L’odo fuggir tra gli arcipressi foschi,
e l’ansia il cor mi punge.
Ei mi chiama di lunge
solo negli alti boschi, e s’allontana.
Mutato è il suon delle sue dolci canne.
Trèmane il cor che l’ode,
balza se sotto il piè strida l’arbusto;
pavido è fatto al rombo del suo sangue,
ed altro piú non ode
il cor presàgo di remoto lutto.
Prego: «O fanciul venusto,
non esser sí veloce
ch’io non ti giunga!» È vana la mia voce.
Melodiosamente ei s’allontana.
Elci nereggian dopo gli arcipressi,
antiqui arbori cavi.
Pascono suso in ciel nuvole bianche.
A quando a quando tra gli intrichi spessi
le nuvole soavi
son come prede tra selvagge branche.
E sempre odo le canne
gemere d’ombra in ombra
roche quasi richiamo di colomba
che va di ramo in ramo e s’allontana.
«O fanciullo fuggevole, t’arresta!
Tu non sai com’io t’ami,
intimo fiore dell’anima mia.
Una sol volta almen volgi la testa,
se te la inghirlandai,
bel figlio della mia melancolia!
Con la tua melodia
fugge quel che divino
era venuto in me, quasi improvviso
ritorno dell’infanzia piú lontana.
Fa che l’ultima volta io t’incoroni,
pur di negro cipresso,
e teco io sia nella dolente sera!»
Ei nell’onda volubile dei suoni
con un gentil suo gesto,
simile a un spirto della primavera,
volgesi; alla preghiera
sorride, e non l’esaude.
L’ansia mia vana odo sol tra le pause,
mentre che d’ombra in ombra ei s’allontana.
Ad un fonte m’abbatto che s’accoglie
entro conca profonda
per aver pace, e un elce gli fa notte.
«O figlio, sosta! Imiterai le foglie
e l’acque anche una volta
e i silenzii del dí con le tue note.
Sediamo in su le prode.
Fa ch’io veda l’imagine
puerile di te presso l’imagine
di me nel cupo speglio!» Ei s’allontana.
S’allontana melodiosamente
nè piú mi volge il viso,
emulo di Favonio ei nel suo volo.
Sol calando, la plaga d’occidente
s’infiamma; e d’improvviso
tutta la selva è fatta un vasto rogo.
Le nuvole di foco
ardono gli elci forti,
aerie vergini al disio dei mostri.
Giunge clangor di buccina lontana.
E un tempio ecco apparire, alte ruine
cui scindon le radici
errabonde. Gli antichi iddii son vinti.
Giaccion tronche le statue divine
cadute dai fastigi;
dormono in bruni pepli di corimbi.
Lentischi e terebinti
l’odor dei timiami
fan loro intorno. «O figlio, se tu m’ami,
sosta nel luogo santo!» Ei s’allontana.
«Rialzerò le candide colonne,
rialzerò l’altare
e tu l’abiterai unico dio.
M’odi: te l’ornerò con arti nuove.
E non avrà l’eguale.
Maraviglioso artefice son io.
T’adorerò nel mio
petto e nel tempio. M’odi,
figlio! Che immortalmente io t’incoroni!»
Nel gran fuoco del vespro ei s’allontana.
Si dilegua ne’ fiammei orizzonti
Forse è fratel degli astri.
O forse nel mio sogno s’è converso?
«Ti cercherò, ti cercherò ne’ monti,
ti cercherò per gli aspri
torrenti dove ti sarai deterso.
E ti vedrò diverso!
Gittato avrai le canne,
intento a farti archi da saettare
col legno della flèssile avellana».
(Romena, tra il 13 e il 19 luglio 1902)