Prefazione

“Pel nostro modo di vedere, e di sentire l’unica e vera illustrazione della Divina Commedia è e rimarrà sempre quella d’un artista, il quale sappia talmente ispirarsi dai personaggi del Poema e sappia talmente immedesimarsi colla sostanza artistica di quest’opera immortale, da saperci rendere nell’arte sua, con tutto il vigore della sua personalità artistica, ciò ch’egli ha afferrato col proprio intelletto, vissuto nella propria anima”. Così ha scritto Ludovico Volkmann. E Guido Biagi ha soggiunto: “L’arte quattrocentista, nella sua purità ideale, perdeva di robustezza e di forza quanto si studiava acquistare di gentilezza e di grazia, e con i suoi tenui profili non sapeva o voleva assorgere alla grandiosità dei concetti danteschi”. E Alfredo Bassermann: “La poesia precedette sempre l’arte figurativa. Omero ha contemplato gli dèi e gli eroi in tutta la loro potenza e bellezza molto tempo prima che allo scalpello di Fidia venisse fatto di trovarne la piena espressione, e Dante ci colloca dinanzi uomini tanto ricchi di personalità e verità fisica e psichica, quali appena furono capaci di rappresentare Signorelli e Michelangelo.”

Tutti, dunque, implicitamente concordi a riconoscere che l’illustrazione più efficace della Divina Commedia non poteva esser fatta nel secolo del poeta, nè per molto dopo; ma solo quando l’arte, in sicuro possesso d’ogni forma, avesse superato ogni ostacolo nell’esprimere i più audaci moti e i più fieri sentimenti, e fosse sòrto l’artista il quale avesse, con maggiore intensità, compreso e, con maggiore vastità e drammaticità, espresso lo spirito del poeta.

Infatti le miniature del tempo stesso di Dante, o di poco posteriori, nella loro semplicità, per non dire miseria, così d’ambiente come di espressione, sono a mille miglia dal rendere graficamente la maravigliosa potenza della poesia dantesca, per la quale era appunto necessaria una vigorosa plastica e un dominio di mezzi tecnici raggiunti poco meno di due secoli dopo.

Le miniature, in molti casi, non sono che ornamentali e senza riferimento al testo. In altri casi, poi, non sono nemmeno artistiche, ma topograficamente esplicative, limitate cioè a disegni geometrici ed astronomici, nei quali, stando al Vasari, si occupò anche Filippo Brunelleschi.

È vero che, qualche volta, a tali disegni sono accompagnate alcune figurine; ma, più che per dare idee artistiche, stanno lì a spiegazione del simbolo o dell’allegoria. E quando infine le miniature si presentano come descrittive, ossia intese a tradurre in scena dipinta la scena poetica, la loro minuzia e timidezza crea tal contrasto con la grandezza della immaginazione dantesca che, salvo poche eccezioni, farebbero davvero pietà, se non si considerassero come ricca, elegante e brillante decorazione del libro, anzi che vere e proprie illustrazioni del poema.

Un altro ciclo di figurazioni si è voluto, in passato, totalmente includere nell’iconografia dantesca, ed è quello dei Giudizi Universali coi quali, in ispecie, la pittura trecentistica coprì grandi pareti di chiese. Ora per quasi tutti si nega l’influenza del Poema; ma forse in ciò si esagera come si esagerava prima considerandoli senz’altro per vere e proprie traduzioni o sintesi pittoriche del Poema stesso.

Noi pensiamo invece ad una cosa assai semplice: le figurazioni del Giudizio Universale anteriori al secolo XIV qualcosa debbono aver suggerito a Dante; le figurazioni posteriori qualcosa debbono aver preso da Dante, pur senza staccarsi dallo schema tradizionale.

Le rappresentazioni del Giudizio Universale sono assai antiche, più antiche di quel che si è creduto finora. Finora, infatti, s’indicava per la più antica quella di San Giorgio nell’isola di Reichenau, sul lago di Costanza, eseguita nella metà del secolo XI. Ma oggi il Wilpert, in un acuto studio sulle pitture della basilica primitiva di San Clemente, ha potuto riconoscerne una dipinta sotto Leone IV, ossia verso 1’850; e nulla autorizza a ritenere che prima non ne fossero state eseguite altre.

Dopo il mille, l’impressionante, popolosa e tumultuosa figurazione divenne frequente nelle chiese: scolpita all’esterno nei portali, dipinta all’interno sulle pareti.

Quantunque dal Ferrazzi al Kraus, dal Selvatico al Bassermann, dal De Batines al Volkmann, moltissimi si siano occupati dell’iconografia dantesca, a noi pare che un lavoro definitivo sui Giudizi Universali in rapporto al concetto svolto dall’Alighieri manchi sempre. Le conclusioni poggiano ancora sull’esame di troppo pochi monumenti, mentre sono abbondantissimi, specialmente in Italia. Ad ogni modo le ricerche nostre ci conducono a non accettare in modo assoluto l’opinione del Volkmann il quale non vede nel Giudizio Universale di Giotto a Padova, in quelli del Camposanto di Pisa, di San Petronio di Bologna, e in diversi altri, alcuna influenza dantesca, ma un semplice sèguito degli esempi anteriori, massimamente del secolo XIII, pensando che, dove s’incontrano attinenze, esse siano determinate dalle affinità inevitabili del soggetto.

Noi conveniamo con lui quando rifiuta di considerarle come rappresentazioni derivate dalla Divina Commedia, ma ci sembra che non debba sfuggire in esse lo sviluppo dato, sia pure con differenza nei modi, al sistema della divisione penale.

Negli Inferni di Torcello, di Sant’Angelo in Formis, del Battistero di Firenze, anteriori alla conoscenza della Divina Commedia, noi vediamo una folla di dannati che s’agita tra le fiamme e tra i serpi, ma non ancora separata in tante bolgie, formate da solchi montuosi o da rupi o da laghi, come precisamente vediamo a Padova, a Pisa, a Firenze, a Bologna, a Toscanella, a Fossa, a Soleto, a Cori ecc. Un accenno a pene infernali allusive a diversi vizi troviamo in una scoltura del secolo XII o XIII esistente nella fronte della chiesa di Fornovo sul Taro presso Parma; ma si tratta di cosa rudimentale, d’episodî accostati senza nessuna idea, per così dire, topografica, tale insomma da costituire piuttosto un precedente alle idee dantesche, che alle pitture trecentistiche.

Certo, tra i precursori di Dante sono da collocare certi anonimi artisti accennanti appunto a speciali modi di pena, come l’autore della scoltura demoniaca d’Alba Fucense, il lapicida di Fornovo (al quale si deve pure una lunetta in Talignano con la contesa tra il demonio e l’angelo pel possesso delle anime) e quanti, infine, prima del poeta, dettero gigantesco sviluppo alla figura di Lucifero. Ma se quei vecchi e umili monumenti possono suggerire l’idea di un sistema penale sviluppato poi da Dante in maniera da parer creazione originale, manca però sempre in essi ogni accenno a quella divisione in cerchi e bolgie che vediamo apparire nella pittura solo dopo Dante.

Ad ogni modo, non si nega l’influenza diretta del poema nell’Inferno dipinto, poco dopo la metà del sec. XIV, da Nardo di Cione Orcagna nella cappella Strozzi in Santa Maria Novella a Firenze. Il Volkmann, riferendosi ad una miniatura del codice italiano 74 della Biblioteca Nazionale di Parigi e scorgendovi affinità evidenti con l’Inferno di Nardo, ne trae questa idea: “La concordanza di questi due dipinti è tale, che assolutamente non si può dire un caso fortuito; ci è impossibile precisare la natura di questa concordanza, ma può essere la più semplice immaginabile, cioè che molti pittori fossero nello stesso tempo miniatori. In ogni caso un giudiszio che demolisce completamente il valore obbiettivo dell’affresco, è il dover constatare non essere se non una miniatura ingrandita”. – Ora a noi pare che tutta una serie di argomenti stia contro a tale opinione. Anzitutto, le quotidiane scoperte di documenti e i recenti studi sulle miniature conducono sempre più a provare che l’arte del miniare era ben distinta da quella del dipingere quadri e pareti, sì che le eccezioni di chi miniasse e frescasse ad un tempo vanno sempre più diminuendo; in secondo luogo, il confronto delle miniature del codice parigino con l’Inferno di Nardo, non è da richiamare nel caso nostro, perchè non v’ha chi non vegga che la miniatura è posteriore alla pittura; in terzo, non si può non vedere che, mentre Nardo per l’assegnazione delle pene si tiene esclusivamente a Dante, nel carattere degli scompartimenti o bolgie divise da brevi scogli non differisce dai trecentisti anteriori a lui, che fecero consimili figurazioni prima che apparissero miniate nei codici; finalmente, è da notare che le miniature, seguendo lo svolgimento del libro, non erano affatto soggette alla necessità di affastellare le singole pene e i singoli episodî in una rappresentazione unica e complessa, mentre il pittore, avendo dinanzi a sè una sola parete, si vedeva costretto a riunirvi tutto in una specie di sintesi forzata. Non sappiamo se la piccolezza delle figure nelle monumentali rappresentazioni del Giudizio abbia indotto il Volkmann a giudicarle per miniature ingrandite, ma ci sembra che l’ultima ragione da noi esposta dimostri la necessità, anzi l’inevitabilità di quella piccolezza, e non sia del caso richiamarsi, per contrasto, alle opere del Signorelli e di Michelangelo, perchè questi non pensarono mai (e la loro arte non lo consentiva) a dipingere Inferni distinti in cerchi e in bolgie.

Il quattrocento, prima di Sandro Botticelli e di Luca Signorelli, trattò l’Inferno poco diversamente dal trecento, dominato dalla tradizione pittorica più che dall’influenza dantesca, salvo che, forse, nella tavola di Giovanni di Paolo conservata nella Galleria di Siena e che porta la data del 1453.

Ma ecco le prime edizioni della Divina Commedia sopravvenire e risvegliare il culto di Dante, proprio quando l’arte sta per raggiungere il possesso completo delle forme, ed ecco l’iconografia dantesca arricchirsi di tre interessanti opere: il codice urbinate della Vaticana num. 365; i disegni di Sandro Botticelli e gli affreschi di Luca Signorelli.

Le miniature del codice urbinate non vanno considerate nè come decorative, nè come esplicative. Esse costituiscono invece una propria e completa illustrazione del poema espressa in ben centodieci grandi miniature. La data della prima parte del codice va inclusa fra il 1476 e il 1482, pel fatto che vi si vede l’Ordine inglese della Giarrettiera concessa a Federico duca di Urbino nel 1476, e che il codice stesso principia con la dedica e procede per molto recando il nome di lui che sappiamo morto nel 1482. Ma, poi, il lavoro si produce per assai tempo, e rimane interrotto al canto XXVIII del Purgatorio, o meglio rimane interrotto nelle figurazioni, perchè gli ornati fatti in precedenza continuano ancora un poco sul vecchio stile. E sopravviene con Matelda un miniatore povero d’immaginazione, languido, sdolcinato, della scuola di Federigo Barocci, il qualefinisce di illustrare il poema con tondi e crocette ornamentali che per poco non paiono esercizi di educande. Solo al canto X del Paradiso riappare una miniatura del primo modo, al quale conviene riconoscere abbondanza di scene ricche di figure e di episodî, con demoni arguti e vivacissimi, e, su tutto, paesaggi pieni di tristezza, sotto cieli sinistri e paurosi.#id___RefHeading___Toc163907_4024990620

Di chi sono le efficaci miniature? Non certo dell’amanuense Matteo de’ Contugi da Volterra, come pensa il Selvatico, nè d’uno scolaro del Perugino come pretende il D’Agincourt, nè d’Andrea Mantegna o di qualche suo seguace, come sospetta il Barlow, nè d’altri influenzati da Pier della Francesca, come crede il Volkmann. Il maestro, in parte autore e in parte ispiratore, si riattacca meglio alle forme ferraresi tanto negli ornati quanto nelle figure, cosicchè Federico Hermanin fa il nome di Guglielmo Giraldi detto il Magro (di cui si hanno notizie fra il 1443 e il 1477) come di colui che parzialmente eseguì, ma ideò e diresse l’opera, cui collaborarono diversi suoi discepoli.

A questo punto appaiono nell’iconografia dantesca i due grandi nomi di Sandro Botticelli e di Luca Signorelli.

L’autore del codice Gaddiano lasciò scritto del Botticelli: “Dipinse e storiò un Dante in cartapecora a Lorenzo di Piero Francesco de Medici, il che fu cosa maravigliosa tenuta”.

I disegni, per qualche parte nella Vaticana e per molta già nella biblioteca del Duca di Hamilton in Iscozia, sono rimasti lungamente sconosciuti o quasi. Il Waagen solo aveva ricordati nei Treasures of Art in Great Britain quelli del Duca d’Hamilton dopo averli veduti appena di sfuggita, e il De Batines gli altri della Vaticana, senza però riconoscerli come opera del Botticelli. Ciò che non fecero il Waagen e il De Batines fecero il Lippmann e Giuseppe Strzygowski, il primo studiando a dovere e pubblicando in due edizioni i disegni passati dalla Raccolta Hamilton ai Musei di Berlino nel 1882 e lo Strzygowski riconoscendo quelli della Vaticana.

Il Lippmann ha scritto un bello studio su tali disegni; ma, ci pare, con qualche tratto di soverchio amore per l’argomento. Egli fa di Sandro di Mariano poco meno di un dotto, e vede in lui tanta influenza delle idee del Savonarola, da cangiar l’arte sua di piacente in tragica e triste. Nullameno, avvertendo che il Botticelli ha veduto e talora imitato qualche codice, riconosce il lavoro più come una espressione dell’arte botticelliana che una penetrazione del poema dantesco, così da concludere: “Ma, come la Bibbia, la Divina Commedia può vestir gli abiti di tutti i tempi”.

L’osservazione del Lippmann è certamente giusta; ma sarebbe più giusta se non si limitasse alla Bibbia e alla Commedia. È ovvio che ogni libro illustrato avrà sempre, nei diversi tempi, illustrazioni conformi al gusto e al sentimento pittorico dei tempi stessi, inevitabilmente.

Solo, come si è detto, si dovrà riconoscere che un’arte e un temperamento d’artista possono convenir meglio d’altri a rendere il sentimento d’un’opera letteraria. È naturale che il Botticelli faccia del “botticellismo” anche illustrando Dante. Ciò che solo giova avvertire si è se la sua arte s’attaglia alla forza dantesca.

Il Volkmann scrive: “Quale differenza con gli antecedenti! Ciò che là era imbarazzato, qui è libero; ciò che là era senza vita, è qui d’una potente energia e movimento; in nessun punto puerili aberrazioni, ma tutto essenziale e adeguato”.

Francamente noi non vi troviamo tutto questo. I disegni sono belli ed eleganti; ma ci paiono tutt’altro che “d’una potente energia e movimento”. Tutt’al più la loro grazia è a posto nel Paradiso, quantunque le ripetizioni di certi gruppi gli dia proprio quella monotonia che qualcuno, pur avvertendo, vuol scusare.

Del resto, il modoonde i disegni sono fatti, a semplice contorno, mantenendo un’egual chiarezza di ambiente per le tre cantiche, toglie loro quella varietà che le differenzia maggiormente e che noi diremmo di “chiaro-scuro”; tenebre profonde, appena qua e là solcate da rossi bagliori di fiamma, nell’Inferno; albe e tramonti di sole e di luna nella diafana atmosfera del Purgatorio; fulgore abbagliante di pianeti, d’astri, di fuochi nel Paradiso.

Esaminando i bellissimi disegni del Botticelli, qual differenza si può trovare tra la selva selvaggia ed aspra e forte e la selva che si vede nel celebre quadro della Primavera? E le tre fiere allineate di profilo con la lingua tortuosa, come se uscissero da imprese araldiche, non sembrano piuttosto gentilmente accolte che temute dal poeta? La città di Dite ha la torre d’un bel castello del suburbio fiorentino, e le tombe anziché ruvide e pesanti appaiono sottilmente lavorate di cornici, di targhette, di ghirlande come quelle che la grazia sovrana di Mino e di Desiderio sapeva ideare e compiere.

La dolorosa foresta dei suicidi presenta l’aspetto d’un intralciato banco di coralli, basso basso nella proporzione delle figure umane, delle arpie e dei cani. Gerione sembra un mostro di torneo, e il fragoroso Flegetonte un ruscello. Della figura stessa di Lucifero egli non ha potuto trar partito per creare un gigante poderoso e fiero, quale si vede in tante opere anteriori, ed ha fatto un orso in piedi. Certo non mancano tratti efficaci ed espressivi, ma non senza i caratteri fugaci del casuale o le impronte dello sforzo.

Invece, che l’anima artistica del Botticelli fosse attratta piuttosto alla leggiadria, ecco a provarlo l’angelo nocchiero, che, seduto sulla nave, approda con le anime all’isoletta, e l’altro, parimenti seduto alla porta del Purgatorio e la Vergine Annunciata nei rilievi del girone dove sono puniti i superbi, e Matelda che sceglie fior da fiore, e la schiera degli angeli che precedono e circondano festosi il carro di Beatrice, tutte figure magnifiche, che esprimono la felicità troppo meglio che quelle dei dannati e dei peccatori non esprimano la disperazione e il dolore.

E perciò appunto, solo quando ha lasciato del tutto dannati e peccatori, il Botticelli sembra operare con sentimento adeguato al soggetto; e crea veramente, sulla scorta di Dante, una divina Beatrice, mentre, pur con la stessa scorta, non aveva creato un Lucifero e nemmeno un Catone.

Gagliardia ben più conforme allo spirito della poesia dantesca, è quella di Luca Signorelli. Ne’ suoi affreschi d’Orvieto (quantunque egli non abbia propriamente illustrato la Divina Commedia – se non in alcune figure e in undici chiaroscuri pei primi canti del Purgatorio – nè abbia seguita una distinzione penale come l’Orcagna) oramai Dante si sente assai più che non in tutte le opere anteriori, compresi i disegni del Botticelli. Il Volkmann scrive a ragione: “Le reminiscenze dantesche estrinseche sono minime, anzi spariscono quasi in confronto alla grandiosità dell’opera; eppure gli affreschi d’Orvieto si potranno dire a buon diritto una Divina Commedia dipinta, perchè appunto in quei dipinti si manifesta anzitutto l’influenza durevole esercitata dal poema di Dante sul concetto dei regni d’oltretomba”. Ma poi, quando soggiunge che in essi “scorgesi come il Signorelli abbia saputo inoltrarsi nello spirito di Dante” noi crediamo che sbagli, persuasi che l’accordo non derivi tanto da comprensione letteraria o da penetrazione psicologica, quanto da varie affinità tra il temperamento artistico di Dante e quello del Signorelli; cosicché conveniamo con Alfredo Bassermann il quale dice che “il mondo dei pensieri e delle figure di Dante, ha fecondato un’anima di artista affine alla sua”; e meglio ancora: “La stupefacente riproduzione della realtà della vita, e la irresistibile ed impetuosa forza della rappresentazione, lo sdegno appassionato, la vigoria primitiva che parlano in questi dipinti, sono certo tutte qualità che ricordano Dante. Ma esse non provano se non che il genio del Signorelli era affine a quello di Dante: che egli pure era un’alma sdegnosa, il cui fuoco represso schizzava scintille da tutte le sue creazioni”.

Con l’opera insigne del Signorelli, saremmo giunti a Michelangelo e al Cinquecento; ma le stampe ci richiamano, sia pur brevemente, un po’ indietro.

La prima edizione di Dante illustrata è quella del 1481, edita in Firenze da Nicolò della Magna, col commento di Cristoforo Landino. Alcuni esemplari d’essa contengono diecinove incisioni in rame: altre, un numero minore. Tali incisioni, che il Vasari assegna all’orefice fiorentino Baccio Baldini, derivano da disegni del Botticelli, che a ragione l’Ulmann e il Lippmann credono fatti apposta per la stampa e da non confondersi, quantunque simili in parte, coi disegni fatti per Lorenzo di Pier Francesco de Medici. I legni della stampa bresciana del 1487 e delle due veneziane del 1491 muovono da esse, quantunque liberamente intese. Così, per qualche tempo, le illustrazioni delle stampe cinquecentiste sono, per carattere di arte, propriamente da riferirsi al secolo XV e in ispecie alla stampa del Benali del 1491. E nemmeno allorquando sembrano accennare a un indirizzo nuovo, come con la stampa dello Stagnino (1512) e più con quella del Marcolino (1544) – fecondatrici a loro volta e ispiratrici d’altre molte – si svincolano del tutto dalla tradizione; rimangono anzi terra terra, non tanto per la mediocre esecuzione tecnica, quanto perchè nessun artista veramente grande fu mai incaricato di fornirne i disegni e perchè l’elemento topografico ha in esse troppa prevalenza.

Cesare Balbo ha detto che il cinquecento “fu per Dante un secolo di gloria crescente e diffondentesi”.

Al declinare dell’umanesimo, il culto di Dante naturalmente risale. Gli umanisti avevano disprezzata la lingua volgare in modo così fiero da non poter astrarsi completamente dal loro pregiudizio e apprezzare il poema nel suo altissimo valore artistico e morale. Nel ritorno, inoltre, all’antichità classica, la materia trattata da Dante doveva apparir loro oramai confinata nel Medio Evo, e quindi cosa da considerarsi poco più che nel riflesso storico. Ma l’opera del genio era troppo alta perchè dovesse “giacer del colpo” che l’umanesimo le aveva dato, e risorse “più lucente e maggior fatta”.

Nello scorcio del secolo XV s’ebbe una trentina di edizioni, e una quarantina s’ebbe nel secolo seguente, con diversi notissimi commenti. Specialmente i Fiorentini si abbandonarono al culto del loro grande cittadino e non esitarono a riconoscerlo per un ingegno “miracoloso e divino”. Vedremo più avanti che cosa pensasse e scrivesse di lui Michelangelo.

Ora ricordiamo che Lodovico Dolce racconta che un predicatore chiamava Dante messer Settembre e il Petrarca messer Maggio “alludendo alle stagioni, l’una piena di frutti, l’altra di fiori”. Agli Accademici fiorentini poi, la Divina Commedia serviva a pennello per dimostrare che la lingua toscana era “atta ad esprimere qualsivoglia concetto di filosofia o astrologia o di qualunque altra scienza” e così bene come fosse “la latina e forse anche la greca.” Lo studio e il commento del Poema fu perciò tenuto in gran conto, sia per la purezza e la proprietà della lingua, sia per l’altezza e l’importanza della materia trattata.

Il Giambullari dettava: “La grandezza di questo divin poeta, che in molti modi largamente si manifesta a chi l’attende con diligenza, tanto più veramente è mirabile, quanto più nella sua Commedia abbondantissimamente si trova da satisfarsi e da contentarsi in qualunque si voglia cosa, che intrattenere e dilettar possa la mente umana, e nelle scienze massimamente; le quali ha egli non pur salutate (come si dice) solamente su la soglia, ma tanto, e siffattamente in ciascuna di quelle si è profondato, che se elle non si trovassero molto più antiche di lui, facilmente ne potrebbe egli essere stato tenuto autore ed inventore.”

La prima lezione dantesca (sul canto XVII del Purgatorio) fu tenuta in Santa Maria Novella nel febbraio del 1540, tra una folla di gente curiosa e ammirata, da Francesco Verini il vecchio, il quale ne fece altre due, seguìto da G. B. Gelli e via via da altri, sempre con maggior frequenza, sino a che il Duca Cosimo nel 1553 provvide a una continua lettura e interpretazione di Dante e del Petrarca. Primo lettore regolare di Dante fu il Gelli, che, fino al 1563, fece, in poco meno che un centinaio di lezioni, il commento ai primi ventisei canti del Poema. E fu quello del Gelli il momento del maggior fervore, perchè, dopo la sua morte, nessuno volle più sobbarcarsi al preciso impegno di lettore ordinario di Dante. Non si creda però che si trattasse di un rigoroso commento dantesco. Dove non sovrabbondava l’esame del vocabolo, sovrabbondavano le divagazioni filosofiche e le digressioni di storia fisica o naturale.

Ad ogni modo è da notare che il Giambullari aveva pure indugiato sulla topografia dantesca, e che commenti parziali e spesso interessanti lasciarono anche il Varchi, il Buonanni e diversi altri, mentre in altre accademie ancora si trattarono o discussero brani e pensieri danteschi così in Firenze come in parecchie altre città d’Italia.

L’anima artistica, uguale per altezza e per rettitudine, per isdegno e per terribilità all’anima poetica di Dante era intanto sorta, ed era quella di Michelangelo. Quantunque non abbia propriamente mai illustrato la Divina Commedia, egli, in arte, resta per noi il suo maggior interprete, così per amore al soggetto come per l’energia dell’espressione e della tecnica.

D’altra parte, le prove della sua venerazione per Dante e pel suo poema abbondano, e sono prove di tale intensità che rivelano in lui assai più che una semplice venerazione letteraria ed artistica. L’esser, come Dante, toscano; sentire lo stesso sdegno per le bassezze umane; l’aver lottato pel bene della patria; averne veduto lo strazio; l’esserne stato esiliato.... furono tutte cose che dovettero portare la sua anima, già eccitata dalle roventi parole del Savonarola contro la corruzione, al culto di Dante fratello di dolore, maestro di dignità, esempio di fierezza. Per lui quindi la lettura della Divina Commedia divenne una necessità dello spirito.

Giovanissimo ancora, a Bologna, legge il Poema in casa Aldovrandi, e quando nel 1519 l’Accademia Medicea manda a Leon X il noto Memoriale, chiedendo il trasferimento delle ossa di Dante da Ravenna a Firenze, Michelangelo sottoscrive così: “Io Michelangelo scultore il medesimo a Vostra Santità supplico oferendomi al divin poeta fare la sepoltura sua chondecente e in loco onorevole in questa città.” Le ossa non furono portate a Firenze e la condecente sepoltura non fu fatta, ma l’omaggio di Michelangelo al “vicin suo grande” si esplicò parimenti in versi, in iscoltura e in pittura. Sono celebri questi due suoi sonetti:

Dal mondo scese ai ciechi abissi e poi

che l’uno e l’altro inferno vide, e a Dio

scorto dal gran pensier, vivo salìo,

e ne diè in terra vero lume a noi,

stella d’alto valor coi raggi suoi

gli occulti eterni a noi ciechi scoprìo,

e n’ebbe il premio alfin che ’1 mondo rio

dona sovente ai più pregiati eroi.

Di Dante mal fur l’opre conosciute

e ’1 bel desìo, da quel popolo ingrato

che solo ai giusti manca di salute.

Pur foss’io tal ch’a simil sorte nato

per l’aspro esilio suo con la virtute

darei del mondo il più felice stato!

Quanto dirne si dee non si può dire

chè troppo agli orbi il suo splendor s’accese:

biasmar si può più il popol che l’offese

ch’al minor pregio suo lingua salire.

Questi discese ai regni del fallire

per noi insegnare, e poscia a Dio n’ascese;

e l’alte porte il ciel non gli contese

cui la patria le sue negò d’aprire.

Ingrata patria e della sua fortuna

a suo danno nutrice! e n’è ben segno

ch’ai più perfetti abbonda di più guai.

E fra mille ragion vaglia quest’una:

ch’egual non ebbe il suo esilio indegno

com’uom maggior di lui qui non fu mai.

Con lo scalpello egli eseguì – traendone l’idea dalla Divina Commedia – la figura di Lia e di Rachele significanti la Vita attiva e la Vita contemplativa. Lia, alla salita del Paradiso terrestre, dice di Rachele;

Ell’è de’ suoi begli occhi a veder vaga,

com’io dell’adornarmi con le mani;

Lei lo vedere, e me l’ovrare appaga.

Ma, com’è naturale, i maggiori accenni danteschi si trovano negli affreschi della Cappella Sistina, la sola opera che nel suo complesso, per profondità e grandiosità, possa compararsi alla Divina Commedia. E qui designarono diversi di quegli accenni, con maggiore o minore ampiezza, il Vasari, il Condivi, Benedetto Varchi, e quanti in seguito scrissero dell’artista e della Sistina. “E chi dubita, chiedeva il Varchi, che nel dipingere il Giudizio nella cappella di Roma, non gli fosse l’opera di Dante, la quale egli ha tutta nella memoria, sempre dinanzi agli occhi?” E continua riferendosi anzitutto alla scena di Caronte “che batte col remo” le anime che s’adagiano, e la figura di Minosse che “giudica e manda secondo che avvinghia”. Riferimenti questi senza contestazione, ai quali lo Steinmann e parecchi altri ne hanno aggiunti di ingegnosi e di belli, non tutti ugualmente sicuri, ma molti sufficienti ad abbattere la singolare affermazione del Clazko che non iscorgeva nel grande affresco l’ispirazione dantesca!

Lo Steinmann ritrova intanto l’espressione morale del Paradiso di Michelangelo (la drammatica espressione di austerità e di vendetta) nelle parole che Beatrice rivolge a Dante dicendogli: “Se nel grido dei Beati

..... inteso avessi i prieghi suoi,

già ti sarebbe nota la vendetta

che tu vedrai, innanzi che tu muoi.”

E anche la composizione, secondo lo Steinmann, è dantesca. Non più attaccata alla tradizione pittorica delle schiere parallele e laterali dei Beati, disposti come scolari in istudio o religiosi in coro, ma svolta in anelli concentrici, richiama alla mente i versi:

In forma dunque di candida rosa

mi si mostrava la milizia santa.

Così ad impressione dantesca si deve se tra gli eletti più in vista è Lorenzo che per volere intero si tenne in su la grada, e se le due schiere più vicine a Cristo sono guidate da Adamo e da Pietro, in ricordo che gli stessi nell’empireo stanno ai lati della Vergine

Quei duo che seggon lassù più felici

per esser propinquissimi ad Augusta

son d’esta rosa quasi due radici.

Nè, pensa lo Steinmann, deve sfuggire l’aria sdegnosa di Pietro, il quale mostra al Giudice le chiavi, mal tenute da’ suoi successori, con l’ira onde li fulmina nel poema.

Seguendo il critico tedesco nei suoi riferimenti danteschi, s’incontrano poi Eva con dietro le donne ebree (Sara, Rebecca, Giuditta e Ruth) che il poeta ricorda, Anna e, con Rachele, Beatrice

nel trono che i suoi merti le sortirò.

Egli la scorge tra Adamo e Andrea in atto di alzare il dito impartendo un ordine a un vecchio d’aspetto severo. Questo episodio, egli dice, di gente in apparenza calma tra il tumulto ansioso delle altre schiere di popolo, ha un senso bello e profondo. Si tratta di Beatrice che commette a san Bernardo di portar Dante nelle sfere supreme, mentre Rachele ne rafforza col gesto il comando. I giganti figurati in un anello; Nicolò III con le gambe in aria, e i segni della sua dignità e del suo peccato (le chiavi e la borsa); Paolo e Francesca portati insieme dalla bufera; l’iracondo in lotta con tutto il corpo contro l’angelo castigatore; il ladro con le gambe chiuse nelle spire del serpente; Forese Donati e Nella uniti e salienti; il barattiere sul dorso del demone; il peccatore arraffatto col gancio; la lotta fra angelo e demone per la conquista di un’anima.... sono tutte reminiscenze dantesche che lo Steinmann scopre nel dipinto, non omettendo di trovarvi pure nell’angolo sinistro, in basso, le figure di Dante e di Virgilio.

Fino a qual punto lo Steinmann abbia ragione, è difficile dire. Ma, anche ammettendo ch’ei determini episodî e peccatori con soverchia facilità ed acutezza ad un tempo, dalle sue indagini, ancor più che dai pochi accenni del Condivi, del Vasari, del Varchi, ecc., risulta chiara la grande e profonda conoscenza che Michelangelo ebbe della Divina Commedia.

E questa era ben valutata dai contemporanei come si ha, oltrechè dalle cose dette, anche dal fatto che Donato Giannotti nel suo dialogo “De’ giorni che Dante consumò nel cercare l’Inferno e il Purgatorio” lo incluse come il principale e il più dotto degli interlocutori, e da un aneddoto che si cita per provare che Leonardo era “un profondo conoscitore e fervente ammiratore del poeta” mentre prova solo che tale era, non lui, ma Michelangelo. Infatti l’aneddoto è che “dinanzi al Palazzo Spini disputavano alcuni signori di spirito su dei versi di Dante e chiamarono Leonardo da Vinci, che passava in quel mentre, perchè spiegasse un passo difficile. Egli però s’indirizzò a Michelangelo che un caso fortuito conduceva a quella volta.” Quei signori di spirito potevano bene rivolgersi a Leonardo come a uomo d’ingegno, per intendere alcuni versi, senza che questi fosse un profondo conoscitore e fervente ammiratore di Dante! Per noi quindi l’aneddoto rispetto a Leonardo non prova assolutamente nulla. All’incontro, noi vediamo il suo spirito indagatore, sperimentale, acuto, lontano dai fantasmi medioevali della poesia dantesca più che quello di qualsiasi altro artista; e le sue opere (dipinti, disegni e scritti) concorrono a provarlo non contenendo il più semplice tratto che dimostri, non diciamo profonda conoscenza e fervida ammirazione del poema, ma nemmeno, semplice conoscenza e ammirazione, quali si possono ritenere esser state in Raffaello che ritrasse Dante nel Parnaso come poeta e nella Disputa come teologo; nel Bronzino che “sapeva a mente” la Commedia e vi si ispirava per la Discesa al Limbo; nel Pontormo che fu dantesco colorendo il Giudizio finale già in san Lorenzo di Firenze; in Cristoforo Gherardi che frescò nella facciata del Palazzo Ricasoli pure in Firenze Lia e Rachele, Plutone e Cerbero; in Pierino da Vinci che modellò la morte di Ugolino e de’ suoi figli; in Jacopo da Empoli che ne seguì l’idea per la sua concezione di San Remigio in Firenze, nel Vasari che trasse dal Poema non pochi motivi per le figurazioni allegoriche e simboliche fatte per le nozze di Francesco de Medici con Giovanna d’Austria; nel Farinato che rappresentò Dante dinanzi alle tre fiere nella fronte del Palazzo Camuzzini in Verona e in altri, come si vedrà in questo stesso volume.

Ma più ancora che ispirarsi in Dante per alcune parti della grande sua opera pittorica e scultoria, taluni credono, sopra un tardo racconto, che Michelangelo abbia fatta una vera e propria illustrazione del Poema. Giovanni Bottari nella sua edizione delle Vite del Vasari scrive: “E quanto egli ne fosse studioso si vedrebbe da un suo Dante col comento del Landino della prima stampa, che è in folio e in carta grossa e con un margine largo mezzo palmo e forse più. In questi margini il Buonarroti aveva disegnato in penna, tutto quello che si contiene nella poesia di Dante; perlochè v’era un numero innumerabile di nudi eccellentissimi e di attitudini meravigliose. Questo libro venne alle mani di Antonio Montauti. E comechè il Montauti era di professione scultore di molta abilità, faceva una grande stima di questo volume. Ma avendo trovato impiego d’architetto soprastante alla fabbrica di San Pietro, gli convenne piantare il suo domicilio qui in Roma, onde fece venire per mare un suo allievo con tutti i suoi marmi e bronzi e studj e altri suoi arnesi, abbandonando la città di Firenze. Nelle casse della sua roba fece riporre con molta gelosia questo libro, ma la barca su cui erano caricate, fece naufragio tra Livorno e Civitavecchia, e vi affogò il suo giovine, e tutte le sue robe, e con essa si fece perdita lagrimevole di questo preziosissimo volume che da sè solo bastava a decorare la libreria di qualsivoglia gran monarca.”

Il Volkmann crede al fatto del naufragio e crede al libro illustrato da Michelangelo. Considera che il Bottari poteva conoscere la verità “poichè l’ultimo possessore del prezioso codice, lo scultore Antonio Montauti morì in sul 1740, quando il Bottari aveva già 51 anni”, e conclude dicendo che “per quanto sia da deplorarsi questa perdita irreparabile, altrettanto prezioso è per noi di possedere almeno questa dettagliata notizia. Il maestro che ne’ suoi grandi dipinti seppe dominare con tanta libertà e superiorità il concetto dantesco lo vediamo qui afferrare la penna e seguire col disegno tutti i dettagli della Divina Commedia, la di cui quintessenza gli bastava pei suoi affreschi.”

Può darsi che la storia della perdita patita dal Montauti, per naufragio, di un Dante illustrato, sia vera. Noi però non sappiamo dissimulare l’impressione che ci reca il fatto che la stessa cosa è narrata anche per altri luoghi, per altre persone e per altri codici. Di un quadro del Poussin, esistente nella collezione del conte Moltke di Copenaghen, si narrava che fosse stato una volta raccolto sulle rive svedesi, dov’era naufragata la nave che da Londra lo portava in Russia, con un busto di Platone e un Dante “chargé de compositions originales de Michelange.”

Via! due naufragi di due Divine Commedie illustrate l’una e l’altra da disegni di Michelangelo, sono un po’ troppi. Per lo meno uno dei due racconti deve derivare dall’altro, se pure entrambi non nascono da fantasia. Perchè, pensiamo noi, pure ammettendo che si trattasse di disegni di uno scolaro anziché proprio del Buonarroti, resta del pari singolare che nessuno li abbia mai visti, ammirati, mentovati e descritti, quando esistevano, e che all’incontro il loro ricordo appaia solo quando nessuno poteva più vederli!

Comunque sia, anche accettando, in ossequio al Bottari, per vero il racconto del naufragio fra Livorno e Civitavecchia, per noi resta escluso che il Dante perduto fosse ornato di disegni proprio di mano di Michelangelo. Nè il Condivi, contrariamente all’affermazione del Biagi, nè il Vasari, nè il Varchi ne fanno parola, mentre ognun d’essi, ricordando l’influsso del Poema sull’arte michelangiolesca, non avrebbe potuto appoggiarsi a miglior argomento. Passano due secoli, e non si trova chi nemmeno vi accenni. Vano è del pari ricercare la più lieve allusione a quel lavoro nelle moltissime lettere del maestro, e lo stesso Bottari parla di disegni di Michelangelo senza averli veduti e sulla fede di persona morta vent’anni innanzi!

Tutt’al più, dunque, si può pensare ad un esemplare della Divina Commedia del genere di quello posseduto in Roma dal commendator Carlo Lozzi e ornato di disegni marginali, già del pari ritenuti di Michelangelo. Si tratta di una copia del Dante “con l’espositione di Cristoforo Landino et Alessandro Vellutello” edito in Venezia da Marchio Sessa nel 1564, e questa sola data basterebbe, pur senza guardare i disegni, a escludere il nome di Michelangelo, il quale morì il 18 febbraio di quell’anno, dopo un malanno non breve e quando aveva da qualche tempo quasi perduto l’uso “della mano” com’egli stesso faceva sapere al nipote Leonardo dettando il 28 dicembre dell’anno avanti una lettera per lui. Se quello, tra i vecchi proprietari del volume (uno d’essi fu Melchior Magius governatore di Loreto nel 1719), che bruciacchiò la data nell’ultima pagina del libro, ebbe in mira di distruggerla per isbarazzare il terreno da una prova troppo sicura contro quell’attribuzione, egli fece come la lepre che nasconde la testa per non esser veduta dai cacciatori, e i cacciatori sono nel nostro caso i dantofili, cui nulla sfugge che riguardi la vasta bibliografia dantesca!

Ma, a parte il nome di Michelangelo, il volume oggi in possesso del Lozzi è per molti rispetti interessantissimo, quello compreso di notevoli postille interpretative.

I piccoli disegni marginali appaiono di più mani: di due almeno – una abile assai ed una mediocre. Alcuni d’essi che illustrano l’Inferno, occupano tutto il margine inferiore e rappresentano i dannati che corrono dietro all’insegna (III), i lussuriosi (V), i golosi (VI), gli avari e i prodighi (VII), gli iracondi (VIII), e gli eretici uscenti dai sepolcri (X). Abbondanti sono le vignettine di poche figure sparse nei margini laterali e per la maggior parte (in ciò sta la singolarità del lavoro) illustranti similitudini e comparazioni. In esse si vedono i fioretti dardeggiati dal sole che si rizzano sullo stelo, le foglie che cadono, le colombe che volano al dolce nido, il cane che abbaia al poverello, la donna che col figliuoletto sfugge all’incendio della casa, l’etico dai labbri riversi, le pecorelle che escon dal chiuso, e via via sino ai Fiamminghi che fabbricano le dighe, all’arzanà dei Viniziani, ai tornei d’Arezzo, agli ospedali di Valdichiana, alla Carisenda che pende, o all’uom della villa, che quando l’uva imbruna, chiude il foro della siepe

con una forcatella di sue spine.

All’incontro gli accenni alle figure storiche sono pochissimi, e pochissimi sono i diavoli che l’artista migliore suole figurare con le gambe di satiro.

E chi può esser stato quell’artista e l’altro che interpose men buoni disegni? Nessun nome è nel libro e nessun nome è venuto in mente a noi, pur esaminandolo attentamente. Certo l’autore delle figurine schizzate con più sicurezza, più leggerezza, più freschezza e per esatta rapidità, se non per bellezza, paragonabili ad altre di Leonardo disseminate nei disegni di meccanica e di idraulica, era uno scultore. A parte la preferenza che egli dà al nudo, sino a far talora ignuda la stessa figura di Dante (carta 35 v.); a parte che, condotto a illustrar le cariatidi (Purg., X) imita una delle figure dei sepolcri medicei, non può non persuadere il fatto che talora mette alle sue figure una specie di base e quello più significativo che, a carta 12, senza nessun richiamo del testo ha bravamente disegnato la figura di uno scultore che lavora di mazzuolo e di scalpello intorno ad una grande testa.

Ma anche escluso che abbia indugiato a costellar di figure il margine d’una Divina Commedia, Michelangelo resta pur sempre per noi il massimo interprete della potenza plastica di Dante, e ci piace di vedere come questa opinione non solo fosse nel sentimento degli scrittori e degli artisti del secolo XVI, ma sia nel sentimento degli scrittori e degli artisti moderni. Nel cinquecento, al pari dei letterati, gli artisti videro nell’arte del Buonarroti, l’esempio adeguato ad illustrare Dante. Oltre alle diverse opere staccate, ricordate e da ricordare, lo provano le due grandi illustrazioni compiute dallo Stradano e da Federico Zuccari.

Così nel secolo XIX, mentre il Dorè e lo Scaramuzza si sono attenuti – specialmente il primo – all’affollamento e all’intensità muscolare delle figure michelangiolesche, i letterati hanno di concordia proclamato lo stile di Michelangelo grandioso e terribile come quello di Dante.

Il Volkmann ha scritto: “Michelangelo è con Dante ed il suo poema così intimamente unito, che a mala pena si può parlare dell’artista senza ricordare il Poeta.” Ed altrove: “Del tutto in ispirito dantesco è il Giudizio Universale;’’ oppure: “Vediamo dare da Michelangelo la forma più perfetta ad alcune figure dantesche.” Il Bassermann, a sua volta, trova che talora “il pittore ha mirabilmente partecipato al sentimento del poeta” e conclude: “Michelangelo possiede come Dante il segreto di inspirare una calda vita nelle sue figure; egli dà la bella materialità e ad un tempo l’idea potente, il concreto e presente essere singolo insieme col carattere che permane vero in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Le sue figure sono polisense, appunto come quelle di Dante, e perciò ci mettono con tanta perfezione davanti agli occhi ciò che questi ha espresso con le parole.” E mentre lo Steinmann riconosce l’affinità delle anime di Dante e di Michelangelo, il Kraus scrive che se fosse vero il naufragio del libro illustrato “noi dovremmo rammaricarci d’aver perduta la più grandiosa e profonda realizzazione del pensiero del poeta.” Nè la critica italiana ha diversamente pensato dal Selvatico sino al Biagi e a Michele Barbi, il quale ha detto del Giudizio che “la grandezza, terribilità e varietà dell’opera sono qualità che si riscontrano pure nell’Inferno dantesco.”

E con Michelangelo non si raggiunge soltanto la maturità poderosa delle forme convenienti al gran soggetto dantesco, ma si determinano pure certe composizioni e certi aspetti che gli illustratori della Commedia non hanno più saputo mutare, tanto parvero definitivi.

Prima di lui Caronte che tragetta le anime è uno sparuto e grottesco demonio che spinge innanzi una piccola barca. Con Michelangelo, demone, nave e anime battute assurgono ad un così terrificante spettacolo da non consentir più che minori varianti allo Stradano e allo Zuccari, al Dorè e allo Scaramuzza. E anche l’aspetto dei diavoli, già molto avanzato col Signorelli, si concreta col Buonarroti, il quale fissa pure per l’avvenire il tipo di Minosse.

Sino Pietro Pancotto nel suo affresco del portico di San Colombano in Bologna, pur ricorrendo a Dante o ai vecchi pittori per una tardiva rappresentazione delle bolgie, accoglie da Michelangelo motivi e figure.

Per tutto il trecento e gran parte del quattrocento, i demoni, i mostri, le figure simboliche e quella pure di Virgilio erano state concepite dagli illustratori di Dante medioevalmente o romanicamente. Al sopravvenire del Rinascimento, invece, lo studio del mondo classico offre agli artisti i modelli dell’antichità e i mostri divengono appunto quali l’antichità li aveva immaginati. Cerbero cessa d’aver forma di diavolo e ridiventa il cane tricipite; Caronte e Flegias prendono aspetto umano, come i diavoli, cui nullameno non viene a mancare l’elemento grottesco. Anche Virgilio non appar più con la veste di mago, bensì in costume classico, composto e solenne come una statua antica.

Il Volkmann dice che solo per la Infamia di Creti si continuò a fare un toro col busto e la testa d’uomo, mentre l’antichità ne aveva fatto un uomo con la testa di toro; e aggiunge che unicamente “il Dorè riprese l’immagine antica e disegnò un uomo con la testa di toro.” Ma tra i disegni di Baccio Bandinelli, nella Galleria degli Uffizi, uno se ne trova che rappresenta appunto il Minotauro nell’aspetto classico: non solo quindi più vecchio di tre secoli di quello del Dorè, ma dovuto proprio a un seguace di Michelangelo.

Da questo prodigioso artista, dunque, e dal suo tempo, muove la moderna interpretazione grafica della Divina Commedia.

Nel declinare dello stesso secolo di Michelangelo, due ragguardevoli pittori si applicarono ad illustrare il Poema: lo Zuccari e Hans van der Straat detto italianamente Giovanni Stradano o latinamente Johannes Stradanus o Stratentis.

Questi, nato a Bruges nel 1523, visse lungamente a Firenze, dove morì nel 1605 dopo aver molto lavorato sotto l’influenza dell’arte fiorentina e, in ispecie, di quella di Michelangelo. Il Vasari, di lui ancor giovine, scrisse: “Ha buon disegno, bonissimi capricci, molta invenzione e buon modo di colorire.”

Le sue tavole illustrative di Dante, conservate a Firenze nella Biblioteca Laurenziana, sono trenta (ventotto a bistro e biacca, e due – che riteniamo pur sue – a semplice matita); recano le date 1587 e 1588, e sono seguite da altre dodici di mano diversa e piuttosto dozzinali. Registrate dal Bandini nel Catalogo della Laurenziana, dal De Batines e da altri, furono pubblicate da Guido Biagi in una magnifica edizione dell’Alinari. Ora noi, pur non seguendo il Bandini che le dice eseguite con “mirabile arte,” non ci sentiamo, dal lato artistico, di giudicarle così severamente come il Selvatico, lo stesso Biagi e il Bassermann, troppo impressionati forse dalla volgarità dei volti; ma vi riconosciamo una certa singolarità di composizione e una certa grandiosità di ambiente, animato da fantastici effetti di luce veramente notevoli. L’entrata dei due poeti nell’Inferno è magnificamente immaginata. Essi, veduti dall’interno della porta nell’atto che vi penetrano, tagliano di scuro contro la selva illuminata; a terra si scorge infranto e consumato dai secoli il battente della porta già spezzato da Gesù Cristo nella sua discesa al Limbo. Tale illustrazione, concepita con novità, non fu mai più espressa in modo altrettanto efficace. E se mosse e brulicanti sono la folla giacente dei golosi, battuti dalla grandine, dall’acqua tinta, dalla neve, e quella degli iracondi impantanati nello Stige; impressionante è la scena di Ugolino che brancola sui figli morti nel doloroso carcere, chiuso da una porta chiovata e ferrata, con le catene pendule dai muri sui sedili marmorei, rischiarato appena da un poco di raggio. Questa tragedia che lo Stradano disegnò pure per una stampa eseguita da Teodoro Galle non somiglia a quella d’ugual soggetto modellata da Pierino da Vinci, ma sembra senz’altro preludere (insieme alla rappresentazione del pranzo d’Alberigo Manfredi) al modo seguìto nel sec. XIX dall’arte romantica che si tenne spesso agli accenni del Poeta per trarne figurazioni storiche piuttosto che fantastiche. E ad accrescer varietà, se non piacevolezza all’opera singolare, s’aggiunge, vicino al classicismo di certe figure in corazza e ad altre in veste turca, la tendenza al grottesco propria dell’arte fiamminga, per la quale disegnando i diavoli, ei s’attiene piuttosto al Bosch (1450-1516) e al Bruegel (1525-1569) che al Signorelli e a Michelangelo. La cosa infatti è troppo evidente, perchè non sia subito avvertita da quanti guardano i diavoli irrompenti all’ingresso di Dite o in Malebolge o tra gli ipocriti, e, su tutto, il diavolo in aspetto di rospo che mozza col taglio della spada i seminator di scandali e di scismi.

Ma prima di lasciar lo Stradano vogliamo indicar qui e riprodurre nel canto XXXIV dell’Inferno un suo disegno dantesco inedito, il quale in origine appartenne forse alla serie di quelli pubblicati dal Biagi e che ora ne sta disgiunto nella Galleria degli Uffizi, a Firenze col num. 273. Rappresenta Lucifero tricipite, intorno al quale formicolano i peccatori. Dai piedi alle ginocchia è sprofondato nel macigno, dalle ginocchia alle mammelle nella ghiaccia, mentre con le braccia afferra e porta alle tre bocche i dannati e agita l’ali di pipistrello più grandi che vele. È, come i disegni della Laurenziana, su carta gialletta, condotto a penna e a bistro, lumeggiato di biacca; ed è della stessa misura. Nè si può escludere che servisse di modello a Lodovico Cardi detto il Cigoli pel suo vigoroso disegno di Lucifero conservato pure nella Galleria degli Uffizi col num. 8951 e che servì per la stampa di Cornelio Galle. Così nella “disposizione dell’ambiente” come nell’atteggiamento delle figure, le affinità sono evidenti; e noi crediamo che sia difficile invertire l’influenza mettendo come anteriore il disegno del Cigoli; anzitutto perchè lo Stradano erasi dato espressamente ad illustrare la Divina Commedia e il Cigoli no; poi, perchè il primo era più vecchio del secondo di ben trentasei anni.

Or eccoci a Federico Zuccari, la cui illustrazione dantesca, che riproduciamo intera in questo volume, è l’opera grafica di maggior mole che il secolo XVI abbia prodotto intorno alla Divina Commedia. La vita di lui, lunga, non priva di vicende, incredibilmente attiva ed errabonda, non è da narrar qui. Se abbondano le pitture, non difettano certo le notizie, e basterebbe forse ampliare di qualche poco lo scritto di Vincenzo Lanciarini per averne una sufficiente monografia. Limitiamoci quindi a un breve cenno.

Federico, nato nel 1540 a Sant’Angelo in Vado, non lungi da Urbino, fu a dieci anni dai genitori portato a Roma presso il fratello Taddeo, già in fama di buon pittore. Da lui apprese l’arte, con lui lavorò in diverse pitture, alcune delle quali, lui morto, condusse a fine; da solo ne fece infinite, come registrano il Vasari, Giovanni Baglione, Luigi Pungileoni, Amadio Ronchini, il Lanciarini, Giuseppe Castellani e gli storici, in genere, della pittura.

Nel 1565 si mise a viaggiare; fu a Venezia, nel Friuli, in Lombardia e a Firenze, dove lavorò negli apparati fatti per le nozze di Francesco de’ Medici con Giovanna d’Austria. Di ritorno in Roma fu occupato a dipingere anche nella villa d’Este a Tivoli, e, insieme a Taddeo, nel grande palazzo farnesiano di Caprarola. Così, con altre fatiche, giunse al novembre del 1575 nel qual mese, chiamato a Firenze, fu messo a frescare la cupola del Duomo, la cui decorazione, cominciata dal Vasari, era rimasta interrotta per la costui morte, avvenuta nel giugno innanzi. Conservò Federico, come si legge generalmente, la parte eseguita dal Vasari? o la distrusse e si rifece da capo? Che la distruggesse e si rifacesse da capo provano l’unità artistica della vasta pittura, i disegni dello Zuccari, raccolti nella Galleria degli Uffizi e nell’Albertina di Vienna, i quali ne presentano tutte le parti, e, infine, il documento edito dal Guasti, nel quale si parla di 834 braccia di pitture del Vasari “disfatte e ridipinte dallo Zuccari per ducati 686, lire, 6, 15, 4.”

Pel concetto generale però il pittore marchigiano si tenne al Vasari, o meglio a monsignor Vincenzo Borghini, che l’aveva fornito in antecedenza al Vasari. Mentre lavorava nel vastissimo affresco, compiuto a mezzo ottobre 1579, lo Zuccari, stanco d’aver contestazioni per essere alloggiato nell’arcidiaconato, si costruì in Firenze una casa che conserva tuttora la sua architettura originale. Ma questo non valse a trattenerlo là, chè, dopo qualche altro lavoro, se ne tornò a Roma, dove nel 1580 fu occupato nella decorazione della Cappella Paolina.

Sopravvenne un anno doloroso per lui, perchè, mandato un suo quadro alla chiesa del Baraccano in Bologna, a vendicarsi delle critiche avute dai pittori di quella città, ne eseguì tosto un altro, allegorico, pieno di allusioni impertinenti pe’ suoi avversari e pei cortigiani del papa, e l’espose sulla porta di San Luca all’Esquilino. Ne seguì un processo e la condanna di lui, che dovette lasciar Roma e lo stato Pontificio.

Riparò prima a Firenze, poi a Venezia, dove lavorò nella Sala del Maggior Consiglio (alla storia di Federico Barbarossa inginocchiato davanti ad Alessandro III), in San Francesco delle Vigne ed altrove. Ma poi, raccomandato a Gregorio XIII da chi gli aveva commesso alcuni dipinti, questi lo richiamò senz’altro dall’esilio lasciandolo dapprima lavorare nello Stato Pontificio e in seguito nella stessa Roma. Dal 1583 al 1585 Federico vive nelle Marche native, tra Loreto (dove affresca una cappella pel conte di Montebello) e altri luoghi, pei quali compie diversi quadri.

Così giunge il 1586, in cui si reca per invito di Filippo II a dipingere nell’Escuriale; ed è là che lavora con particolare fervore all’illustrazione della Commedia.

Il Baglioni scrive anche che Federico “andò in Fiandra e vi fece alcuni cartoni per effigiare panni d’arazzi. Indi giunse in Olanda, e dappoi in Inghilterra; e da quella Regina fu onoratamente ben visto e premiato di bel regalo con occasione del ritratto che le fece di naturale”. Non vediamo riferita, di questo lungo viaggio, una prova assolutamente sicura. Tale certo non è l’esistere in Londra quadri e ritratti dipinti da lui. In attesa, comunque, di un documento indiscutibile, diremo che lo Zuccari nel 1590 riceve in dono da Filippo II una medaglia coniata per lui e nello stesso anno ritorna a Roma, dove presso la Trinità dei Monti si costruisce una casa. Nel 1591 ottiene la cittadinanza romana, e due anni dopo inaugura l’Accademia di San Luca, già patrocinata da Girolamo Muziano, ma da lui definitivamente stabilita, sistemata e beneficata.

Rimane, in seguito, alcuni anni in Roma occupato in molti lavori; poi nel 1603 riprende la via per Venezia passando per Sant’Angelo in Vado dove fa testamento e dipinge un quadro.

A Venezia finisce i lavori lasciati incompiuti circa dieci anni prima. Ritornato di là a Roma e ripartitone presto, indugiò forse a viaggiare e a lavorare nell’Alta Italia e per le Marche; ma a questo punto troviamo nelle notizie qualche lacuna, che altri potrà forse colmare.

A noi basti oramai dire che nel 1607 era a Torino, nel 1608 a Parma e che nel 1609, da Loreto volendo recarsi a Sant’Angelo in Vado, cadde infermo in Ancona, dove morì il 20 luglio.

Il suo aspetto fisico ci è noto per parecchi autoritratti che si conservano nella pinacoteca di Lucca, nella Galleria degli Uffìzi a Firenze, nell’Accademia di San Luca e nella sua casa in Roma. Il suo aspetto morale risulta dai suoi scritti e dalle sue biografie. Più che un bizzarro e disordinato spirito d’artista, egli fu un cortigiano nel senso esatto della parola. Distinto nei modi, elegante nella persona, pronto nello spirito e nell’inchino, ora festevole, ora remissivo, non era alieno dalle maldicenze e dalle piccole vendette. È, come si vede, ancora il meglio che la cortigianeria possa dare! Nei suoi scritti descrive costumi femminili, feste, commedie, slitte, mascherate, partite di caccia e di pesca, luminarie e tornei, balli, rappresentazioni eroiche.... tutte cose, dunque, per l’appunto grate ai signori ed ai cortigiani.

Il pensiero e la voglia d’illustrar Dante non vennero certo allo Zuccari nel 1587 in Ispagna. Egli già da tempo doveva aver preparato qualcosa, e probabilmente sin da quando era stato chiamato a trattar d’angeli e di demoni, di santi e di dannati, di figure storiche e di simboliche, nella vasta cupola di Santa Maria del Fiore.

Più tardi, infatti, ricordando quell’opera, per la figura di Lucifero si riferiva al concetto dantesco: “La cupola.... che pur io dipinsi già molti anni sono.... tiene il primo luoco di grandezza e di numero di figure in un soggetto solo.... Lucifero, dal mezzo in su è di statura di quattro canne e sta sepolto nella giaccia ed è nel centro dell’Inferno, siccome Dante lo descrive, che è un mostro straordinariamente grande et spaventoso”. Confrontando inoltre i disegni fatti da Federico per la cupola con quelli danteschi, appar chiaro che i primi gli servirono, in alcuni tipi e gruppi, pei secondi, i quali sono ottantasette, distinti così: ventotto per l’Inferno; quarantotto pel Purgatorio; ed undici pel Paradiso. Riuniti in un volume e foderati di carta grigia, non consentono più oggi di essere esaminati a tergo. Si sa nullameno che dietro al LXXV si leggeva “dicembre 1587 nell’Escuriale di Spagna” e dietro al LXXVII “addì 16 marzo 1588, nell’Escuriale di Spagna” Essi misurano, con poca varietà 57 cent. o 59 per larghezza, e 42 o 44 per altezza, tranne i due col trionfo di Beatrice e con l’Empireo, che misurano rispettivamente m. 1,50 per 0,48 e 0,96 per 0,77. Sul frontispizio del volume fu poi scritto: “Dante historiato da Federico Zuccaro. L’anno MDLXX-MDXCIII (?). – Codice donato alla Galleria da Anna Luisa di Toscana moglie di Giovan Guglielmo Elettore Palatino.” In molti fogli, intercalati ai disegni, sono riprodotti lunghi brani o canti interi di Dante, con annotazioni esplicative e morali; altri minori brani e tabelle, con l’indicazione della pena e del premio, si veggono sui disegni stessi.

L’opera, in complesso, risulta la maggiore e più interessante illustrazione dantesca che l’Italia abbia mai prodotto e, pubblicandola ora per la prima volta, grazie all’illuminata volontà di Emilio Treves e al valido aiuto di Eduardo Ximenes, sappiamo di far cosa desiderata lungamente dagli artisti e dai dantofili. Mentre infatti il Kraus diceva che “la pubblicazione d’essa avrebbe meritata la gratitudine di molti” e il Bassermann che sarebbe valsa una risurrezione, il Volkmann ascriveva “a sua grande soddisfazione riprodurre almeno una tavola.”

Non istaremo certo a descrivere le singole illustrazioni dello Zuccari, quando appunto le mettiamo sotto gli occhi dei lettori. Ci piace nullameno considerar qui quelli che a noi paiono i pregi e i difetti della grande opera che il Volkmann intanto non si perita di dichiarare “di una esecuzione tecnica veramente brillante ed abilissima.”

Anzitutto troviamo ragguardevole la grandiosità dell’ambiente. Le selve dense a tronchi obliqui e poderosi sul fare tizianesco; le rupi aride, cupe, scoscese; le riviere larghe e nebbiose; le bolgie ottenebrate da fumi o rischiarate da fiamme, sono spesso magnifico fondo alle scene della prima cantica.

Grottesche invece appaiono le architetture, così della porta dell’Inferno come del Castello del Limbo e della Città di Dite, architetture rigonfie di bozze o bugne, pesantemente ornate di “effigiati scheletri” e di mascheroni; null’altro però che esagerazioni del sentimento architettonico del pittore che si costruiva in Firenze e in Roma due case poco dissimili dagli edificî infernali!

In tali luoghi si svolgono gli episodî maggiori dei demoni vigorosi, arguti, vivaci; dei dannati dalle figure sempre ben disegnate, costrutte bene, senza eccessi anatomici, e mosse con mirabile abbondanza e sicurezza d’atteggiamenti. Non altrettanto costante, quanto la bellezza delle figure, è quella delle composizioni, chè ad alcune piene di vita e di forza ne succedono altre languide e povere.

Caronte che tragitta e batte col remo i dannati; Minosse che li giudica; i golosi flagellati dalle intemperie nel cerchio vigilato da Cerbero; l’inseguimento diabolico tra i barattieri; le trasformazioni dei ladri, sono scene superbamente immaginate ed eseguite, in contrasto evidente con quelle invero troppo modeste e trite che illustrano i canti degli iracondi, degli eretici e dei violenti contro il prossimo.

Troviamo invece notevole per calma la serena accolta degli spiriti magni nel Limbo, ispirata al Parnaso di Raffaello, e bella nonostante i costumi antichi sgraditi al Kraus; per terrore, la scena dei violenti contro sè stessi, gementi nei tronchi su cui fanno il nido le brutte arpie; per fierezza, la scena dei giganti di tanto superiori a quelli celebrati di Giulio Romano a Mantova. Nè deve sfuggire a chi guarda, l’unità che lo Zuccari ha voluto dare alla sua illustrazione collegando le tavole in modo che spesso mostrano a sinistra il luogo che i Poeti hanno lasciato, e a destra quello a cui i Poeti sono incamminati.

Poi, all’entrare del Purgatorio, lo Zuccari offre saggio di non comune intuito artistico, prevalendosi, per maggiore effetto, di una diversa tecnica. Non più disegni grevi a matite rosse e nere, ma disegni a penna rilevati di bistro, più leggieri e soavi. Per tal modo la diversità del tono contribuisce a rendere più sensibile la diversità delle atmosfere, per così dire, morali. E gli episodi si svolgono con maggiore semplicità; se nonché, talora, questa semplicità si risolve in qualche cosa di manierato, di slegato e di lento, che non soddisfa noi e forse non soddisfece nemmeno il pittore; tanto è vero che alcune parti si rivelano a dirittura trascurate. Uniformi sino alla stanchezza sono ad esempio le tavole che mostrano la coppia dei Poeti, ripetuta dinanzi ai bassorilievi ideati con troppa intenzione d’accostarsi all’arte antica; e non è davvero molto felice il modo di risolvere graficamente, in tanti dischi figurati, gli esempi di carità vocalmente celebrati nel poema dagli angeli lievissimi che dileguano per 1’aria!

Ma di contro a queste tavole, altre se ne hanno nel Purgatorio, di rara bellezza. L’arrivo della nave che approda all’isoletta guidata dall’angelo, con l’anime tranquille e fiduciose, è scena di tanta dolcezza, quanto di raccoglimento religioso è quella dell’arrivo di Dante alla porta del Purgatorio, sulla soglia del quale sta l’Angelo cui il Poeta si prosterna. Così alle anime degli invidiosi con gli occhi legati, Federico ha saputo veramente dare la dolorosa espressione dei ciechi, come ha saputo, nelle magre e allampanate figure dei golosi, mostrar tutta la sua conoscenza dell’anatomia e la sua esperienza di disegnatore.

Arrivato al Paradiso terrestre e al trionfo della Chiesa, egli muta ancora di tecnica. Non più i disegni neri e rossastri dell’Inferno, non più quelli a bistro del Purgatorio; ma disegni più vivaci, più ardenti, a sola matita rossa. Il trionfo della Chiesa ha forse troppo della processione e della “maniera,” ma tecnicamente è disegno di molto pregio. Precedono gli angeli coi candelabri, seguono patriarchi e profeti, indi il carro tirato dal grifo con le Virtù o “ancelle” che danzano intorno a Beatrice seduta fra altri angeli. Dagli angoli superiori del carro sporgono i simboli degli Evangelisti; presso agli inferiori procedono i Dottori della Chiesa, e, dietro, si avanza la schiera dei Santi, alla cui testa stanno Pietro e Paolo. Le due tavole seguenti sono incantevoli per leggiadrìa e per sapienza artistica.

Ed eccoci al Paradiso, che a noi pare senz’altro il più bello che illustratore di Dante abbia mai disegnato. Quello del Botticelli, nella sua grande semplicità piena di grazia, segue per ben poco il concetto del poeta e tutto riduce a una serie di dialoghi fra Dante e Beatrice o di glorie quali vediamo nei quadri e negli affreschi del suo tempo; Gustavo Doré s’abbandona troppo alla teatralità delle masse coreografiche e dei fasci di luce distribuiti per il maggior effetto. Federico Zuccari affronta il concetto dantesco e lo svolge con interesse, senza abbandonarsi ad effetti eccessivi. Forse taluno si sentirà un po’ turbato dai piccoli tondi, tangenti ai maggiori con le figurazioni o i simboli dei pianeti; ma, prescindendo da questo, non si potrà non ammirare l’armonia dei gruppi, la leggiadrìa delle figure, e, su tutto, l’atmosfera divina onde queste figure sono avvolte e nella quale si muovono, quasi trasparenti meduse in fondo marino penetrato dai raggi del sole. Gli incontri del Poeta con Piccarda, con Giustiniano, con Carlo Martello, con san Tommaso d’Aquino, con Cacciaguida, con san Pietro, con san Jacopo, sono altrettante figurazioni mirabili per dignità e per solennità; gradualmente più diafane e leggiere; tali, insomma, da rendere il concetto della luce e della felicità paradisiache, assai più che l’ultima grandissima tavola dell’Empireo, troppo decorativa e architettonica per la divisione a costoloni, che le dà l’aspetto di cupola.

Tali i pregi e i difetti principali dell’opera dello Zuccari, che troviamo riconosciuti, pur con varia inclinazione alla lode o alla critica, nel Volkmann, nel Kraus, e, per tacer d’altri, nel Bassermann, il cui giudizio corrisponde meglio al nostro: “Certo lo Zuccari non smentisce neppur qui la fama di virtuoso e dì bravaccio che dovunque lo segue. Ma possiede un fare grandioso, che in certa guisa lo mette in grado di sentir col poeta. Spesso egli desta meraviglia con la sua concezione originale, sebbene barocca, ed è ricco di fantastici ed ingegnosi concetti. Oltre a ciò egli ricorre all’architettura e al paesaggio per aumentare l’effetto, e talvolta con esito veramente felice.” – Lodovico Volkmann poi, a ragione, combatte l’opinione del Lippmann, che lo Zuccari abbia veduto e studiato i disegni di Sandro Botticelli e se ne sia valso pe’ suoi. “Il concetto dello Zuccari – egli conclude – corrisponde in tutto e per tutto a quello dei suoi tempi e delle sue tendenze individuali. I dannati non sono martoriati da diavoli medioevali come nel Botticelli, ma da demoni di concetto moderno, come li hanno dipinti il Signorelli e Michelangelo.”

Qui finisce la ragione del nostro studio; ma crediamo che valga la pena di aggiungere alcune parole sulle poche illustrazioni dantesche che si ebbero in seguito sino ad oltre la metà del secolo XVIII, eseguite, cioè, secondo un’arte non totalmente slegata da quella di Michelangelo, dello Stradano e dello Zuccari, e, all’incontro, assolutamente diversa da quella che prese nuovo indirizzo coi pseudo-classici.

È inutile ripeter qui ciò che è saputo da tutti: esser l’amore per Dante diminuito in modo incredibile nel seicento. Per quel secolo infatti la bibliografia dantesca non indica un sola edizione illustrata della Commedia e si limita a citare la stampa in rame del Callot riproducente un disegno dell’Inferno, di Bernardino Poccetti, a proposito del quale ci sembra che non si possa dire che appartenga al secolo XVII piuttosto che al precedente. Il Poccetti, nato nel 1542, svolge la sua vita d’artista quasi intera nel cinquecento e muore nel 1612, ossia nell’anno in cui pubblica per la stampa del Callot la sua composizione solo in qualche parte dantesca.

Il disegno del Poccetti è dunque da riferirsi all’arte del cinquecento e sono da riferirsi all’arte del cinquecento le ultime miniature del codice urbinate che Francesco Maria II duca d’Urbino fece presumibilmente eseguire da Cesare Pollini nato nel 1560 e cresciuto alla scuola del Barocci.

Il Volkmann e il Kraus, dell’indifferenza e della negligenza del secolo XVII verso Dante sembrano incolpare per molto gli artisti, ma noi sappiamo che questi si limitano quasi sempre a rispecchiare il movimento letterario contemporaneo. Il detto del Cornelius: “Osservate l’arte italiana; la sua decadenza comincia a punto là ove i pittori cessano di sentir Dante,” non risponde a verità. La decadenza è già avanzata quando lo Stradano e lo Zuccari compiono le maggiori illustrazioni dantesche, e per noi il seicento è pittoricamente più forte (salvo che in Venezia), che non la seconda metà del cinquecento.

Così, oltre a tutto il seicento, passa ancora la prima metà del secolo XVIII, senza che quasi più si cerchino argomenti nella Divina Commedia per opere artistiche. Infatti, nullostante le più accurate ricerche, in tutta la pittura del seicento non siamo riusciti a trovare più di due quadri di soggetto dantesco.

L’uno, di Guido Reni (1575-1642), custodito nella Galleria di Dresda, rappresenta Semiramide che come sposa porge la destra a Nino e, levata la corona reale dal capo di lui, la pone sul proprio. Sembra quindi veramente ispirato dai versi di Dante

Ell’è Semiramis di cui si legge

che succedette a Nino e fu sua sposa.

L’altro, dipinto verso la fine del secolo XVII, se non al principio del seguente, è conservato nelle stanze della Raccolta iconografica-topografica della Galleria degli Uffizi a Firenze. A’ suoi tempi dovette parere una rarità e come tale piacere o interessare. Ci sembra provarlo la ripetizione che d’esso si trova nello stesso istituto.

Sopra una tela non grande, l’anonimo pittore ha saputo svolgere una scena grandiosa, cosa che facilmente riusciva a quei forti e ingegnosi artisti che furono i barocchi. Possenti rupi piene di seni e di grotte, una delle quali “serve di principale” e rappresenta l’entrata dell’Inferno, occupano la parte anteriore dove stanno Virgilio e Dante. Pel vasto fiume che si frange agli scogli e penetra nelle grotte, passa la nave di Caronte carica di anime in atti disperati come quelle che popolano la cima delle rupi. Nel fondo, dalle torri e dagli archi della città di Dite, salgono immense fiamme ed immensi fumi rossi che diffondono tutt’intorno il terribile bagliore. L’insieme è teatrale, ma perciò appunto di molto effetto e superiore per fantasia all’opera degli otto illustratori della Commedia edita in Venezia dallo Zatta (l757-l758), sui quali però si è eccessivamente gravata la mano.

Questo dello Zatta è un curiosissimo Dante sul gusto di Sebastiano Ricci, del Piazzetta e del Tiepolo, dove l’illustrazione, se non in tutto, per molto ha preso l’aspetto elegante dei plafonds settecenteschi, con figure che siamo soliti vedere nelle volte delle chiese e delle sale veneziane, e sino nelle portantine del tempo.

Quantunque gli artisti siano parecchi, l’unità illustrativa è assai meno compromessa che nel ricco Dante dell’Alinari (Firenze, 1902-1903), non tanto per essersi gli artisti prefisso un accordo ragionevole, ma su tutto perchè derivavano da una medesima scuola, il che a quei tempi significava disciplina e armonia. Quattro di essi non hanno fatto che poche tavole (Gaetano Zampini 6, S. Magnini 3, Giovanni Scaggiari e Giacomo Guarana 2 per ciascuno) e quattro un buon numero (Michelangelo Schiavonio 26, Francesco Salvatore Fontebasso 17, Filippo Marcaggi 14 e Gaspare Tiziani o Diziani 19).

Le grandi lodi che i biografi fanno del Zampini, qui non ricevono troppa conferma: il paesaggio è d’una convenzione opprimente, e le figure senza molta grazia. L’episodio è ristretto in poche figure e in pochi gesti di pratica. Per vivacità d’espressione e vastità d’ambiente si presenta meglio lo Schiavonio. Le alte rupi coi diavoli fuggenti (Inf. XXIII) e su tutto la scena dei ladri (Inf. XXIV) sembrano preludere alle illustrazioni del secolo XIX. Nel Purgatorio il soggetto lo trascina spesso al quadro sacro o d’altare; ma l’insieme, sempre di parecchie figure, non è senza eleganza e talora anche non senza una semplice grandiosità, come nel canto di Manfredi. La sua figura di Dante, intanto, è sempre nobile e dignitosa.

Il Fontebasso lavora di più “a macchia di chiaroscuro,” sul fare del Piazzetta. Ha segno elegante e franco, compone bene, con vita e con abbondanza. La scena di Pluto è bella per molti rapporti; quella del serpe fugato dagli angeli, vivida; ma nella illustrazione del XIII del Purgatorio il gran pino obliquo appar troppo tiepolesco. Come con lo Schiavonio anche col Fontebasso ci andiamo preparando agli illustratori del secolo XIX, ma il Fontebasso, nel Paradiso, diventa un decoratore da oratorio.

Inferiore ai predetti è il Marcaggi, che disegna male la figura, incertamente il paese, e non dà espressione alla scena. Trascende a goffaggini di forma, e solo forse la composizione del XIV dell’Inferno è notevole per la giustezza dell’effetto. Beatrice sembra talora una santa Teresa, e il Dante cascante, nel Paradiso, un san Giuseppe da Copertino.

Il Tiziani o Diziani ha qualità affini al Fontebasso pel modo di comporre a gruppi e per la vivezza del segno. Le scene diaboliche dei canti XXI e XXII dell’Inferno rendono bene il lato grottesco del tema. La solitudine montana per cui si avanza Bertran del Bornio col proprio capo

pésol con mano a guisa di lanterna

dà un senso di spavento. Nel XIX del Purgatorio anche il Diziani rende omaggio al Tiepolo col pino ricurvo e col vecchio di tipo israelitico. Ma più che irritare, fa ridere il casolare contadinesco col camino che fuma, nella scena di Sordello! La vignetta del canto X del Purgatorio coi bassorilievi e quella del canto XXVII paiono veri frontispizi per volumi di versi.

Quando il Magnini da incisore passa a far da inventore, produce cose miserrime, grottesche. Lo Scaggiari ha due semplici illustrazioni decorative assolutamente estranee alla severità dantesca come quelle del Guarana, il quale non si spoglia del suo abito di decoratore e torce, ad illustrar Dante, due pezzi di cupole bravamente immaginate.

Così il nostro studio si arresta alla soglia del secolo XIX; del secolo, cioè, che ha innalzato l’amore del poeta e del suo poema a un vero culto, cui non ha tolta dignità qualche inopportuna idolatria. Concorde quindi all’opera letteraria, dal Parini sino a Giosuè Carducci, ispirata alla più viva ammirazione di Dante, si è svolta una nuova e abbondantissima iconografia che da sola può costituire più volumi e che, molto progredita, specialmente coi dotti lavori del Volkmann, del Bassermann e del Kraus, tante volte citati, non può dirsi nullameno compiuta.

In una serie, infatti, di parecchi anni, noi abbiamo potuto raccogliere l’indicazione di più che mille tra quadri, affreschi, disegni, stampe, esprimenti soggetti tratti dalla Divina Commedia, nonchè vedere notevoli illustrazioni inedite di tutto o di parte del Poema, tra le quali, piuttosto bella, quella in dodici disegni di Giuseppe Lorenzo Gatteri, conservata nel Museo Revoltella di Trieste.

Ed è veramente di grande interesse seguire il succedersi dei gusti artistici che, così nei dipinti staccati come nelle ampie serie illustrative, distinguono il periodo dei neo-classici (dal Flaxmann al Pinelli) dal periodo romantico cui appartengono lo Scaramuzza e il Doré, autore della più popolare, efficace e grandiosa fra tutte le illustrazioni dantesche; e il periodo romantico da quello contemporaneo o quasi, che, accarezzato dapprima da un blando prerafaelismo, si è trovato presto investito dal naturalismo recente, in palese urto con la poetica e ultramondana materia trattata da Dante.

Però, come e quanto l’arte moderna corrisponda e s’accordi al sentimento dantesco, non possiamo dir noi che, come i dannati di Dante, ricordiamo il passato e fors’anche spingiamo lo sguardo nell’avvenire, ma non conosciamo certo il presente.

Corrado Ricci.

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