Scena sesta

Nerone, Ottavia.

Ottav.

Tra 'l fero orror di tenebrosa notte,

cinta d'armate guardie, trar mi veggo

in questa reggia stessa, onde, ha due lune,

sveller mi vidi a viva forza. Or, lice

ch'io la cagione al mio signor ne chiegga?

Ner.

- Ad alto fine in marital legame

c'ebber congiunti i genitori nostri

fin da' piú teneri anni. Ognora poscia

docil non t'ebbi al mio volere in opre,

quanto in parole: assai gran tempo io 'l volli

soffrir; piú forse anco il soffria, se madre

di regal prole numerosa e bella

fossi tu stata almeno; ond'io ne avessi

ristoro alcun di affanni tanti. Invano

io lo sperai; sterile pianta, il trono

per te d'eredi orbo restava; e tolto

m'era, per te, di padre il dolce nome.

Ti repudiai perciò.

Ottav.

Ben festi; ov'altra,

troppo piú ch'io nol fui, felice sposa

farti di cari e numerosi figli

lieto potea, ben festi. Altra che t'ami

quant'io, ben so, non la trovasti ancora,

né troverai. Ma che? mi opposi io forse

ai voler tuoi? Nel rimirarti in braccio

d'altra, ne piansi; e piango. Altro che pianto,

e riverenza, e silenzio, e sospiri,

forse da me s'udia giammai?

Ner.

Dolcezza

hai su le labra molta; in cor non tanta.

Traluce ai detti il fiel: tu mal nascondi

l'ira che in sen contro Poppea nudrisci;

e celasti assai meno altre superbe

tue ricordanze di non veri dritti.

Ottav.

Deh! scordarti tu al par di me potessi

questi miei dritti, veraci pur troppo,

poi ch'io ne traggo sí veraci danni!...

D'odio e furor lampeggiano i tuoi sguardi?

Ah! ben vegg'io, (me misera!) che abborri

me piú assai, che marito odiar non possa

steril consorte. Oh me infelice donna!

Piú ognor ti offesi quant'io piú ti amai.

Ma, che ti chiesi? e che ti chieggo? oscura

solinga vita, e libertá del pianto.

Ner.

Ed io, pur certo che d'oscura vita

ti appagheresti meglio, a te prescritta

l'avea; ma poi...

Ottav.

Ma poi, pentito n'eri:

e ch'io non fossi abbastanza infelice,

nascea rimorso in te. De' tuoi novelli

legami aver me testimon volevi:

quí di tua sposa mi volevi ancella;

favola al mondo, e di tua corte scherno

farmi volevi. Eccomi dunque ai cenni

del mio signor: che degg'io fare? imponi. -

Ma in tua corte neppur misera appieno

farmi tu puoi, se col mio mal ti appago.

Or, di': sei lieto tu? placida calma

regna in tuo core? ad altra sposa al fianco,

securo godi que' tranquilli sonni,

che togli altrui? Quella Poppea, che orbata

d'un fratello non hai, piú ch'io nol fea,

ti fa beato?

Ner.

- In quanto pregio debba

il cor tenersi del signor del mondo,

mai nol sapesti; e il sa Poppea.

Ottav.

Poppea

prezzar sa il trono, a cui non nacque: io seppi

apprezzar te: né al paragon si attenti

meco venirne ella in amarti. Ottiene

ella il tuo cor; ma il merto io sola.

Ner.

Amarmi,

no, tu non puoi.

Ottav.

Ch'io nol dovrei, di' meglio:

ma dal tuo cor non giudicar del mio.

So, che fuor me ne serra eternamente

il sangue, ond'esco; e so, che in me tua immago,

contaminata del sangue de' miei,

loco trovar mai non dovria: ma forza

di fato è questa. - Or, se il fratello, il padre,

da te svenati io non rimembro, ardisci

tu a delitto il fratello e il padre appormi?

Ner. A delitto ti appongo Eucero vile...
Ottav. Eucero! a me?...
Ner. Sí; l'amator, che merti.
Ottav. Ahi giusto ciel! tu l'odi?...
Ner.

Havvi chi t'osa

rea tacciar d'impudico amor servile:

or, per ciò solo io ti ritraggo in Roma.

O a smentirlo, o a riceverne la pena,

a qual piú vuoi, ti appresta.

Ottav.

Oh non piú intesa

scelleraggine orrenda! Ov'è l'iniquo

accusator?... Ma, oimè! stolta, che chieggo? -

Nerone accusa, e giudica, ed uccide.

Ner.

Or vedi amore! odi il velen, se tutto

dal petto al fin non ti trabocca; or, ch'io

le tue arcane laidezze in parte scopro.

Ottav.

Misera me!... Che piú mi avanza? In bando

dal talamo, dal trono, dalla reggia,

dalla patria; non basta?... Oh cielo! intera

mia fama sola rimaneami; sola

mi ristorava d'ogni tolto bene:

sí prezíosa dote erami indarno

da colei, che in non cal tenne la sua,

invidíata: ed or mi si vuol torre,

pria della vita? Or via; Neron, che tardi?

Pace, il sai, (se pur pace esser può teco)

aver non puoi, finch'io respiro: i mezzi

di trucidar debole donna inerme

mancar ti ponno? Entro i recessi cupi

di questa reggia, atro funesto albergo

di fraude e morte, a tuo piacer mi traggi;

e mi vi fa svenare. Anzi, tu stesso

puoi di tua man svenarmivi: mia morte,

non che giovarti, è necessaria omai.

Del sol morir dunque ti appaga. Ogni altra

strage de' miei ti perdonai giá pria;

me stessa or ti perdono: uccidi, regna,

e uccidi ancor: tutte le vie del sangue

tu sai; giá in colorar le tue vendette

Roma è dotta: che temi? in me dei Claudj

muore ogni avanzo; ogni memoria e amore

che aver ne possa la plebe. I Numi

son usi al fumo giá dei sanguinosi

incensi tuoi: stan d'ogni strage appesi

i voti ai templi giá; trofei, trionfi

son le private uccisíoni. - Or dunque

morte a placarti basti: or macchia infame

perché mi apporre, ov'io morte sol chieggo?

Ner.

- In tua difesa intero a te concedo

questo nascente dí. Se rea non sei,

gioja ne avrò. - Non l'odio mio, ma temi

il tuo fallir, che di gran lunga il passa.

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