I.

C'era una volta, in un ospedale di questo mondo, un povero bambino senza mamma, malato da lungo tempo. È già tanto triste che i bambini sieno malati; ma all'ospedale poi, e senza la mamma...

Un giorno, passò dalla corsìa una donna vestita di nero — era una mamma senza figliuoli — e vide il bambino, a sedere sul letto, che giocava con certi soldatini ritagliati da un foglio, un po' sgualciti. Si fermò, e siccome sapeva giocare, aiutò il piccino, e fecero subito amicizia. Anzi, quando sentì che al minuscolo esercito mancavano i tamburini, promise di portarli la prossima volta.

Ai bambini bisogna sempre mantenere le promesse, come ai grandi; e tanto più se sono malati. La donna tornò dunque con un foglio di soldati, dove gli ultimi tre di ogni fila erano tamburini; e portò anche una forbice, per ritagliarli subito. Così il bambino senza mamma e la mamma senza bambino divennero anche più amici del primo giorno.

Oramai, ogni volta che la donna andava all'ospedale, si fermava a lungo presso il letto del bambino: rifornivano insieme l'esercito di carta, se le guerre ne avevano diradate le file, e insieme ragionavano di battaglie, di artiglierie, di uniformi, e di quei grandi cartoni che si trovano a vendere in certi negozii di balocchi, con fucile, sciabola, giberna e cheppì grandi quasi quanto i veri... Ma son cose che costano; e un malatino, a letto, che se ne farebbe? Tante volte, però, fa piacere parlar di balocchi, anche se non sono nostri, perchè le cose belle son sempre belle, ed è bene che ci sieno, al mondo, e che qualcuno almeno ne goda.

Una domenica, la donna trovò il bambino disteso, quieto quieto, sotto le coperte. Gli avevano fatto l'operazione, e non poteva muoversi: si sentiva come stanco, ma non aveva tanti dolori, diceva.

«E i tuoi soldati?» — domandò la donna, tanto per dir qualche cosa: «Avranno fatto la pace, in tanto...»

«Oh, no!» — rispose il bambino: «Le battaglie, ora, le penso.»

«È vero; anche pensando si può giocare!» — disse la donna; e allora, per aiutare il suo piccolo amico, cercò di farsi tornare alla mente, tutta per filo e per segno, la novella dell'intrepido soldatino di stagno che aveva letta, una volta, in un libro.

Il malatino ascoltava avidamente, e gli occhioni intenti parevano farsi più grandi nel piccolo viso patito.

«Ne sai altre?» domandò, appena la raccontatrice ebbe finito, senza dire nemmeno una parola sulla prima novella.

La donna cercò nella memoria.

«So quella di Pollicina,» — disse, — «ma non sono sicura di ricordarla bene. E poi, è meglio una per volta: se no, ti stanchi. La prossima volta porterò il libro.»

La prossima volta portò un libro, ma non quello di Pollicina, perchè Pollicina in italiano non c'era. Il bambino, del resto, era troppo piccino per divertirsi a sentir leggere: voleva sentir parlare, sentir raccontare per sè solo, nel dialetto cui era abituato; e la donna pure preferiva raccontare, perchè aveva bisogno di vedere nei grandi occhi lucenti se il bambino seguiva il filo della novella, e se non si stancava, e se non gli tornavano i dolori...

Così, dunque, raccontò; raccontò ogni domenica ed ogni mercoledì, per tanti tanti tanti mesi. Quand'ebbe dato fondo alle solite raccolte, prese le novelle un po' da per tutto, sin dai Libri Santi e dai grandi poemi antichi dell'India e della Grecia. Il piccolo malato non ne aveva mai abbastanza. Sentì, ad una ad una, tutte le novelle di questo volume, e molte altre ancora (l'Andersen ne scrisse centocinquantasei); ma queste gli piacevano più di tutte, diceva, «perchè sono un po' melanconiche e un po' allegre, come il sole quando entra qua dentro, nella corsìa

* *

Io udii un giorno queste parole; e mi parve che il bambino, nella sua semplicità, avesse benissimo definita l'arte di Giovanni Cristiano Andersen, penetrandone proprio l'intima essenza benefica. Un raggio di sole che entra in una corsìa di ospedale, e dà un tono caldo all'umida lucentezza del pavimento, e una tinta rosea ai poveri volti sparuti sopra ai guanciali; che porta come una fragranza di primavera in quell'odorino di acido fenico, e mette un'aureola intorno al capo delle suore... — in verità che pochi grandi hanno trovato di meglio, per raffigurare, non l'arte dell'Andersen soltanto, ma ogni vera poesia che scenda ad illuminare le miserie, i dolori, la pietà di questo basso mondo. Pensai allora che le novelle, un po' liete e un po' tristi com'è un po' lieta e un po' triste la vita, potevano servire ad altre mamme, per altri bambini; e raccogliendone qui alcune, mi lasciai guidare nella scelta dall'esperienza della donna vestita di nero e dai gusti del suo piccolo amico.

Chi lascia la storia come l'ha trovata, dicono gli Inglesi, è ben povero novellatore. Ma io sarei troppo contenta se, raccontando queste novelle ai bambini italiani, non le avessi sciupate; se mi fosse riuscito di conservare, anche in parte, la ingenua grazia, la semplicità, la freschezza, il delicato umorismo dell'originale danese. Ho cercato, sin nella meticolosa punteggiatura, di preparare un libro da leggere ad alta voce, in famiglia. La lettura fatta insieme con la mamma o con la sorella maggiore sodisfa, meglio di ogni lezione, un vero bisogno del bambino; quel bisogno di simpatia intellettuale, che il povero vecchio fanale della novella conosceva quanto lo Spencer. Il bambino vuol che anche altri veda e senta quel che più lo colpisce, quel che gli piace di più; e la mamma lo sa, sin da quando lo tiene in collo ed egli le accosta al viso il balocco od il cantuccio di pane succiato che ha in mano; sin da quando, in giardino, egli dà le prime incerte corsettine, per farle vedere la foglia che ha strappata, il sassolino che ha raccattato, e per farle dire ad ogni costo che è bello. La buona mamma, che trova sempre tempo e voglia per vedere tutto quanto il bambino vuol farle vedere, e per ascoltare e riascoltare le gesta del suo diletto Pinocchio, sa valersi del più potente mezzo di educazione di cui le sia dato disporre; sa stabilire un legame d'intima confidenza, che sarà anche più tardi, e non per il figliuolo soltanto, una grande benedizione.

Se poi, in vece di leggere, le mamme racconteranno — esse, che posseggono l'arte suprema di adattare ogni minimo particolare al piccolo uditorio, — tanto meglio. La lingua dell'Andersen è lingua parlata; e per ciò tanto maggiore difficoltà incontrai nel renderla intelligibile ai bambini d'Italia, per i quali la lingua parlata è quasi sempre il dialetto, ed il nome popolare degli oggetti domestici più comuni, dei giochi, degli insetti, delle erbe, varia, non da regione a regione soltanto, ma da borgata a borgata.

* *

Bisogna che i libri per i bambini sieno belli, ben rilegati, con belle illustrazioni, con caratteri ben formati. Questo diceva il Fénelon, e questo l'Editore si è studiato di fare. Ma è poi veramente libro per i bambini?

Le novelle dell'Andersen sono oramai classiche, e l'arte sua non si discute. Pure, quel senso appunto di giustizia e di aperta verità che la fa somigliare alla luce del sole, quell'intimo senso di pietà (ed anche la pietà, non è vero? è giustizia, verso chi più soffre), quella bonaria, ma inesorabile ironia, che svela il lato comico della vita e le sue contraddizioni, ed è pur sempre ancora giustizia, — tutte queste, che ne son proprio le doti caratteristiche, fecero sì che l'opera dell'Andersen fosse reputata da alcuni, nei paesi latini specialmente, troppo elevata o troppo profonda per la mente infantile.

In vero, quando, lui vivo, gli fu eretto in patria un monumento che lo raffigura in atto di raccontare una novella ai bambini che ha d'intorno, l' Andersen si dolse: «O perchè soltanto bambini? Io non ho scritto per i bambini soltanto...»

No, egli ha scritto per tutti; ha scritto per quel «fanciullino» che vive ancora, grazie a Dio, nell'anima di noi tutti, e dell'anima è la purezza e la poesia.

D'altra parte, — Anatole France lo ha detto mirabilmente, — per farsi intendere dai fanciulli, nulla v'ha di meglio del genio. «Se scrivete per i fanciulli, non vi fate una maniera speciale: pensate bene, scrivete bene — è l'unico secreto per piacere ai piccoli lettori... Lo stesso Robinson Crusoe, ch'è da un secolo il libro classico della fanciullezza, non fu già scritto a suo tempo per i fanciulli, ma per gli uomini: per i gravi mercanti della city di Londra e per i marinai di Sua Maestà. L'autore vi ha messo tutta l'arte sua, la sua rettitudine, il suo vasto sapere, la sua esperienza... E si vede che tutto ciò è nè più nè meno di quel che ci vuole per divertire quattro monelli di scuola!» .

I fanciulli provano anzi generalmente certa istintiva repugnanza a leggere i libri scritti apposta per essi. Troppo spesso rimasero delusi; chè certi scrittori, per mettersi a portata delle giovani menti, si credono di dover tornar bambini, «senza l'innocenza e senza la grazia.» Nulla, in vece, annoia tanto il fanciullo quanto le fanciullaggini degli adulti. Il piccino spera sempre che i grandi lo prendano in collo, e lo sollevino all'altezza della finestra, per guardar fuori, quel che da sè non arriva a vedere, l'ignoto, il nuovo di cui ha sete, il mondo, in somma, «il mondo che nasce per ognun che nasce al mondo.» Ma se i grandi poi non sanno di meglio che accoccolarsi a terra vicino a lui, e presentargli, ad uno ad uno, i suoi balocchi soliti...

Il modo toscano «fare i balocchi» ha la sua filosofia. (Penso a quella bambina che, vedendo moversi e camminare una bambola meccanica, esclamò, come mortificata: Ma gioca già da sè!...). Il bello è giocare con gli oggetti che non sono balocchi, e farli diventare, ingegnandosi, col lavorìo dell'immaginazione: e tanto maggiore sarà lo sforzo per coprire i difetti della materia e costringerla a raffigurare l'idea, tanto maggiore sarà la soddisfazione. L'Andersen, rimasto egli stesso, sino all'ultimo, un grande fanciullo, l'Andersen che improvvisava una novella con un solino e un ferro da stirare, ben lo sapeva; e ben lo sapeva il suo glorioso amico Thorvaldsen. Un giorno, nell'estate del 1846, i due amici si trovavano insieme a Nysoe, ospiti del Barone Stampe; ed il grande scultore, entusiasta dell'Anitroccolo e dei Promessi Sposi, che l'Andersen gli aveva letti allora allora, esclamò: «Scommetto che saresti capace d'imbastirci una fiaba anche con un ago da stuoie!» E così nacque la storia di quel vanitosissimo ago da stuoie, «che per poco non si credeva un ago da cucire» .

Apro un volume delle novelle e prendo a caso un esempio:

«Babbo, mamma, fratelli, sorelle, tutti sono andati a teatro: non è rimasta a casa che la Mimma col suo vecchio padrino.

«Anche noi ci faremo la nostra brava commedia!» — dice il padrino: «E tant'è, si può cominciare anche subito.»

«Ma non abbiamo teatro,» — dice la Mimma: «e dove vuoi trovare i personaggi? La bambola vecchia no, perchè è troppo brutta; la nuova, nemmeno, perchè non voglio sgualcirle il vestito...»

«I personaggi si trovan sempre, quando si prende quello che si ha!» risponde il padrino. «In tanto, fabbrichiamo il teatro. Poniamo qui un libro, e qui un altro, e qui un altro: tutti ritti per bene, ma messi un po' in tralice; e poi tre da quest'altra parte... ed ecco fatte le quinte. Questa scatola serve benone per lo sfondo; così, col coperchio rialzato. La scena, si vede subito, rappresenta un salotto. Ora cerchiamo i personaggi. Vediamo un po' che c'è in questo cassetto. Prima troviamo i personaggi, e poi faremo i versi della commedia, uno più bello dell'altro. Sentirai, sentirai! Ecco in tanto una pipa di schiuma con una bella testa di vecchio; e qui c'è una scarpina scompagnata della Mimma: possono essere benissimo babbo e figliuola.»

«E due personaggi, in tanto!» — esclama la Mimma tutta contenta. «E qui c'è il panciotto del mio fratellino. Ti serve, per fare il teatro?»

«Eh, per grande, è grande abbastanza da poter recitare anche lui! Farà la parte di amoroso: ha le tasche vuote, e questo dà subito l'idea di un amore contrastato... Oh, e qui c'è un magnifico schiaccianoci fatto a stivale, e con uno sperone per giunta! Lampi, saette e mazurka! Guarda che passi sa fare! e come sta ritto! Sarà il fidanzato di cui la signorina non vuol sentir parlare. Che s'ha a fare, dunque? Una tragedia o una commedia?»

«Commedia, commedia!» — grida la Mimma: «Tutti dicono che diverte molto di più. Ne sai una?»

«Una? Ma cento, ne so!» — dice il padrino. «Quelle che al pubblico piaccion di più son sempre tradotte dal francese, ma per le bambine non sono le più adatte. Possiamo sceglierne egualmente una bellissima. Già, il nòcciolo è poi sempre lo stesso. Ora scuoto il sacchetto! Attenta che cavo la tombola... Ma prima bisogna che ti legga il manifesto.»

E il padrino prende un giornale, e legge:

TESTA - DI - PIPA E TESTA SODA

Commedia in un atto.

Personaggi:

Il Dottore Pipino Schiuma

Scarpina, sua figliuola

Mossiù Gilet, amoroso

Il Cavaliere de Stivalis, aspirante alla mano di Scarpina.

«Attenta, che ora s'alza il sipario. Veramente il sipario non c'è, ed è molto meglio: così è più presto rialzato. Tutti i personaggi sono in iscena, ed ora faccio parlare il dottore. Stamane s'è levato di pessimo umore: si vede subito che schiuma di rabbia...» . E così la rappresentazione incomincia.

* *

Coltivare la facoltà, ch'è già provvido istinto nei fanciulli, aiutandoli a fare i balocchi con quello che c'è, e a trovare i personaggi della commedia tra quelli che han sotto mano, è quanto fornirli di un prezioso viatico.

Ricordate l'accorata pietà del vecchio poeta americano dinanzi a quei due piedini rosei, ch'egli stringeva in una sola mano? Poveri piedini, che dovrete tanto faticare, ed insanguinarvi ai rovi del sentiero! Povere manine, che tante tante volte avrete a tendervi implorando, ad abbandonarvi nello sconforto, a torcervi nella desolazione, a congiungervi nell'ansiosa preghiera! — Ma contro le asprezze del cammino gioverà più di ogni scienza il coraggio dei poveri, «fatto di un po' di gioconda spensieratezza e di molta rassegnazione»; gioverà, sopra tutto, la semplice filosofia degli umili, che si compendia in una parola: contentarsi.

La scienza della vita è tutta lì; ed un mio saggio amico, un vecchio contadino casentinese, me lo disse un giorno in versi:

Chi si contenta gode...

e qualche volta stenta.

Ma stenta sempre men chi si contenta.

Chi trova la gioia, la bellezza, la poesia nelle cose che ha da presso, nelle umili cose che sono a portata della mano, possiede il secreto della serenità, che è pure sovente il secreto della bontà. Un poeta vero, un poeta nostro, Giovanni Pascoli, lo dice: «Or dunque intenso è il sentimento poetico di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove. E sommamente benefico è tale sentimento, che pone un soave e leggero freno all'instancabile desiderio, il quale ci fa perpetuamente correre con infelice ansia per la via della felicità. Oh, chi sapesse rafforzarlo in quelli che l'hanno, fermarlo in quelli che sono per perderlo, insinuarlo in quelli che ne mancano, non farebbe per la vita umana opera più utile di qualunque ingegnoso trovatore di comodità e di medicine?» .

Ma da qualche tempo è invalsa l'opinione che non si debbano dare, in vece, ai fanciulli se non certi aridi libri infarciti di nozioni scientifiche, per paura di guastar loro la mente con la poesia! Il France si ribella: «Fiabe han da essere, fiabe per i piccini e per i grandi; belle fiabe in versi ed in prosa, che ci facciano ridere e piangere, e ci schiudano il paese incantato... I novellatori rifanno il mondo a modo loro, e dànno facoltà ai deboli, ai semplici, ai piccoli di rifarlo alla lor volta. Per ciò hanno sì grande potenza di simpatia; perchè aiutano ad immaginare, a sentire, ad amare. Nè abbiate paura che ingannino il bambino, popolandone la mente di elfi o di fate. Egli sa benissimo che la vita non ha di tali gentili apparizioni. Nella nostra società, ahimè, sin troppa è la gente positiva, che teme i danni dell'immaginazione. Ed ha torto, che dall'immaginazione, con le sue menzogne, è seminata ogni bellezza, ogni virtù nel mondo. Non si diventa grandi che col suo aiuto. Non temete, no, mamme, ch'essa perda i vostri figliuoli: li salverà più tosto, dalle colpe volgari e dai facili errori.» .

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