[Canto XXX, ove narra come l'auttore vidde per conducimento di Beatrice li splendori de la divinità e le seggie de l'anime de li uomini, tra le quali vide già collocata quella de lo imperadore Arrigo di Lunzimborgo con la sua corona.]
Forse semilia miglia di lontano ci ferve l'ora sesta, e questo mondo china già l'ombra quasi al letto piano, |
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quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch'alcuna stella perde il parere infino a questo fondo; |
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e come vien la chiarissima ancella del sol più oltre, così 'l ciel si chiude di vista in vista infino a la più bella. |
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Non altrimenti il trïunfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse, parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude, |
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a poco a poco al mio veder si stinse: per che tornar con li occhi a Bëatrice nulla vedere e amor mi costrinse. |
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Se quanto infino a qui di lei si dice fosse conchiuso tutto in una loda, poca sarebbe a fornir questa vice. |
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La bellezza ch'io vidi si trasmoda non pur di là da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda. |
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Da questo passo vinto mi concedo più che già mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo: |
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ché, come sole in viso che più trema, così lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema. |
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Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista, non m'è il seguire al mio cantar preciso; |
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ma or convien che mio seguir desista più dietro a sua bellezza, poetando, come a l'ultimo suo ciascuno artista. |
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Cotal qual io la lascio a maggior bando che quel de la mia tuba, che deduce l'ardüa sua matera terminando, |
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con atto e voce di spedito duce ricominciò: «Noi siamo usciti fore del maggior corpo al ciel ch'è pura luce: |
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luce intellettüal, piena d'amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore. |
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Qui vederai l'una e l'altra milizia di paradiso, e l'una in quelli aspetti che tu vedrai a l'ultima giustizia». |
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Come sùbito lampo che discetti li spiriti visivi, sì che priva da l'atto l'occhio di più forti obietti, |
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così mi circunfulse luce viva, e lasciommi fasciato di tal velo del suo fulgor, che nulla m'appariva. |
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«Sempre l'amor che queta questo cielo accoglie in sé con sì fatta salute, per far disposto a sua fiamma il candelo». |
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Non fur più tosto dentro a me venute queste parole brievi, ch'io compresi me sormontar di sopr' a mia virtute; |
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e di novella vista mi raccesi tale, che nulla luce è tanto mera, che li occhi miei non si fosser difesi; |
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e vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. |
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Di tal fiumana uscian faville vive, e d'ogne parte si mettien ne' fiori, quasi rubin che oro circunscrive; |
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poi, come inebrïate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge, e s'una intrava, un'altra n'uscia fori. |
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«L'alto disio che mo t'infiamma e urge, d'aver notizia di ciò che tu vei, tanto mi piace più quanto più turge; |
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ma di quest' acqua convien che tu bei prima che tanta sete in te si sazi»: così mi disse il sol de li occhi miei. |
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Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi ch'entrano ed escono e 'l rider de l'erbe son di lor vero umbriferi prefazi. |
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Non che da sé sian queste cose acerbe; ma è difetto da la parte tua, che non hai viste ancor tanto superbe». |
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Non è fantin che sì sùbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l'usanza sua, |
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come fec' io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l'onda che si deriva perché vi s'immegli; |
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e sì come di lei bevve la gronda de le palpebre mie, così mi parve di sua lunghezza divenuta tonda. |
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Poi, come gente stata sotto larve, che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non süa in che disparve, |
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così mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, sì ch'io vidi ambo le corti del ciel manifeste. |
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O isplendor di Dio, per cu' io vidi l'alto trïunfo del regno verace, dammi virtù a dir com' ïo il vidi! |
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Lume è là sù che visibile face lo creatore a quella creatura che solo in lui vedere ha la sua pace. |
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E' si distende in circular figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura. |
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Fassi di raggio tutta sua parvenza reflesso al sommo del mobile primo, che prende quindi vivere e potenza. |
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E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando è nel verde e ne' fioretti opimo, |
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sì, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in più di mille soglie quanto di noi là sù fatto ha ritorno. |
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E se l'infimo grado in sé raccoglie sì grande lume, quanta è la larghezza di questa rosa ne l'estreme foglie! |
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La vista mia ne l'ampio e ne l'altezza non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e 'l quale di quella allegrezza. |
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Presso e lontano, lì, né pon né leva: ché dove Dio sanza mezzo governa, la legge natural nulla rileva. |
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Nel giallo de la rosa sempiterna, che si digrada e dilata e redole odor di lode al sol che sempre verna, |
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qual è colui che tace e dicer vole, mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira quanto è 'l convento de le bianche stole! |
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Vedi nostra città quant' ella gira; vedi li nostri scanni sì ripieni, che poca gente più ci si disira. |
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E 'n quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che già v'è sù posta, prima che tu a queste nozze ceni, |
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sederà l'alma, che fia giù agosta, de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia verrà in prima ch'ella sia disposta. |
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La cieca cupidigia che v'ammalia simili fatti v'ha al fantolino che muor per fame e caccia via la balia. |
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E fia prefetto nel foro divino allora tal, che palese e coverto non anderà con lui per un cammino. |
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Ma poco poi sarà da Dio sofferto nel santo officio; ch'el sarà detruso là dove Simon mago è per suo merto, |
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e farà quel d'Alagna intrar più giuso». | 148 |