrice di passioni fittizie che estraniano l'uomo da se stesso; nell'uomo naturale troviamo soltanto il percepire e il volere di cui sono atteggiamenti elementari l'amor di sè e la pietà, sola virtù naturale. Più tardi, essendo l'uomo perfettibile, si dispiega la facoltà razionale, ancora potenziale, sotto l'impulso delle passioni e col concorso di circostanze esterne. Di conseguenza, allo stato di natura la disuguaglianza è appena sensibile, i moti interiori sono uniformi e deboli, la vita torpida e soddisfatta del suo breve cerchio. Con le prime capanne abbiamo la prima rivoluzione: nascono i legami affettivi e le prime passioni, appaiono i doveri e la moralità; ma è solo col costituirsi della proprietà, con la distinzione tra ricchi e poveri che sparisce l'uguaglianza naturale mentre nascono insieme le prime regole della giustizia. Tra ricchi e poveri c'è, in un'umanità ancora eslege, stato di guerra: sono i ricchi che pensano di eliminarlo proponendo ai poveri (che accettano convinti di assicurarsi la libertà) di governarsi secondo leggi. Si passa così dalla violenza al diritto, vien distrutta la libertà naturale, i ricchi diventano potenti, si fissano le norme della proprietà, che è usurpazione, e la disuguaglianza è sanzionata. Le continue infrazioni alle leggi portano all'istituzione di magistrature: ha così origine il corpo politico come contratto tra il popolo e i capi in cui le due parti si obbligano all'osservanza delle leggi stipulate nel contratto stesso e determinate dalla volontà generale; naturalmente, non potendo un contratto essere senza condizioni e irrevocabile (perchè è assurda la rinunzia per sè e i successori ai doni essenziali della natura, cioè vita e libertà), i magistrati sono solo mandatari del popolo. È il trapasso dal governo legittimo allo illegittimo che segna l'ultima tappa dello svolgimento: la disuguaglianza diventa massima (padroni e schiavi) e si ritorna, compiendo il processo involutivo, alla legge naturale della forza (perchè il contratto è automaticamente rescisso) e alla instaurazione di un'uguaglianza di schiavi.

Con ciò il R. ha disegnato il primo abbozzo della sua filosofia e particolarmente ha posto le basi delle sue concezioni politiche. Però questi due nuclei delle sue meditazioni non raggiungono ancora una perfetta fusione, come è palese da questo, che il contratto, perchè concepito con un fatto storicamente avvenuto, dovrebbe spiegare una situazione che invece è in contraddizione con quella che deve essere la volontà generale. Sono particolarmente da segnalare in quest'opera: la deduzione sintetica delle forme dello spirito e delle loro degenerazioni, la riduzione del momento pratico ai sentimenti immediati dell'amore di sè e della pietà, che è fonte di tutte le virtù sociali; l'astrazione dell'uomo originario, primitivo; l'identificazione tra primitivo naturale e ottimo, per cui quello che spesso è anche detto progresso e sviluppo è concepito come degenerazione e corrompimento.

Nonostante che il successo di quest'opera superasse quello della precedente e da ogni parte giungessero al R. attestazioni di stima e simpatia, il suo temperamento superbo e timido insieme, insocievole e bisognoso d'affetto, fantasioso e austero, imbevuto di un moralismo che ingigantisce ogni inezia e contribuisce a renderlo acre e mordente, ombroso e suscettibile, lo porta nell'aprile del 1756 ad abbandonare Parigi divenutagli insopportabile, per ritirarsi nel soggiorno dell'Ermitage, presso Montmorency, messo a sua disposizione dalla signora d'Epinay. Gli parve di ricominciare a vivere: finalmente libero e in intima comunione con la natura, il suo spirito si dilata ed espande: fa un estratto delle opere dell'abate di Saint-Pierre, pensa a un Trattato sull'educazione, progetta un'opera sulla Morale sensitiva, lavora a un Dizionario di musica, scrive a Voltaire una famosa lettera (agosto 1756). Ma il rigido moralismo e civismi a cui vorrebbe uniformare l'esistenza e l'attività letteraria, non esaurisce le sue esigenze e non soddisfa tutta la sua personalità; il cuore, ancora bisognoso di espansione e d'amore, gli prende la mano: gli tornano alla mente le creature femminili della sua fanciullezza, la fantasia le rianima e abbellisce, vive con esse come fossero creature presenti e vive. Da questo stato di animo sgorgano la prima e seconda parte della Nuova Eloisa (iniziate nel giugno del 1756 e terminate alla fine dell'anno), che dovevano descrivere, in forma epistolare, un amore appassionato e infelice. Senonchè, quando, nel febbraio del 1757, ebbe occasione di conoscere la contessa d'Houdetot e il suo cuore, «ubriaco d'amore senza oggetto», credette di trovare in lei la creatura dei suoi sogni, le vicende di quest'amore lo portarono non solo a un mutamento del piano originario dell'opera, ma addirittura a «epurare e raddrizzare il sogno di voluttà in istruzione morale». Alla fine del 1757 al dramma d'amore si aggiunge la rottura con la d'Epinay e con Grimm, per cui abbandonerà l'Ermitage per Montlouis (presso Montmorency) in condizioni tristissime di spirito e di corpo. Ma fiero di essere ormai «reso a se stesso e alle sue massime», «rientrato nel suo elemento», lavora operosamente alla «Nuova Eloisa» (terminata alla fine del 1758), alle «Lettere morali» (non destinate alla pubblicazione e rifuse nell'«Emilio»), alla «Lettera a d'Alembert sugli spettacoli» (con cui si mise contro Voltaire e la ruppe con Diderot) e al «Saggio sull'imitazione teatrale». Ormai il contrasto col circolo dei «filosofi» è diventato una guerra aperta che sarà spesso subdola e ingenerosa, specie per opera di Grimm e di Voltaire. Nel 1759, cedendo alle insistenze del marchese di Luxembourg, prese dimora nel castello di Montmorency (allo Petit Chateau) dove l'amicizia garbata e riguardosa degli ospiti gli rese l'amore alla vita. Qui lavora tranquillo e sereno (egli stesso ci dice che il quinto libro dell'«Emilio» risente appunto del fresco colore del luogo) e dà gli ultimi tocchi alla «Nuova Eloisa» che uscì nel febbraio del 1761.

Con quest'opera il centro della personalità umana, il vero «io», la fonte di quanto è grande nobile e bello, viene posto con un'estrema risolutezza, contro ogni razionalismo, non nella ragione, nell'intelligenza, nella scienza, ma nel sentimento, nell'amore, nella passione, e in genere nell'immediato e irriflesso; l'anima rientra, per così dire, in se stessa, nel suo profondo, prende completamente possesso di sè, acquista coscienza della complessità e ricchezza dei suoi moti elementari, spontanei, naturali. Ecco perchè in un mondo che, specialmente dopo il 1750, dimostrando in vasti strati la sua sazietà e insoddisfazione per il modo di vedere razionalistico, analitico, geometrico, accoglieva con estremo favore i romanzi sentimentali e moralistici inglesi e si orientava alla vita semplice della campagna, la «Nuova Eloisa» riscosse immenso favore. Palesi erano i gravi difetti dell'opera, che derivavano in gran parte dalle traversie della composizione, dal prevalere delle tendenze moralistico-pedagogiche, dall'inclinazione dell'autore a sostituire se stesso e tutto se stesso ai suoi personaggi, ma nel complesso le «anime sensibili», i «cuori teneri», palpitarono ovunque con R., che divenne in questo modo segnacolo in vessillo di quelle esigenze che sarà compito del romanticismo potenziare e sviluppare completamente.

Licenziata la «Nuova Eloisa» e abbandonato il disegno di proseguirla con le «Avventure di E. Bomston, a Roma» (di cui lasciò un estratto), nell'intento di chiudere presto la sua carriera letteraria, condusse innanzi energicamente l'«Emilio». Convinto poi di non poter portare a termine il progetto delle «Istituzioni Politiche» stralciò dai lavori preparatori quello che sarà il «Contratto sociale» a cui diede l'ultima mano in meno di due anni; abbandonò invece l'idea della «Morale sensitiva», rimase incerto quanto al «Dizionario di musica», cominciò a pensare alle «Confessioni». «Contratto sociale» e «Emilio» uscirono a breve distanza nel 1762: per il primo, stampato in Olanda, le autorità non poterono far altro che impedirne l'ingresso in Francia; per il secondo invece, che fu stampato in Francia, fu spiccato contro l'autore un mandato d'arresto (19 giugno 1762). Di qui la fuga del R. che si diresse a Ginevra: invece la patria lo scacciò e Berna la imiterà, cosicchè egli potrà trovare un rifugio soltanto a Neuchatel, terra del re di Prussia, e precisamente a Môtier-Travers.

Il «Contratto sociale», che fu definito a Ginevra, nel suo apparire, «arsenale delle libertà», è l'ultima parola del «cittadino» Rousseau sul terreno politico. Per bene intenderne l'impostazione bisogna tener presenti le prime parole: «Voglio ricercare se nell'ordine civile ci possa essere qualche regola di amministrazione legittima e sicura»; o quelle del manoscritto di Ginevra: «Io non offro in quest'opera che un metodo per la formazione delle società politiche... non c'è società politica stabilita a quel modo che io la stabilisco, ma io cerco il diritto e la ragione e non disputo dei fatti»; o, ancora, quelle di una lettera di alcuni anni dopo (Corresp., vol. XVII, 157): «Il grande problema in politica è quello di trovare una forma di governo che metta la legge al disopra dell'uomo». Cioè il R. non disputa dell'essere, ma del dover essere; anzichè proporsi un'indagine storico-filosofica sulle istituzioni politiche, cerca il fondamento del diritto, cioè una forma politica attraverso la quale possa essere fondata una validità giuridica in generale. In altre parole si domanda: qual'è la condizione sotto la quale soltanto è possibile la validità delle norme giuridiche? Questa condizione è il contratto sociale, per il quale ciascuno, nell'associarsi, alieni totalmente tutti i suoi diritti a tutta la comunità ponendosi sotto la suprema direzione della volontà generale. Solo a questo patto potremo avere una amministrazione «legittima»: infatti attraverso il contratto si costituisce un corpo morale collettivo nel quale la condizione di ciascuno è «uguale» a quella di tutti e ciascuno, unendosi a tutti, non ubbidisce tuttavia che a se stesso restando così «libero» come prima. In tal modo alla libertà naturale (illimitata) si sostituiscono la libertà civile (limitata dalla volontà generale) e la libertà morale (cioè l'obbedienza alla legge che noi stessi ci siamo posti); analogamente all'uguaglianza naturale viene ad essere sostituita un'uguaglianza per convenzione, di diritto. Corollari importanti di questa tesi sono: 1°) Non potendo l'ente collettivo essere rappresentato che da se stesso, la sovranità è necessariamente inalienabile: si può trasmettere il potere ma non la volontà; un popolo che promette semplicemente di obbedire in quest'atto si dissolve, perde la sua qualità di popolo. 2°) La volontà generale è tale solo se è generale così nel suo oggetto come nella sua essenza: cioè deve partire da tutti e deve applicarsi a tutti. 3°) Il potere legislativo non può appartenere che al popolo, quello esecutivo invece al governo, che è un corpo intermediario di funzionari del popolo. 4°) Spetta alla volontà generale fissare una professione di fede puramente civile che stabilisca l'esistenza di un Dio provvidente, la vita futura, la felicità dei giusti, la santità del contratto e della legge, e stigmatizzi l'intolleranza.

Queste dottrine del R., che hanno avuto un enorme influsso sia sul terreno propriamente politico (Rivoluzione Francese) che su quello speculativo (Kant, Fichte), sono state, a seconda delle tendenze politiche, tanto oggetto di appassionate esaltazioni come di aspre condanne; senza dire che c'è chi vede (a nostro parere erroneamente) tra esse e le altre concezioni dell'autore un contrasto addirittura insanabile. Non mancano certo in R. spunti di particolari atteggiamenti politico-sociali e quindi l'occasione all'applicazione di etichette politiche, ma, dato che nel contratto non è implicito alcun contenuto concreto, la volontà generale può in ogni caso riempirlo di qualsiasi contenuto, a seconda dei tempi e dei luoghi, sempre che non cessi di essere volontà generale; che è quanto si verificherebbe con la negazione della libertà e dell'uguaglianza che implicherebbe automaticamente l'annullamento del contratto stesso. Ma il vero merito di R. è l'aver visto che affinchè una legislazione sia valida deve essere autolegislazione; nell'aver cioè individuato la condizione «formale» della validità di ogni norma, eliminando per sempre i tentativi di giustificare tale validità in base al contenuto della norma stessa, come si verifica tanto nella concezione medievale che ricorre alla conformità alla legge divina, quanto nel giusnaturalismo che ricorre alla conformità a un diritto naturale postulato come un dato di fatto.

Nell'«Emilio», che è l'opera nella quale R. fa confluire tutte le sue precedenti esperienze, si proclama altamente un'«educazione secondo natura», intendendo per natura il complesso delle disposizioni primitive. Queste sono tutte buone e inoltre non sono qualcosa di precostituito, di dato, ma si sviluppano secondo un ritmo logico e cronologico che non può essere arbitrariamente stravolto; di conseguenza educare significherà semplicemente salvaguardare e potenziare il «libero processo di formazione» del discepolo (educazione negativa o metodo inattivo). In antitesi poi a tutto ciò che di artificiale e di fittizio vengano a introdurre in noi l'immaginazione e l'opinione generatrici di passioni, tali disposizioni saranno da chiamare naturali: di qui il contrasto tra natura e società, che dell'opinione vive e all'opinione è asservita, tra spontaneità e schiavitù, interiorità e esteriorità, bene e male; di qui la necessità che il discepolo non venga educato in vista delle istituzioni sociali, facendone un mezzo (educazione professionale), ma bensì venga reso adatto a tutte le condizioni umane, gli venga insegnato semplicemente a vivere, facendolo fine a se stesso; di qui ancora l'esigenza di «isolarlo» dalla società perchè non ne venga viziata e turbata la formazione naturale. Lo sviluppo formativo è diviso in età, ciascuna delle quali porta alla luce nella sua pienezza un determinato momento spirituale che naturalmente richiederà una sua propria pedagogia; di qui la tendenza a distanziare e isolare i vari momenti e particolarmente a collocare molto tardi una astratta razionalità dispiegata. Appunto in tale concetto dello sviluppo come stratificazione successiva (concetto che nonostante espliciti tentativi di limitazione, non cessa di dominare) dobbiamo forse ricercare la principale fonte delle difficoltà e dei paradossi di questa pedagogia; tuttavia a questa rappresentazione è congiunta l'importante intuizione che la vita dell'educando è ad ogni istante scopo a se stessa, in quanto ha in ogni istante la sua perfezione.

L'educazione di Emilio comincia dalla nascita in quanto fin dai primi giorni di vita gli deve essere lasciata la più ampia possibilità, di stabilire, attraverso i sensi, i primi contatti col mondo, senza che frappongono ostacoli improvvide sollecitudini e vane paure. Con la parola comincia una nuova età, che è quella della educazione dei sensi, che va dai due ai sedici anni. Emilio deve «costruire» il suo mondo d'esperienza: deve imparare a sentire, deve costituire la sua ragione applicata a esperienze concrete. Il maestro non ricorrerà a ragionamenti, precetti, raccomandazioni, perchè ancora non c'è traccia delle nozioni di bene e di male: soli limiti alla libertà di Emilio saranno quelli che pongono il mondo fisico con la sua necessità naturale e, in certi casi, la inflessibile volontà dell'educazione fatta sentire anch'essa come una necessità naturale. Dai dodici anni ai quindici abbiamo l'età dell'apprendimento: in grazia dell'eccesso di forze che si è venuto costituendo, si sviluppano sotto lo stimolo dell'utilità, l'attenzione e la curiosità per le cose della natura. Il maestro aiuta Emilio a conquistare da sè solo, sull'unico libro che è la natura, le prime nozioni scientifiche: la sua opera consisterà unicamente nello stimolare gli interessi e nell'insegnare il metodo. Cade opportunamente in quest'età l'apprendimento di un mestiere. Verso i quindici anni comincia a svilupparsi il mondo dei sentimenti, delle passioni, e la coscienza sociale. Tutte le passioni (buone, quando sono naturali, e principale strumento della nostra conservazione) sono modificazioni del sentimento fondamentale dell'«amor di sè»; il quale, espandendosi spontaneamente, ci porta all'identificazione e alla solidarietà coi nostri simili e col tutto, mentre invece l'«amor proprio», che è artificiale prodotto delle relazioni sociali, ci isola dal prossimo e dal tutto. È questo il momento di conoscere gli uomini, e quindi dell'insegnamento della storia. Ultima conquista del processo formativo sarà la nozione del divino, che non è da anticipare in nessun modo, perchè della divinità è meglio non aver nessuna idea piuttosto che averne di errate o indegne. Siamo così alla famosa «Professione di fede del Vicario savoiardo» che esercitò un enorme influsso (basti ricordare i postulati della ragion pratica della morale kantiana) e che perfino a Voltaire faceva dire: «Egli ha scritto la Professione di fede e per questo gli perdono tutto». Questa fede che R. distingue nettamente come religione naturale o teismo da tutte le religioni positive dommatiche ed intolleranti, consta di tre articoli e cioè: 1°) c'è una volontà che muove l'universo e anima la natura. 2°) Tale volontà è intelligente, come si ricava dalla sua presenza ordinatrice nelle cose. 3°) L'uomo è libero e quindi animato da una sostanza immateriale. Queste affermazioni e i loro corollari non saranno per Emilio risultato di un'indagine freddamente razionale, ma piuttosto testimonianza del sentimento interiore, di cui, rientrando nella sincerità del nostro cuore, non possiamo non sentire la voce inconfondibile. Impressi allo stesso modo nel suo cuore Emilio saprà trovare anche i principi della condotta umana: basta che si affidi alla coscienza, che è un istinto divino, una voce immortale e celeste, che non inganna mai, ma sempre e ovunque spinge immediatamente all'amore del bene e alla repulsione del male. A questo punto l'opera del maestro è praticamente terminata: ormai Emilio è uomo, è in condizioni di saper dominare le passioni mediante la ragione, cioè di esser libero. Non gli resterà che viaggiare, imparare le lingue e le letterature e da ultimo di trovare in Sofia la degna compagna. Con ciò il R. ha il destro di chiudere la sua opera tratteggiando, ma senza particolare originalità, l'educazione della donna.

Lasciate da parte quelle che sono le manchevolezze di questa pedagogia, (assenza di vero concetto di sviluppo, educazione fondamentale intellettualistica, astratto concetto di uomo) le quali derivano dalla concezione illuministica a cui il R. rimane pur sempre legato, quanto c'è di vitale e perenne può essere accennato in questi termini: il concetto di sviluppo in generale; il concetto che la vita spirituale è libertà, autoformazione, conquista; che l'uomo è ad ogni istante fine a se stesso, e quindi, contro lo stesso razionalismo, che l'infanzia ha la sua peculiarità e i suoi diritti.

Nella sua nuova residenza di, Môtier-Travers il R., pur proseguendo il lavoro intorno al «Dizionario di musica» e ritoccando il «Saggio sull'imitazione teatrale», si lasciò trascinare in pieno nella polemica che la sua opera aveva suscitato. Così nel 1762 indirizzò una forte «Lettera all'arcivescovo di Parigi Cristophe de Beaumont»; l'anno dopo abdicò al diritto di cittadinanza ginevrina e in risposta alle «Lettere scritte dalla campagna» di J. R. Tronchin, scrisse le «Lettere dalla montagna» (pubblicate nel 1764 e l'anno successivo condannate e bruciate a Parigi) che non fecero altro che allargare e inasprire la polemica alla quale prese parte diretta anche il Voltaire. Volendo allora difendere almeno di fronte ai posteri la sua memoria, incitato da amici, diede mano alle «Confessioni». Ma la sua posizione diventò presto insostenibile: i fanatici si scagliavano da ogni parte contro di lui. Così, in preda a grande abbattimento, cercò nel settembre del 1765 un rifugio nell'isola di Saint Pierre (lago di Bienne) col pensiero di congedarsi dal secolo e dai suoi contemporanei. Ma cacciato anche di qui, si decise, cedendo agli inviti di Hume, a recarsi in Inghilterra (febbraio 1766). Ivi soggiornò a Wootton, ma senza trovarvi la pace; la sua mente era ormai stravolta dalla mania di persecuzione e di qui la clamorosa rottura con Hume, che ebbe anche un seguito letterario. Ritornato in Francia (maggio 1767) vagò per varie residenze; finchè, nel giugno del 1770, si stabilì a Parigi. A parte la pubblicazione del «Dizionario di musica» che è del 1767, dal 1764 alla morte la sua attività è assorbita (oltre che dalla botanica il cui studio fu un grande balsamo per il suo spirito), dalla redazione delle «Confessioni», dei «Dialoghi» (dal 1772 al 1776). delle «Rêveries» (dopo il 1776). Mentre i «Dialoghi» (o «Rousseau giudica Gian Giacomo») sono opera unicamente polemica e non particolarmente significativa, le «Confessioni», con le «Rêveries» che le proseguono, costituiscono il capolavoro letterario di R. In questo eminente documento di umanità, destinato a esercitare grande influsso nella storia del romanzo, egli narra la sua vita col massimo di sincerità e di abbandono (non però di esattezza) svolgendo le pieghe anche più riposte di un'anima sensibile e appassionata in drammatico contrasto col suo secolo.

È ad Erménonville, dove da poco si era recato, che ebbe termine, per apoplessia, tra il due e tre luglio del 1778, la sua travagliata esistenza.

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