VII.

L’odo fuggir tra gli arcipressi foschi,

e l’ansia il cor mi punge.

Ei mi chiama di lunge

solo negli alti boschi, e s’allontana.

Mutato è il suon delle sue dolci canne.

Trèmane il cor che l’ode,

balza se sotto il piè strida l’arbusto;

pavido è fatto al rombo del suo sangue,

ed altro piú non ode

il cor presàgo di remoto lutto.

Prego: «O fanciul venusto,

non esser sí veloce

ch’io non ti giunga!» È vana la mia voce.

Melodiosamente ei s’allontana.

Elci nereggian dopo gli arcipressi,

antiqui arbori cavi.

Pascono suso in ciel nuvole bianche.

A quando a quando tra gli intrichi spessi

le nuvole soavi

son come prede tra selvagge branche.

E sempre odo le canne

gemere d’ombra in ombra

roche quasi richiamo di colomba

che va di ramo in ramo e s’allontana.

«O fanciullo fuggevole, t’arresta!

Tu non sai com’io t’ami,

intimo fiore dell’anima mia.

Una sol volta almen volgi la testa,

se te la inghirlandai,

bel figlio della mia melancolia!

Con la tua melodia

fugge quel che divino

era venuto in me, quasi improvviso

ritorno dell’infanzia piú lontana.

Fa che l’ultima volta io t’incoroni,

pur di negro cipresso,

e teco io sia nella dolente sera!»

Ei nell’onda volubile dei suoni

con un gentil suo gesto,

simile a un spirto della primavera,

volgesi; alla preghiera

sorride, e non l’esaude.

L’ansia mia vana odo sol tra le pause,

mentre che d’ombra in ombra ei s’allontana.

Ad un fonte m’abbatto che s’accoglie

entro conca profonda

per aver pace, e un elce gli fa notte.

«O figlio, sosta! Imiterai le foglie

e l’acque anche una volta

e i silenzii del dí con le tue note.

Sediamo in su le prode.

Fa ch’io veda l’imagine

puerile di te presso l’imagine

di me nel cupo speglio!» Ei s’allontana.

S’allontana melodiosamente

nè piú mi volge il viso,

emulo di Favonio ei nel suo volo.

Sol calando, la plaga d’occidente

s’infiamma; e d’improvviso

tutta la selva è fatta un vasto rogo.

Le nuvole di foco

ardono gli elci forti,

aerie vergini al disio dei mostri.

Giunge clangor di buccina lontana.

E un tempio ecco apparire, alte ruine

cui scindon le radici

errabonde. Gli antichi iddii son vinti.

Giaccion tronche le statue divine

cadute dai fastigi;

dormono in bruni pepli di corimbi.

Lentischi e terebinti

l’odor dei timiami

fan loro intorno. «O figlio, se tu m’ami,

sosta nel luogo santo!» Ei s’allontana.

«Rialzerò le candide colonne,

rialzerò l’altare

e tu l’abiterai unico dio.

M’odi: te l’ornerò con arti nuove.

E non avrà l’eguale.

Maraviglioso artefice son io.

T’adorerò nel mio

petto e nel tempio. M’odi,

figlio! Che immortalmente io t’incoroni!»

Nel gran fuoco del vespro ei s’allontana.

Si dilegua ne’ fiammei orizzonti

Forse è fratel degli astri.

O forse nel mio sogno s’è converso?

«Ti cercherò, ti cercherò ne’ monti,

ti cercherò per gli aspri

torrenti dove ti sarai deterso.

E ti vedrò diverso!

Gittato avrai le canne,

intento a farti archi da saettare

col legno della flèssile avellana».

(Romena, tra il 13 e il 19 luglio 1902)

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