CLEOPATRA TERZA
quale fu recitata nel Teatro Carignano
Atto primo
scena prima Cleopatra, Ismene
CLEOPATRA |
Che farò?... Giusti Dei... Scampo non veggo ad isfuggire il precipizio orrendo. Ogni stato, benché meschino e vile, mi raffiguro in mente; ogni periglio stolta ravviso, e niun, fra tanti, ardisco affrontare, o fuggir, dubbi crudeli squarcianmi il petto, e non mi fan morire, né mi lasciano pur riposo, e vita. Raccapriccio d'orror; l'onore, il regno prezzo non son d'un tradimento atroce; ambo mi par di aver perduti; e Antonio, Antonio, sí, vedo talor frall'ombre gridar vendetta, e strascinarmi seco. Tanto dunque, o rimorsi, è il poter vostro? |
ISMENE |
Se hai pietà di te stessa, i moti affrena d'un disperato cuor; d'altro non temi, che non piú riveder quel fido amante? Ma ignori ancor, se vincitore, o vinto, se viva, o no... |
CLEOPATRA |
E s'ei vivesse ancora, con qual fronte, in qual modo, a lui davanti presentarmi potrò, se l'ho tradito? Della virtú qual è forza ignota, se un reo neppur può tollerarne i guardi? |
ISMENE |
No, Regina, non è sí reo quel core, che sente ancor rimorsi... |
CLEOPATRA |
Ah! sí, li sento: e notte, e dí, e accompagnata, e sola, sieguonmi ovunque, e il lor funesto aspetto non mi lascia di pace un sol momento Eppur, gridano invan; nell'alma mia servir dovranno a piú feroci affetti; né scorgi tu questo mio cuor qual sia. Mille rivolgo altri pensieri in mente, ma il crudel dubbio, d'ogni mal peggiore, vietami ognor la necessaria scelta. |
ISMENE |
Cleopatra, perché prima sciogliesti l'Egize vele all'aura, allor che d'Azio n'ingombravano il mar le navi amiche? E allor che il Mondo, alla gran lite intento, pendea per darsi al vincitore in preda, chi mai t'indusse a cosí incauta fuga? |
CLEOPATRA |
Amor non è, che m'avvelena i giorni; mossemi ognor l'ambizion d'impero. Tutte tentai, e niuna in van, le vie, che all'alto fin trar mi dovean gloriosa: ogni passione in me soggiacque a quella, ed alla mia passion le altrui serviro. Cesare il primo, il crin mi cinse altero del gran diadema: e non al solo Egitto leggi dettai, che quanta Terra oppressa avea già Roma, e il vincitor di lei, vidi talora ai cenni miei soggetta. Era il mio cor d'alta corona il prezzo, né l'ebbe alcun, fuorché reggesse il Mondo. Un trono, a cui da sí gran tempo avea la virtude, l'onor, la fè, donata, non lo volli affidare al dubbio evento, e alla sorte inegual dell'armi infide… serbar lo volli: e lo perdei fuggendo;... vacilla il piè su questo inerme soglio; e a disarmare il vincitor nemico, altro piú non mi resta che il mio pianto... tardi m'affliggo, e non cancella il pianto un tanto error, anzi lo fa piú vile. |
ISMENE |
Regina, il tuo dolor desta pietade in ogni cor, ma la pietade è vana. Rientra in te, riasciuga il pianto, e mira con piú intrepido ciglio ogni sventura; né soggiacer: ch'alma regale è forza si mostri ognor de' mali suoi maggiore. I mezzi adopra che parran piú pronti alla salute, od al riparo almeno del tuo regno. |
CLEOPATRA |
Mezzi non vedo, ignoto della gran pugna essendo ancor l'evento: né error novello, ai già commessi errori aggiunger sò, finché mi sia palese. D'Azzio lasciai l'instabil mar coperto, di navi, e d'armi, e d'aguerrita gente, sí che l'onda in quel dí vermiglia, e tinta di sangue fu, di Roma a danno ed onta. Era lo stuol piú numeroso, e forte, quel ch'Antonio reggea, e le sue navi, ergendo in mar i minaccievol rostri, parean schernir coll'ampia mole i legni piccioli, e frali del nemico altero; sí, questo è ver; ma avea la Sorte, e i Numi da gran tempo per lui Augusto amici; e chi amici non gli ha, gli sfida invano. Or che d'Antonio la fortuna è stanca, or che d'Augusto mal conosco i sensi, or che, tremante, inutil voti io formo, né sò per chi, della futura sorte fra i dubbi orror, solo smaniando e in preda a un mortal dolor, che piú sperare mi lice omai? tutto nel cuor mi addita, che vinta son, che non si scampa a morte, e a morte infame. |
ISMENE |
Non è tempo ancora di disperare appien del tuo destino. Chi può saper, s'alle nemiche turbe non avrà volto la fortuna il tergo; ovver se Augusto vincitor pietoso a te non renderà quanto ti diero un dí, Cesare, e Antonio. |
CLEOPATRA |
Il cor nutrirmi potrò di speme, allor che ben distinti ravviserò dal vincitore il vinto; ma in fin che ondeggia infra i rivai la sorte trapasserò miei dí mesti e penosi, in vano pianto; e di dolor non solo io piangerò, ma ancor di sdegno, e d'onta. Ma Diomede s'appressa…, il cuor mi palpita. |
scena seconda Diomede, Cleopatra, Ismene
CLEOPATRA |
Fedel Diomede, apportator di vita, o di morte mi sei?... Che rintracciasti? Si compí il mio destin?... parla – |
DIOMEDE |
Regina, i cenni tuoi ad adempir n'andava, quando scendendo alla marina in riva vidi affollar l'insana plebe al porto, confuse grida udii, s'eran di pianto, di gioia, o di stupor, nulla indagando, v'andai io stesso, e la cagion funesta di tal romor, purtroppo a me fu nota. Poche sdruscite, e fuggitive navi, miseri avanzi dell'audaci squadre, eran l'oggetto de' perversi gridi del basso volgo, che schernisce ognora quei, che non teme. |
CLEOPATRA | E in esse eravi Antonio? |
DIOMEDE |
Canidio, Duce alla fuggiasca gente credea trovarlo, cc. ec. |
E su questo andare proseguiva tutta intera, piuttosto lunghetta, essendo di versi 1641. Numero al quale poi non sono quasi mai piú arrivato nelle susseguenti tragedie che ho scritte sino in venti, allorché forse mi trovava poi aver qualcosa piú da dire. Tanto vagliono per l'esser breve i mezzi del poter dire in un modo piuttosto che in un altro.