[Comincia la terza cantica de la Commedia di Dante Alaghiere di Fiorenza, ne la quale si tratta de' beati e de la celestiale gloria e de' meriti e premi de' santi, e dividesi in nove parti. Canto primo, nel cui principio l'auttore proemizza a la seguente cantica; e sono ne lo elemento del fuoco e Beatrice solve a l'auttore una questione; nel quale canto l'auttore promette di trattare de le cose divine invocando la scienza poetica, cioè Appollo chiamato il deo de la Sapienza.]
La gloria di colui che tutto move per l'universo penetra, e risplende in una parte più e meno altrove. |
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Nel ciel che più de la sua luce prende fu' io, e vidi cose che ridire né sa né può chi di là sù discende; |
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perché appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire. |
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Veramente quant' io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sarà ora materia del mio canto. |
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O buono Appollo, a l'ultimo lavoro fammi del tuo valor sì fatto vaso, come dimandi a dar l'amato alloro. |
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Infino a qui l'un giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue m'è uopo intrar ne l'aringo rimaso. |
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Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsïa traesti de la vagina de le membra sue. |
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O divina virtù, se mi ti presti tanto che l'ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti, |
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vedra'mi al piè del tuo diletto legno venire, e coronarmi de le foglie che la materia e tu mi farai degno. |
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Sì rade volte, padre, se ne coglie per trïunfare o cesare o poeta, colpa e vergogna de l'umane voglie, |
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che parturir letizia in su la lieta delfica deïtà dovria la fronda peneia, quando alcun di sé asseta. |
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Poca favilla gran fiamma seconda: forse di retro a me con miglior voci si pregherà perché Cirra risponda. |
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Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo; ma da quella che quattro cerchi giugne con tre croci, |
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con miglior corso e con migliore stella esce congiunta, e la mondana cera più a suo modo tempera e suggella. |
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Fatto avea di là mane e di qua sera tal foce, e quasi tutto era là bianco quello emisperio, e l'altra parte nera, |
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quando Beatrice in sul sinistro fianco vidi rivolta e riguardar nel sole: aguglia sì non li s'affisse unquanco. |
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E sì come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pelegrin che tornar vuole, |
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così de l'atto suo, per li occhi infuso ne l'imagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostr' uso. |
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Molto è licito là, che qui non lece a le nostre virtù, mercé del loco fatto per proprio de l'umana spece. |
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Io nol soffersi molto, né sì poco, ch'io nol vedessi sfavillar dintorno, com' ferro che bogliente esce del foco; |
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e di sùbito parve giorno a giorno essere aggiunto, come quei che puote avesse il ciel d'un altro sole addorno. |
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Beatrice tutta ne l'etterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote. |
66 |
Nel suo aspetto tal dentro mi fei, qual si fé Glauco nel gustar de l'erba che 'l fé consorto in mar de li altri dèi. |
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Trasumanar significar per verba
non si poria; però l'essemplo basti a cui esperïenza grazia serba. |
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S'i' era sol di me quel che creasti novellamente, amor che 'l ciel governi, tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti. |
75 |
Quando la rota che tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso con l'armonia che temperi e discerni, |
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parvemi tanto allor del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece alcun tanto disteso. |
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La novità del suono e 'l grande lume di lor cagion m'accesero un disio mai non sentito di cotanto acume. |
84 |
Ond' ella, che vedea me sì com' io, a quïetarmi l'animo commosso, pria ch'io a dimandar, la bocca aprio |
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e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso col falso imaginar, sì che non vedi ciò che vedresti se l'avessi scosso. |
90 |
Tu non se' in terra, sì come tu credi; ma folgore, fuggendo il proprio sito, non corse come tu ch'ad esso riedi». |
93 |
S'io fui del primo dubbio disvestito per le sorrise parolette brevi, dentro ad un nuovo più fu' inretito |
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e dissi: «Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro com' io trascenda questi corpi levi». |
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Ond' ella, appresso d'un pïo sospiro, li occhi drizzò ver' me con quel sembiante che madre fa sovra figlio deliro, |
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e cominciò: «Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l'universo a Dio fa simigliante. |
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Qui veggion l'alte creature l'orma de l'etterno valore, il qual è fine al quale è fatta la toccata norma. |
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Ne l'ordine ch'io dico sono accline tutte nature, per diverse sorti, più al principio loro e men vicine; |
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onde si muovono a diversi porti per lo gran mar de l'essere, e ciascuna con istinto a lei dato che la porti. |
114 |
Questi ne porta il foco inver' la luna; questi ne' cor mortali è permotore; questi la terra in sé stringe e aduna; |
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né pur le creature che son fore d'intelligenza quest' arco saetta, ma quelle c'hanno intelletto e amore. |
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La provedenza, che cotanto assetta, del suo lume fa 'l ciel sempre quïeto nel qual si volge quel c'ha maggior fretta; |
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e ora lì, come a sito decreto, cen porta la virtù di quella corda che ciò che scocca drizza in segno lieto. |
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Vero è che, come forma non s'accorda molte fïate a l'intenzion de l'arte, perch' a risponder la materia è sorda, |
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così da questo corso si diparte talor la creatura, c'ha podere di piegar, così pinta, in altra parte; |
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e sì come veder si può cadere foco di nube, sì l'impeto primo l'atterra torto da falso piacere. |
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Non dei più ammirar, se bene stimo, lo tuo salir, se non come d'un rivo se d'alto monte scende giuso ad imo. |
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Maraviglia sarebbe in te se, privo d'impedimento, giù ti fossi assiso, com' a terra quïete in foco vivo». |
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Quinci rivolse inver' lo cielo il viso. | 142 |