I.L'epifania del fuoco.

— Stelio, non vi trema il cuore, per la prima volta? — chiese la Foscarina con un sorriso tenue, toccando la mano dell'amico taciturno che le sedeva al fianco. — Vi veggo un poco pallido e pensieroso. Ecco una bella sera di trionfo per un grande poeta!

Uno sguardo le adunò negli occhi esperti tutta la bellezza diffusa per l'ultimo crepuscolo di settembre divinamente, così che in quell'animato cielo bruno le ghirlande di luce che creava il remo nell'acqua da presso cinsero gli angeli ardui che splendevano da lungi su i campanili di San Marco e di San Giorgio Maggiore.

— Come sempre — ella soggiunse con la sua voce più dolce — come sempre ogni cosa è favorevole a voi. In una sera come questa, quale anima potrebbe restar chiusa ai sogni che vi piacerà di suscitare con le parole? Non sentite già che la folla è disposta a ricevere la vostra rivelazione?

Ella così blandiva l'amico delicatamente, lo avvolgeva in una continua lusinga, lo esaltava in una continua lode.

— Non era possibile imaginare una festa più magnifica e più insolita per trarre fuori della torre d'avorio un poeta disdegnoso quale voi siete. A voi solo era riserbata questa gioia: di poter comunicare per la prima volta con la moltitudine in un luogo sovrano com'è la Sala del Maggior Consiglio, dal palco dove un tempo il Doge parlava all'adunanza dei patrizii, avendo per fondo il Paradiso del Tintoretto e sul capo la Gloria del Veronese.

Stelio Èffrena la guardò nelle pupille.

— Volete inebriarmi? — disse con una sùbita ilarità. — Questa è la tazza che si offre a chi va verso l'ultimo supplizio. Ebbene, sì, amica mia, vi confesso che mi trema un poco il cuore.

Lo strepito di un'acclamazione sorse dal traghetto di San Gregorio, echeggiò pel Canal Grande ripercotendosi nei dischi preziosi di porfido e di serpentino che ingemmano la casa dei Dario inclinata come una cortigiana decrepita sotto la pompa dei suoi monili.

Passava la bissona regale.

— Ecco quella, delle vostre ascoltatrici, che la Cerimonia vi comanda d'inghirlandare nell'esordio — disse la donna lusinghiera, alludendo alla Regina. — In uno de' vostri primi libri, mi sembra, voi confessate il vostro rispetto e il vostro gusto per i Cerimoniali. Una delle più straordinarie vostre imaginazioni è quella che ha per motivo una giornata di Carlo II di Spagna.

Come la bissona passava presso la gondola, i due fecero atto di salutare. Riconoscendo il poeta di Persephone e la grande attrice tragica, la Regina si volse per un atto spontaneo di curiosità: tutta bionda e rosea, frescamente illuminata da quel suo gran sorriso che pullulava inesauribile spandendosi nei pallidi meandri dei merletti buranesi. Era al suo fianco la patrona di Burano, Andriana Duodo, colei che nella piccola isola industre educava un giardino di refe ove si rinnovellavano stupendamente antichi fiori.

— Non vi sembra, Stelio, che i sorrisi delle due donne sieno gemelli? — disse la Foscarina guardando l'acqua fervere nel solco della poppa fuggente, ove pareva si prolungasse il riverbero del duplice chiarore.

— La contessa ha un'anima ingenua e magnifica, una delle rare anime veneziane che sien rimaste vivacemente colorate a imagine delle vecchie tele — disse con gratitudine Stelio. — Io ho una profonda devozione per le sue mani sensitive. Sono mani che tremano di piacere quando toccano un bel merletto o un bel velluto, e vi s'indugiano con una grazia che è quasi vergognosa d'esser troppo molle. Un giorno, mentre io l'accompagnavo per le sale dell'Academia, ella si fermò dinanzi alla Strage degli Innocenti del primo Bonifazio (voi ricordate certo il verde della donna abbattuta che il soldato di Erode sta per uccidere: è una nota indimenticabile!); si fermò a lungo, avendo diffusa per tutta la figura la gioia della sensazione piena e perfetta, poi mi disse: “Conducetemi via, Èffrena. Bisogna ch'io lasci gli occhi su quella veste, e non posso più veder altro.” Ah, cara amica, non sorridete! Ella era ingenua e sincera parlando così: ella aveva lasciato in realtà i suoi occhi su quel frammento di tela che l'Arte con un po' di colore ha fatto centro d'un mistero indefinitamente gaudioso. E in realtà io conducevo una cieca, tutto compreso di reverenza per quell'anima privilegiata in cui la virtù del colore aveva potuto produrre tale émpito da abolire per qualche tempo ogni vestigio della vita ordinaria e da impedire ogni altra comunicazione. Come chiamate voi questo? Riempiere il calice fino all'orlo, mi sembra. Ecco, per esempio, quel che io vorrei fare stasera se non fossi scoraggiato.

Un nuovo clamore, più forte e più lungo, si levò tra le due tutelari colonne di granito mentre la bissona approdava alla Piazzetta popolosa. La folla nera e densa nella pausa ondeggiando, i vani delle logge ducali si riempivano d'un confuso romorio simile al rombo illusorio che anima le volute delle conche marine. Poi, d'un tratto, risaliva nell'aria lucida il clamore, si frangeva su per la snella foresta marmorea, superava le fronti delle alte statue, attingeva i pinnacoli e le croci, si disperdeva nella lontananza crepuscolare. Imperturbata, su l'agitazione inferiore, nella nuova pausa, continuava l'armonia molteplice delle architetture sacre e profane su cui correvano come una melodia agile le modulazioni ioniche della Biblioteca, alzavasi come un grido mistico il vertice della torre nuda. E quella musica silenziosa delle linee immobili era così possente che creava il fantasma quasi visibile di una vita più bella e più ricca sovrapponendolo allo spettacolo della moltitudine inquieta. Sentiva essa la divinità dell'ora; e nel suo clamore verso quella forma novella di regalità approdante all'antica riva, verso quella bella regina bionda illuminata da un sorriso inestinguibile, esalava forse l'oscura aspirazione a trascendere l'angustia della vita volgare e a raccogliere i doni dall'eterna Poesia sparsi su le pietre e su le acque. L'anima cupida e forte dei padri acclamanti ai reduci trionfatori del Mare si risvegliava confusamente negli uomini oppressi dal tedio e dal travaglio dei lunghi giorni mediocri; e rimembrava l'aura mossa dai grandi vessilli di battaglia nel ripiegarsi come le ali della Vittoria dopo il volo o il loro garrito, già onta alle flotte fuggiasche, non placabile.

— Conoscete voi, Perdita, — domandò Stelio d'improvviso — conoscete voi qualche altro luogo del mondo che abbia, come Venezia, la virtù di stimolare la potenza della vita umana in certe ore eccitando tutti i desiderii sino alla febbre? Conoscete voi una tentatrice più tremenda?

La donna ch'egli chiamava Perdita, reclinata il volto come per raccogliersi, non rispose; ma sentì in tutti i suoi nervi correre quel fremito indefinibile che le suscitava la voce del giovine amico quando si faceva d'improvviso rivelatrice di un'anima appassionata e veemente verso di cui ella era attratta da un amore e da un terrore senza limiti.

— La pace! L'oblio! Ritrovate voi queste cose laggiù, in fondo al vostro canale deserto, quando tornate esausta e riarsa dall'aver respirato il soffio delle platee che un vostro gesto rende frenetiche? Io, per me, quando sono su quest'acqua morta, sento che la mia vita si moltiplica con una rapidità vertiginosa; e in certe ore mi sembra che i miei pensieri s'infiammino come per l'imminenza del delirio.

— La forza e la fiamma sono in voi, Stelio — disse la donna, quasi umilmente, senza sollevare gli occhi.

Egli tacque, intento, poichè nel suo spirito si generavano imagini e musiche impetuose come per virtù d'una fecondazione subitanea ed egli gioiva sotto il flutto inaspettato di quell'abondanza.

Ancor durava l'ora vesperale che in uno de' suoi libri egli aveva chiamata l'ora di Tiziano perchè tutte le cose parevano risplendere ultimamente di una lor propria luce ricca, come le nude creature di quell'artefice, e quasi illuminare il cielo anzi che riceverne lume. Emergeva su la sua propria ombra glauca il tempio ottagonato che Baldassare Longhena trasse dal Sogno di Polifilo, con la sua cupola, con le sue volute, con le sue statue, con le sue colonne, con i suoi balaustri, sontuoso e strano come un edificio nettunio construtto a similitudine delle tortili forme marine, biancheggiante in un color di madreperla su cui diffondendosi l'umida salsedine pareva creare nelle concavità della pietra qualche cosa di fresco, di argenteo e di gemmante onde suscitavan esse un'imagine vaga di schiuse valve perlifere su le acque natali.

— Perdita — disse il poeta, che sentiva correre per tutto il suo essere una specie di felicità intellettuale vedendo propagarsi dovunque le sue animazioni — non vi sembra che noi seguitiamo il corteo dell'Estate defunta? Ella giace nella barca funebre, vestita d'oro come una dogaressa, come una Loredana o una Morosina o una Soranza del secolo lucente; e il corteo la conduce verso l'isola di Murano dove un maestro del fuoco la chiuderà in un involucro di vetro opalino affinchè, sommersa nella laguna, ella possa almeno guardare a traverso le sue palpebre diafane i molli giochi delle alghe e illudersi di aver tuttavia intorno al corpo l'ondulazione continua della sua capellatura voluttuosa aspettando l'ora di risorgere.

Un sorriso spontaneo si versò pel volto della Foscarina, sgorgando dagli occhi che parevano aver veduto in verità la figura bella. Era infatti da quella improvvisa rappresentazione — per l'imagine e pel ritmo — espresso il sentimento vero diffuso in ogni apparenza d'intorno. Come il latte azzurrino dell'opale è pieno di fuochi nascosti, così l'acqua pallida eguale del gran bacino conteneva uno splendore dissimulato che rivelavano gli urti del remo. Di là dalla selva rigida dei vascelli fermi su l'àncore San Giorgio Maggiore appariva in forma d'una vasta galea rosea con la prora rivolta alla Fortuna che l'attraeva dall'alto della sua sfera d'oro. Aprivasi tra mezzo il canale della Giudecca come una placida foce dove i navigli carichi discesi per le vie dei fiumi parevano recare con i cumuli dei tronchi recisi e fenduti lo spirito dei boschi inclinati su le lontane acque correnti. E dal Molo, ove sul duplice prodigio dei portici aperti all'aura popolare sorgeva la bianca e rossa muraglia chiusa a stringere la somma delle volontà dominatrici, la Riva distendeva il suo dolce arco verso i Giardini ombrévoli, verso le Isole fertili, come per condurre al riposo delle forme naturali il pensiero incitato dagli ardui simboli dell'Arte. E, quasi a favorire l'evocazione dell'Autunno, passava una fila di barche ricolme di frutti simili a grandi canestri natanti, spandendo l'odore degli orti insulari su l'acque ove specchiavasi il fogliame perpetuo delle cuspidi e dei capitelli.

— Conoscete, Perdita, — riprese a dire Stelio guardando con un chiaro piacere i grappoli biondi e i fichi violetti accumulati da poppa a prua non senza armonia — conoscete una particolarità assai graziosa della cronaca dogale? La Dogaressa, per le spese dei suoi vestimenti solenni, godeva di alcuni privilegi sopra il dazio dei frutti. Non vi rallegra questa notizia, Perdita? I frutti delle isole la vestivano d'oro e la cingevano di perle. Pomona che dà la mercede ad Aracne: ecco un'allegoria che il Veronese poteva dipingere nella volta del Vestiario. Io gioisco quando mi raffiguro la signora eretta su gli altissimi zoccoli gemmati, se penso ch'ella porta qualche cosa di agreste e di fresco entro le pieghe del drappo grave: il benefizio dei frutti. Quali sapori acquista la sua opulenza! Ebbene, amica mia, imaginate che queste uve e questi fichi del nuovo Autunno rendano il prezzo della veste d'oro in cui è avvolta l'Estate morta.

— Che deliziose fantasie, Stelio! — disse la Foscarina ritrovando la sua giovinezza per sorridere attonita come una fanciulla a cui si mostri un libro figurato. — Chi fu che vi chiamò un giorno l'Imaginifico?

— Ah, le imagini! — esclamò il poeta, tutto invaso dal calore fecondo. — A Venezia, come non si può sentire se non per modi musicali così non si può pensare se non per imagini. Esse vengono a noi da ogni parte innumerevoli e diverse, più reali e più vive delle persone che ci urtano col gomito nella calle angusta. Noi possiamo chinarci a scrutare la profondità delle loro pupille seguaci e indovinar le parole ch'esse ci diranno, dalla sinuosità delle loro labbra eloquenti. Talune sono tiranniche, come amanti imperiose, e ci tengono lungamente sotto il giogo del loro potere. Altre si presentano tutte chiuse in un velo come le vergini o strettamente fasciate come i pargoli, e soltanto colui che sa lacerare quegli involucri può elevarle alla vita perfetta. Stamani, al risveglio, la mia anima ne era già tutta ingombra; e somigliava a un bell'albero carico di crisalidi.

Egli s'arrestò e rise.

— Se stasera si aprono tutte, — soggiunse — io sono salvo. Se restano chiuse, io sono perduto.

— Perduto? — disse la Foscarina guardandolo in volto con occhi così pieni di confidenza ch'egli le ne fu immensamente grato. — Voi non potete perdervi, Stelio. Voi siete sicuro sempre: portate le vostre sorti nelle vostre mani. Penso che vostra madre non debba mai aver temuto per voi, pur nei peggiori passi. È vero? Soltanto l'orgoglio vi fa tremare il cuore...

— Ah, cara amica, quanto vi amo e quanto vi sono grato per questo! — confessò Stelio, candidamente, prendendole la mano. — Voi non fate se non alimentare il mio orgoglio e darmi l'illusione d'aver già conseguito quelle virtù a cui di continuo aspiro. Mi sembra talvolta che voi abbiate il potere di conferire non so che qualità divina alle cose che nascono dalla mia anima e di farle apparir lontane e adorabili ai miei occhi medesimi. Voi riproducete talvolta in me lo stupor religioso di quello statuario che, avendo trasportato la sera nel tempio i simulacri dei numi ancor caldi del suo lavoro e quasi direi attenenti ancora al suo pollice plastico, la mattina dopo li vide esaltati su i piedistalli e avvolti in una nube d'aromati e spiranti divinità da tutti i pori della materia sorda in cui egli li aveva foggiati con le sue mani periture. Voi, cara amica, non entrate nella mia anima se non a compiere simili esaltazioni. Per ciò, ogni volta che la buona sorte mi concede di stare vicino a voi, mi sembrate necessaria alla mia vita; e nondimeno, nelle troppo lunghe separazioni, io posso vivere e voi potete vivere, ambedue sapendo quali splendori potrebbero nascere dalla congiunzione perfetta delle nostre due vite. Cosicché, mentre so quel che voi mi date e più quel che potreste darmi, io vi considero come perduta per me, e nel nome con cui mi piace di chiamarvi io voglio esprimere questa mia consapevolezza e questo mio rammarico infiniti...

S'interruppe, sentendo vibrare la mano che egli ancora teneva nella sua.

— Quando io vi chiamo Perdita — soggiunse, a voce più bassa, dopo la pausa — mi sembra che voi dobbiate vedere avanzarsi il mio desiderio con un ferro mortale confitto nel fianco ansante. Se pure esso giunga a toccarvi, il gelo tiene già l'estremità delle sue dita predaci.

Ella soffriva una pena ben nota, ascoltando quelle belle e perfette parole fluenti dalle labbra dell'amico con una spontaneità che pur le dimostrava sincere. Ella provava, anche una volta, un'inquietudine e un timore ch'ella medesima non sapeva definire. Le pareva di smarrire il senso della sua vita propria e d'esser sollevata in una specie di vita fittiva, intensa e allucinante, dove il suo respiro diveniva difficile. Attratta in quell'atmosfera ardente come il campo d'una fucina, ella si sentiva passibile di tutte le trasfigurazioni che l'animatore volesse operare su lei per appagare il suo continuo bisogno di bellezza e di poesia. Ella sentiva che l'imagine sua propria nel poetico spirito non era di natura diversa da quella della defunta Estate chiusa nell'involucro opalino, pur così evidente da parer tangibile. E l'assaliva quasi una smania puerile di riguardarsi negli occhi di lui, come in uno specchio, per vedervi riflessa la sua sembianza reale.

Ciò che più faceva grave la sua pena era il riconoscere una vaga analogia tra quel sentimento agitato e l'ansietà che s'impadroniva di lei nell'atto d'introdursi nella finzione scenica per incarnare una sublime creatura dell'Arte. — Non l'attraeva egli forse a vivere in quella stessa zona di vita superiore e, perchè ella vi potesse figurare immemore della sua persona cotidiana, non la copriva egli di splendide larve? — Ma, mentre a lei non era dato persistere in un tal grado d'intensità se non per uno sforzo supremo, ella vedeva l'altro mantenervisi facilmente come nella sua naturale maniera di essere e senza fine gioire d'un mondo portentoso ch'egli rinnovava con un atto di continua creazione.

Egli era giunto a compiere in sé stesso l'intimo connubio dell'arte con la vita e a ritrovare così nel fondo della sua sostanza una sorgente perenne di armonie. Egli era giunto a perpetuare nel suo spirito, senza intervalli, la condizione misteriosa da cui nasce l'opera di bellezza e a trasformare così d'un tratto in specie ideali tutte le figure passeggiere della sua esistenza volubile. Egli aveva indicato appunto questa sua conquista quando aveva messo in bocca ad una delle sue persone le parole: “Io assisteva in me medesimo alla continua genesi d'una vita superiore in cui tutte le apparenze si trasfiguravano come nella virtù di un magico specchio”. Dotato d'una straordinaria facoltà verbale, egli riusciva a tradurre istantaneamente nel suo linguaggio pur le più complicate maniere della sua sensibilità con una esattezza e con un rilievo così vividi che esse talvolta parevano non più appartenergli, appena espresse, rese oggettive dalla potenza isolatrice dello stile. La sua voce limpida e penetrante, che pareva disegnare con un contorno netto la figura musicale di ciascuna parola, dava maggior risalto a questa singolar qualità del suo dire. Talché in quanti l'udivano per la prima volta si generava un sentimento ambiguo, misto di ammirazione e di avversione, manifestando egli sé medesimo in forme così fortemente definite che sembravano risultare da una volontà costante di stabilire tra sé e gli estranei una differenza profonda e insormontabile. Ma, poichè la sua sensibilità eguagliava il suo intelletto, a quanti gli stavano da presso e lo amavano era facile ricevere a traverso il cristallo della sua parola il calore della sua anima appassionata e veemente. Sapevano costoro come fossero infinite le sue potenze di sentire e di sognare, e da qual combustione sorgessero le imagini belle in cui egli soleva convertire la sostanza della sua vita interiore.

Ben lo sapeva colei ch'egli chiamava Perdita; e, come la creatura pia attende dal Signore l'aiuto soprannaturale per operare la sua salvazione, ella pareva attendere ch'egli la ponesse alfine nello stato di grazia necessario per elevarsi e per rimanere in tal fuoco, verso di cui ella era spinta da un folle desiderio di ardere e di struggersi, disperata d'aver perduto fin l'ultimo vestigio della sua giovinezza e paurosa di ritrovarsi sola in un deserto cinereo.

— Siete voi ora, Stelio, — disse ella col suo tenue sorriso asconditore, liberando pianamente la sua mano da quella dell'amico — siete voi che volete inebriarmi.

— Guardate — esclamò, per rompere il fascino, additando una lenta barca onusta che veniva incontro — guardate le vostre melagrane.

Ma la sua voce era turbata.

Guardarono allora passare nel sogno vespertino, su l'acqua delicatamente verde e argentea come le foglie novelle del salice fluviale, la barca ricolma dei frutti emblematici che davano imagine di cose ricche e riposte, quasi scrigni di cuoio vermiglio recanti in sommo la corona d'un re donatore, chiusi taluni e altri semiaperti su le interne gemme agglomerate.

La donna ricordò con voce sommessa le parole che Ade rivolge a Persefone nel drama sacro, mentre la figlia di Demeter gusta la melagrana fatale:

“Quando tu coglierai il colchico in fiore sul molle

prato terrestre, presso la madre dal cerulo peplo,

— e come un dì saranno con te le Oceanidi belle,

teco sul molle prato — verrà ne ' tuoi occhi immortali

un improvviso tedio, il tedio verrà della luce:

ti tremerà nel cuore, Persefone, l'anima grande,

memore del suo sogno profondo, o Persefone, priva

del suo profondo regno. Allora la madre dal peplo

cerulo lacrimare vedrai taciturna in disparte.

E le dirai: — O madre, mi chiama nel regno profondo

Ade; mi chiama lungi dal giorno a regnare su l'Ombre

Ade; mi chiama sola al suo insaziabile amore

Ade...”

— Ah, Perdita, come sapete diffondere l'ombra su la vostra voce! — interruppe il poeta, sentendo una notte armoniosa ottenebrare le sillabe dei suoi versi. — Come sapete diventare notturna, innanzi sera! Vi ricordate voi della scena in cui Persefone è sul punto di sprofondarsi nell'Erebo, mentre il coro delle Oceanidi geme? Il suo volto somiglia al vostro quando s'oscura. Rigida nel suo peplo tinto di croco ella abbandona indietro il capo coronato, e sembra che la notte fluisca nella sua carne divenuta esangue e s'addensi sotto il mento, nel cavo degli occhi, intorno alle nari, trasfigurandola in una cupa maschera tragica. È la vostra maschera, Perdita. Il ricordo di voi mi aiutò ad evocare la persona divina, mentre componevo il mio Mistero. Quel piccolo nastro di velluto croceo che voi portate quasi sempre intorno al collo m'indicò il colore conveniente al peplo di Persefone. E una sera, nella vostra casa, congedandomi dalla soglia d'una stanza dove non erano ancora accese le lampade (una sera agitata dello scorso autunno, se vi sovviene), riusciste col vostro solo gesto a portare in luce nella mia anima la creatura che vi giaceva ancora inviluppata; e poi, inconsapevole di aver promossa quella subitanea natività, scompariste nell'intimo buio del vostro Erebo. Ah, io era certo di udire i vostri singhiozzi, e pure correva in me un torrente infrenabile di gioia. Non vi ho mai raccontato questo; è vero? Avrei dovuto consacrare la mia opera a voi, come a una Lucina ideale.

Ella soffriva, sotto lo sguardo dell'animatore; ella soffriva di quella maschera ch'egli le ammirava sul volto e di quella gioia ch'ella sentiva in fondo a lui ripullulare di continuo come una scaturigine perenne. Ella soffriva di tutta sé stessa: della mutabilità che avevano i suoi propri lineamenti; della strana virtù mimetica che possedevano i muscoli della sua faccia; e di quell'arte involontaria che regolava la significazione dei suoi gesti; e di quell'ombra espressiva che tante volte su la scena in un minuto di silenzio ansioso ella aveva saputo mettere su la sua faccia come uno stupendo velo di dolore; e di quell'ombra che ora riempiva i solchi incavati dal tempo nella sua carne non più giovine. Crudelmente soffriva per quella mano ch'ella adorava: per quella mano così delicata e così nobile, che pur con un dono o con una carezza poteva farle tanto male.

— Non credete voi, Perdita, — disse dopo una pausa Stelio, abbandonandosi al corso lucido e tortuoso del suo pensiero che, come i meandri del fiume formano circomprendono e nutrono le isole nella valle, lasciava nel suo spirito oscuri spazii isolati dove egli sapeva bene che nell'ora opportuna avrebbe trovato qualche nuova ricchezza — non credete voi al beneficio occulto dei segni? Non parlo di scienza astrale né di segni oroscopanti. Intendo che a simiglianza di coloro i quali credono di patire le virtù di una stella, noi possiamo creare una rispondenza ideale tra la nostra anima e una qualche cosa terrena, per modo che a poco a poco questa impregnandosi della nostra essenza e magnificandosi nella nostra illusione ci appaia quasi rappresentativa di nostre ignote fatalità e assuma quasi una figura di mistero apparendo in certe congiunture di nostra vita. Ecco, Perdita, il segreto per rendere una parte della freschezza primordiale alla nostra anima un po' arida. So per prova quale effetto benefico venga a noi dal comunicare intensamente con una cosa terrena. Bisogna che la nostra anima divenga, a quando a quando, simile all'amadriade per sentir circolare in sé la fresca energia dell'albero convivente. Voi avete già compreso che, così parlando, io alludo alle parole da voi proferite sul passaggio di quella barca. Voi avete espresso con oscura brevità questi pensieri quando avete detto: “Guardate le vostre melagrane!”. Per voi, e per quelli che mi amano, esse non potranno mai essere se nonmie. Per voi, e per loro, l'idea della mia persona è legata indissolubilmente al frutto che io ho eletto per emblema e che ho sovraccaricato di significazioni ideali più numerose de' suoi granelli. Se io fossi vissuto al tempo in cui gli uomini disseppellendo i marmi greci ritrovavano nella terra le ancor umide radici delle antiche favole, nessun pittore avrebbe potuto rappresentarmi su la tela senza mettere nella mia mano il pomo punico. Disgiungere da quel simbolo la mia persona sarebbe parso all'artefice ingenuo recidere una parte viva di me, poichè nella sua imaginazione paganeggiante il frutto sarebbe parso legato al braccio umano come al suo ramo naturale; ed egli insomma non avrebbe avuto del mio essere una idea diversa da quella ch'egli doveva avere di Giacinto o di Narcisso o di Ciparisso, i quali appunto dovevano apparirgli a volta a volta in figura di piante e in sembianza giovenile. Ma v'è anche in questo tempo qualche spirito agile e colorito che comprende tutto il senso e gusta tutto il sapore di questa mia invenzione. Voi medesima, Perdita, non vi compiacete di educare nel vostro giardino un bel melagrano per vedermi fiorire e fruttificare in ogni estate? Una vostra lettera, veramente alata come una messaggera divina, mi descriveva la cerimonia graziosa con che adontaste di monili l'arbusto “effrenico” nel giorno stesso in cui vi giunse il primo esemplare di Persephone. Ecco, dunque, che per voi e per quelli che mi amano io ho veramente rinnovellato un antico mito trasfondendomi, con una maniera ideale e significatrice, in una forma della Natura eterna; cosicché quando sarò morto (e la Natura mi conceda di manifestarmi intero nell'opera mia, innanzi ch'io muoia!) i miei discepoli mi onoreranno sotto la specie del melagrano, e nell'acutezza della foglia e nel colore flammeo del balausto e nella gemmosa polpa del frutto coronato vorranno riconoscere qualche qualità della mia arte; e i loro intelletti da quella foglia da quel fiore e da quel frutto, come da ammonimenti postumi del maestro, saranno condotti nelle opere a quella acutezza, a quella fiamma e a quell'opulenza inchiusa. Voi discoprite ora, Perdita, quale sia il beneficio vero. Io medesimo, per affinità, sono condotto a svilupparmi secondo il genio magnifico della pianta in cui mi piacque di significare le mie aspirazioni verso una vita ricca e ardente. Mi sembra che questa effigie vegetale di me valga ad assicurarmi che le mie forze si svolgono sempre secondo la natura per conseguire naturalmente l'effetto a cui son destinate. “Natura così mi dispone” fu l'epigrafe leonardesca ch'io posi sul frontespizio del mio primo libro. Ebbene, il melagrano fiorendo e fruttificando mi ripete di continuo quella semplice parola. E noi non obbediamo se non alle leggi inscritte nella nostra sostanza; e per ciò rimaniamo integri, fra tante dissoluzioni, in una unità e in una pienezza che sono la nostra gioia. Non v'è discordo tra la mia arte e la mia vita.

Egli parlava con abbandono, fluidamente, quasi che vedesse lo spirito della donna attenta farsi concavo come un calice per ricevere quell'onda e volesse riempierlo fino all'orlo. Una felicità intellettuale sempre più chiara diffondevasi in lui, insieme con una vaga consapevolezza dell'azione misteriosa per cui la sua mente si preparava al prossimo sforzo. A tratti, come in un balenìo, mentre s'inclinava verso l'amica sola e udiva il remo misurare il silenzio saliente dall'immenso estuario, egli travedeva l'imagine della folla dai volti innumerevoli addensata nell'aula profonda; e un tremito rapido gli scoteva il cuore.

— È ben singolare, Perdita, — riprese a dire guardando le lontane acque pallide ove per la bassa marea cominciavano a negreggiare le velme — come facilmente il caso aiuti la nostra fantasia nell'apporre un carattere di mistero al concorso di certe apparenze rispetto a un fine da noi imaginato. Io non comprendo perchè oggi i poeti si sdegnino contro la volgarità dell'epoca presente e si rammarichino d'esser nati troppo tardi o troppo presto. Io penso che ogni uomo d'intelletto possa, oggi come sempre, nella vita creare la propria favola bella. Bisogna guardare nel turbinio confuso della vita con quello stesso spirito fantastico con cui i discepoli del Vinci erano dal maestro consigliati di guardare nelle macchie dei muri, nella cenere del fuoco, nei nuvoli, nei fanghi e in altri simili luoghi per trovarvi “invenzioni mirabilissime” e “infinite cose”. Allo stesso modo, aggiungeva Leonardo, troverete nel suono delle campane ogni nome e vocabolo che vi piacerà d'imaginare. Quel maestro sapeva bene che il caso — come già dimostrò la spugna d'Apelle — è sempre amico dell'artefice ingegnoso. Per me, ad esempio, sono costanti cagioni di meraviglia la facilità e la grazia con cui il caso asseconda lo svolgersi armonico della mia invenzione. Non credete voi che il nero Ade abbia fatto mangiare alla sposa i sette granelli per fornirmi l'argomento di un capolavoro?

L’interruppe uno scoppio di quel suo riso giovenile che rivelava con tanta chiarezza la gioia nativa persistente in fondo a lui.

— Guardate, Perdita, — soggiunse ridendo — guardate se dico il vero. In uno dei primi giorni di ottobre, l'anno scorso, io fui invitato da Donna Andriana Duodo a Burano. Passammo la mattina nel giardino di refe; nel pomeriggio andammo a visitare Torcello. Come in quei giorni io avevo già incominciato a vivere nel mito di Persefone e l'opera andavasi formando in me segretamente, mi sembrava di navigare su le acque stigie, di trapassare nel paese di là. Non avevo mai avuto un più puro e più dolce sentimento della morte; e quel sentimento mi rendeva così leggero che avrei potuto camminare senza lasciare orma su la prateria d'asfodelo. L'aria era umida cinerina e molle; i canali serpeggiavano per mezzo ai banchi coperti di erbe trascolorite. (Voi conoscete Torcello, forse, col sole.) Ma qualcuno intanto parlava, disputava, declamava, nella barca di Caronte! Il suono della lode mi risvegliò. Alludendo a me, Francesco de Lizo si rammaricava che un artista principe così magnificamente sensuale — erano queste le sue parole — fosse costretto a vivere in disparte, lontano dalla folla ottusa e ostile, e a celebrare le feste “dei suoni dei colori e delle forme” nel palagio del suo sogno solitario. Egli si abbandonava a un moto lirico ricordando le vite splendide e festose degli artisti veneti, il consentimento popolare che li sollevava come un turbine alle cime della gloria, la bellezza la forza e la gioia ch'essi moltiplicavano intorno a loro rispecchiandole in imagini innumerevoli per le volte concave e su l'alte pareti. Allora Donna Andriana disse: “Ebbene, io prometto solennemente che Stelio Èffrena avrà a Venezia la sua festa trionfale”. Aveva parlato la Dogaressa. In quel momento io vidi su la riva bassa e verdastra un melagrano carico di frutti rompere, come un'apparizione allucinante, l'infinito squallore. Donna Orsetta Contarini, che mi sedeva accanto, gittò un grido di giubilo e tese ambe le mani impazienti come la sua gola. Non v'è nulla che mi piaccia quanto l'espressione schietta e forte del desiderio. “Io adoro le melagrane!” ella esclamò mostrando di aver già nella lingua il sapore acidetto e grazioso. Ed era così infantile, come il suo nome arcaico! Io mi commossi; ma Andrea Contarini pareva disapprovare gravemente la vivacità della moglie. Egli è un Ade che non ha fede, sembra, nella virtù mnemonica dei sette granelli applicata al coniugio legittimo. S'eran commossi però anche i barcaiuoli e approdavano; cosicchè io potei saltare su l'erba pel primo, e mi diedi a spogliare l'albero consanguineo. Era proprio il caso di ripetere con bocca pagana le parole dell'Ultima Cena: “Prendete e mangiate: questo è il mio corpo che per voi è dato: fate questo in commemorazione di me”. Che ve ne sembra, Perdita? Non crediate che io inventi. Sono veridico.

Ella si lasciava sedurre da quel gioco libero ed elegantissimo in cui egli sembrava esperimentare l'agilità del suo spirito e la facilità della sua facondia. Eravi in lui qualche cosa di ondeggiante, di volubile e di possente, che le suscitava l'imagine duplice e diversa della fiamma e dell'acqua.

Ora — continuò egli — Donna Andriana ha mantenuto la sua promessa. Guidata da quel gusto della magnificenza antica, che si conserva in lei così largo, ha preparato una festa veramente dogale nel palazzo dei Dogi, a imitazione di quelle che si celebravano sul finire del Cinquecento. Ella ha pensato a risollevar dall'oblio l'Arianna di Benedetto Marcello e a farla sospirare nel luogo medesimo ove il Tintoretto ha dipinto la Minoide in atto di ricevere da Afrodite la corona di stelle. Non riconoscete nella bellezza di questo pensiero la donna che lasciò i suoi cari occhi su l'ineffabile veste verde? Aggiungete che questa rappresentazione musicale nella Sala del Gran Consiglio ha un riscontro antico. Nella stessa Sala, l'anno 1573, fu recitato un componimento mitologico di Cornelio Frangipani con musiche di Claudio Merulo, in onore del cristianissimo Enrico III. Confessate, Perdita, che la mia erudizione vi sbalordisce. Ah, se sapeste quanta ne ho accumulata sul soggetto! Vi leggerò il mio discorso il giorno in cui meriterete un qualche grave castigo.

— Ma non lo pronunzierete stasera, nella festa? — domandò la Foscarina, sorpresa ed inquieta, temendo ch'egli avesse risoluto di deludere la publica aspettazione con quella sua incuranza ben nota dell'obbligo.

Comprese egli l'inquietudine dell'amica e volle secondarla.

— Stasera — rispose con tranquilla certezza — io verrò a prendere il sorbetto nel vostro giardino e a compiacermi nella vista del melagrano ingioiellato, luccicante sotto il firmamento.

— Oh, Stelio! Che fate mai? — esclamò ella, sollevandosi.

Era nella parola e nell'atto un così vivo rincrescimento e, nel tempo medesimo, una così strana evocazione della folla aspettante, ch'egli ne fu turbato; poichè l'imagine del mostro formidabile dagli innumerevoli volti umani gli riapparve tra l'oro e la porpora cupa dell'aula immensa, ed egli ne presentì su la sua persona lo sguardo fisso e l'alito estuoso, e misurò d'un tratto il pericolo ch'egli era deliberato d'affrontare affidandosi alla sola ispirazione momentanea, e provò l'orrore dell'improvvisa oscurità mentale, della repentina vertigine.

— Rassicuratevi — disse. — Ho voluto scherzare. Andrò ad bestias; e andrò inerme. Non avete voi veduto dianzi riapparire il segno? Credete che sia riapparso invano, dopo il miracolo di Torcello? Anche una volta esso è venuto ad ammonirmi che io non debbo assumere se non quelle attitudini a cui Natura mi dispone. Ora voi sapete bene, amica mia, che io non so parlare se non di me. Bisogna dunque che dal trono dei Dogi io non parli all'uditorio se non della mia cara anima, sotto il velame di qualche allegoria seducente e con l'incanto di qualche bella cadenza musicale. Questo io farò, ex tempore, se lo spirito infiammato del Tintoretto mi comunicherà dal suo Paradiso la furia e l'ardire. Il rischio mi tenta. Ma in che singolare inganno io era caduto, Perdita! Quando la Dogaressa mi annunzio la festa e mi invitò a farle onore, io mi misi a comporre un discorso di pompa, una vera prosa di cerimonia, ampia e solenne come un robone paonazzo chiuso in una vetrina del Museo Correr; non senza una profonda genuflessione alla Regina nell'esordio, non senza una frondosa ghirlanda pel capo della serenissima Andriana Duodo. E per alcuni giorni mi compiacqui curiosamente nel convivere con lo spirito d'un patrizio Veneto del secolo XVI, ornato di tutte lettere come il cardinal Bembo, academico degli Uranici o degli Adorni, frequentatore assiduo degli orti muranesi e dei colli asolani. Certo, io sentivo qualche rispondenza fra il giro dei miei periodi e le massicce cornici d'oro che circondano le pitture nel soffitto dell'aula consiliare. Ma, ahimè, come ieri mattina giunsi a Venezia, e passando pel Canal Grande bagnai la mia stanchezza nell'ombra umida e trasparente ove il marmo esalava ancora la sua spiritualità notturna, sentii che le mie carte valevano assai meno delle alghe morte portate dal flusso e mi parvero estranee alla mia persona non meno dei Trionfi di Celio Magno e delle Favole marittime di Anton Maria Consalvi ivi citati e comentati. Che fare, allora?

Egli esplorò intorno con lo sguardo il cielo e l'acqua come per discoprirvi una presenza invisibile, per riconoscervi un qualche fantasma sopravvenuto. Un bagliore gialligno diffondevasi verso i lidi solitarii che vi si disegnavano in sottilissimi lineamenti come le venature opache nelle agate; indietro, verso la Salute, il cielo era sparso di leggeri vapori rosei e violetti somigliando a un mare glauco popolato di meduse. Dai Giardini prossimi scendevano gli effluvii della fronda sazia di luce e di calore, così gravi che sembravano quasi natanti come olii aromatici su l'acqua bronzina.

— Sentite l'autunno, Perdita? — chiese egli all'amica assorta, con una voce risvegliatrice.

Ella riebbe la visione dell'Estate defunta, chiusa nell'involucro di vetro opalino e sommersa in fondo alla laguna algosa.

— Mi sta sopra — rispose ella con un sorriso di malinconia.

— Non lo vedeste ieri quando discese su la città? Dov'eravate ieri, verso il tramonto?

— In un orto della Giudecca.

— Io qui, su la Riva. Non vi sembra che, quando gli occhi umani hanno ricevuto un simile spettacolo di bellezza e di gioia, le palpebre si dovrebbero abbassare per sempre e restar suggellate? Vorrei parlare stasera di queste intime cose, Perdita. Vorrei celebrare in me le nozze di Venezia e dell'Autunno, con una intonazione non diversa da quella che tenne il Tintoretto nel dipingere le nozze di Arianna e di Bacco per la sala dell'Anticollegio: — azzurro, porpora e oro. D'improvviso, ieri mi si aprì nell'anima un antico germe di poesia. Mi tornò nella memoria il frammento d'un poema obliato che incominciai a comporre in nona rima qui a Venezia, quando venni la prima volta navigando, alcuni anni fa, in un settembre della prima giovinezza. Era intitolato appunto L'Allegoria dell'Autunno e vi si rappresentava il dio — non più inghirlandato di pampini ma coronato di gemme come un principe del Veronese e infiammato di passione le vene voluttuose — nell'atto di migrare verso la Città anadiomene dalle braccia di marmo e dalle mille cinture verdi. Allora l'idea non era giunta a quel grado d'intensità che è necessario per entrare nella vita dell'arte; e io rinunziai istintivamente allo sforzo di manifestarla intera. Ma, poichè nello spirito attivo come nel terreno fertile non si perde alcun seme, essa ora mi risorge nel momento opportuno a chiedere con una specie d'urgenza la sua espressione. Quali fati misteriosi e giusti governano il mondo mentale! Era necessario che io rispettassi quel primo germe per sentirlo oggi espandere in me la sua virtù moltiplicata. Quel Vinci, che ha fitto il suo sguardo in ogni cosa profonda, ha voluto certo significare tal verità con quella sua favola del grano di miglio che dice alla formica: “Se mi fai tanto piacere di lasciarmi fruire il mio desiderio del nascere, io ti renderò cento me medesimi”. Ammirate qual tócco di grazia in quelle dita che spezzavano il ferro! Ah, egli è pur sempre il maestro incomparabile. Come farò io a dimenticarlo per abbandonarmi ai Veneziani?

Si spense d'un tratto l'ironia ilare ch'egli rivolgeva a sé stesso nelle ultime parole; ed egli parve ripiegarsi tutto sul suo pensiero. Col capo chino, provando per tutto il corpo una specie di contrattura convulsiva che rispondeva alla tensione estrema del suo spirito, egli ora cercava di scoprire qualcuna delle segrete analogie che dovevano collegare le imagini molteplici e diverse apparenti come ne' rapidi intervalli di un balenìo; egli ora cercava di determinare qualcuna delle linee massime entro le quali doveva svolgersi la nova figurazione. Tanto era il suo orgasmo che gli si vedevano tremolare sotto la pelle i muscoli del viso; e la donna, guardandolo, provava una pena riflessa non dissimile a quella che avrebbe provato se dinanzi a lei egli avesse voluto tendere con uno sforzo spasimoso il nervo d'un arco smisurato. Ed ella lo sapeva lontanissimo, estraneo, indifferente ad ogni altra cosa che non fosse il suo pensiero.

— È già tardi, s'avvicina l'ora; bisogna tornare indietro — disse egli scotendosi con un sussulto repentino, come incalzato dall'ansia, poichè aveva veduto riapparire il mostro formidabile dagli innumerevoli volti umani occupante la vastità dell'aula sonora. — Bisogna ch'io rientri in tempo all'albergo per vestirmi.

E, rifiorendo la sua vanità giovenile, egli pensò agli occhi delle donne sconosciute che dovevano vederlo per la prima volta in quella sera.

— All'albergo Danieli — ordinò la Foscarina al rematore. Ed ella e Stelio, mentre il ferro dentato della prua girava su l'acqua con una oscillazione lenta che aveva la parvenza d'un moto animale, provarono entrambi una diversa ma acuta angoscia nel punto di lasciar dietro di loro l'infinito silenzio dell'estuario, già in signoria dell'ombra e della morte, per rivolgersi alla città magnifica e tentatrice ne' cui canali, come nelle vene di una donna voluttuosa, incominciava ad accendersi la febbre notturna.

Tacquero, per un tratto, assorti nel turbine interiore che li travagliava profondandosi fino alle radici del loro essere e forzandole come per isvellerle. Dai Giardini scendevano gli effluvii e nuotavano come olii su l'acqua, intorno, che recava qua e là nelle sue pieghe il luccicore del bronzo consunto. Sparso era nell'aria quasi un fantasma di antichi fasti, che gli occhi sentivano in quella guisa che contemplando i palazzi offuscati dai secoli avean sentito nell'armonia dei marmi durevoli la nota estinta dell'oro. Pareva che nella sera magica si rinnovellassero il fiato e il riflesso del remoto Oriente, quali nelle vele concave e su i fianchi ricurvi portava un tempo la galea carica di belle prede. E tutte le cose intorno esaltavano la potenza della vita in colui che voleva attrarre a sé l'universo per non più morire, in colei che voleva gittare al rogo la sua anima ingombra per morir pura. Ed entrambi palpitavano tenuti da un'ansietà crescente, ascoltando la fuga del tempo, come se l'acqua su cui navigavano scorresse in una clessidra spaventosa.

Entrambi sussultarono, allo scoppio improvviso della salva che salutava la bandiera calante su la poppa d'una nave da guerra ancorata dinanzi ai Giardini. Videro in cima alla mole nera il drappo tricolore discendere lungo l'asta e ripiegarsi, come un sogno eroico che si dilegui. Il silenzio per qualche attimo parve più profondo, mentre la gondola scivolava nell'ombra più cupa rasentando il fianco del colosso armato.

— Conoscete voi, Perdita, — chiese inaspettatamente Stelio Èffrena — quella Donatella Arvale che canterà nell'Arianna!

La sua voce ebbe una sonorità singolare ripercotendosi contro la corazza, nell'ombra più cupa.

— È la figlia del grande scultore: di Lorenzo Arvale — rispose la Foscarina, dopo un istante d'indugio. — È una delle mie più care amiche, ed è anche mia ospite. La incontrerete dunque nella mia casa, dopo la festa.

— Mi parlò di lei iersera Donna Andriana, con molto calore, come d'un prodigio. Mi disse che l'idea di disseppellire l’Arianna le venne appunto nel sentire cantare da Donatella Arvale divinamente l'aria “Come mai puoi — Vedermi piangere...” Avremo dunque una musica divina nella vostra casa, Perdita. Ah, che sete io ne ho! Laggiù, nella mia solitudine, per lunghi mesi non ascolto altra musica che quella del mare, troppo terribile, e la mia, troppo torbida ancora.

Le campane di San Marco diedero il segno della Salutazione angelica; e il rombo possente si dilatò in lunghe onde su lo specchio del bacino, vibrò nelle antenne dei navigli, si propagò lontano verso la laguna infinita. Da San Giorgio Maggiore, da San Giorgio dei Greci, da San Giorgio degli Schiavoni, da San Giovanni in Bragora, da San Moisé, dalla Salute, dal Redentore e via via, per tutto il dominio dell'Evangelista, dalle estreme torri della Madonna dell'Orto, di San Giobbe, di Sant'Andrea le voci di bronzo risposero, si confusero in un solo massimo coro, distesero sul muto adunamento delle pietre e delle acque una sola massima cupola d'invisibile metallo che parve comunicare nelle sue vibrazioni con lo scintillio delle prime stelle. Una smisurata grandezza ideale davano le sacre voci alla Città del Silenzio, nella purità della sera. Partendo dai fastigi dei templi, dalle ardue celle aperte ai venti marini, esse dicevano agli uomini ansiosi la parola della moltitudine immortale che occultavano ormai le tenebre delle navate profonde o agitavano misteriosamente i chiarori delle lampade votive; esse recavano agli spiriti affaticati dal giorno il messaggio delle creature sovrumane che annunciavano un prodigio o promettevano un mondo effigiate su le pareti delle cappelle recondite, nelle ancone degli interni altari. E tutte le apparizioni della Bellezza consolatrice invocate dalla Preghiera unanime si levavano su quell'immenso turbine di suono, favellavano in quel coro aereo, irradiavano la faccia della notte meravigliosa.

— Potete ancora pregare? — domandò Stelio sommessamente, guardando le palpebre della donna abbassate e immote, le mani su i ginocchi congiunte, tutta la persona raccolta in un atto interiore.

Ella non rispose; chè anzi le sue labbra si serrarono più forte. Ed entrambi rimasero in ascolto, sentendo sopraggiungere ancora l'ansia e la piena come il fiume che non più interrotto dalla cateratta riprende il suo corso veloce. Entrambi avevano una conscienza confusa, e pur quasi grave, dello strano intervallo in cui era sorta inaspettatamente tra loro una nuova imagine ed era stato proferito un nome nuovo. Il fantasma della sensazione subitanea ch'essi avevano ricevuta entrando nell'ombra prodotta dal fianco della nave munita pareva esser rimasto in loro come un ingombro isolato, come un punto indistinto e tuttavia persistente, intorno al quale era una specie di vacuità inesplorabile. L'ansia e la piena li riprendevano ora all'improvviso; e li gettavano l'un verso l'altra, li mescolavano con tanta veemenza che essi non ardivano di guardarsi nelle pupille per tema di scorgervi una cupidigia troppo brutale.

— Non ci rivedremo stasera, dopo la festa? — chiese la Foscarina, con un tremito nella voce spenta. — Non siete libero?

Ella si affrettava ora a trattenerlo, a farlo prigione, come se egli fosse per isfuggirle, come se ella sperasse di poter trovare in quella notte un qualche filtro per legarlo a sé ultimamente. E, mentre sentiva che il dono del suo corpo era divenuto ormai necessario, tuttavia con un'atroce lucidità a traverso la fiamma da cui era compresa ella riconosceva la miseria di quel dono per così lungo tempo negato. E un pudore doloroso, misto di paura e di orgoglio, pareva contrarle le membra disfiorite.

— Sono libero; sono vostro — rispose il giovine, a voce bassa, senza guardarla. — Voi sapete che nulla vale per me quel che voi potete darmi.

Anch'egli tremava nell'intimo cuore, avendo innanzi a sé le due mire verso di cui si tendeva in quella sera la sua forza come un arco: — la città e la donna, entrambe tentatrici e profonde, e stanche d'aver troppo vissuto, e gravi di troppi amori, e troppo da lui magnificate nel sogno, e destinate a deludere la sua aspettazione.

Per qualche attimo la sua anima restò sopraffatta da un'onda violenta di rammarichi e di desiderii. L'orgoglio e l'ebrezza del suo duro e pertinace lavoro, la sua ambizione senza freno e senza limiti constretta in un campo troppo angusto, la sua insofferenza acerrima della vita mediocre, la sua pretesa ai privilegi dei principi, il gusto dissimulato dell'azione ond'era spinto verso la folla come verso la preda preferibile, il sogno d'un'arte più grande e più imperiosa che fosse a un tempo nelle sue mani segnale di luce e stromento di soggezione, tutti i suoi sogni superbi e purpurei, tutti i suoi bisogni insaziabili di predominio di gloria e di piacere insorsero e tumultuarono in confuso abbagliandolo soffocandolo. E una pesante tristezza lo inclinò verso l'estremo amore di quella donna solitaria e nomade che pareva portare per lui nelle pieghe delle sue vesti raccolta e muta la frenesia delle moltitudini lontane dalla cui bestialità compatta ella aveva sollevato il brivido fulmineo e divino dell'arte con un grido di passione o con uno schianto di dolore o con un silenzio di morte; una torbida brama lo piegò verso quella donna sapiente e disperata in cui egli credeva scoprire i vestigi di tutte le voluttà e di tutti gli spasimi, verso quel corpo non più giovine, ammollito da tutte le carezze e rimasto ancora sconosciuto per lui.

— Una promessa? — soggiunse egli a capo chino, tutto in sé ristretto per contenere la sua agitazione. — Ah, finalmente!

Ella non rispose; ma fissò su di lui uno sguardo acceso da un ardore quasi folle, ch'egli non vide.

E rimasero in silenzio, mentre il rombo del bronzo passava su le loro teste così forte ch'essi credevano sentirlo nelle radici dei capelli come un brivido della carne loro.

— Addio — disse ella, presso all'approdo. — Ci ritroveremo, uscendo nel cortile, al secondo pozzo, dalla parte del Molo.

— Addio — disse egli. — Fate che io vi scorga tra la folla, quando starò per proferire la prima parola.

Un clamore confuso giunse da San Marco sul suono delle campane, si propagò per la Piazzetta, si dileguò verso la Fortuna.

Tutta la luce su la vostra fronte, Stelio! — augurò la donna tendendogli appassionatamente le sue aride mani.

Quando Stelio Èffrena entrò nel cortile per la porta meridionale, vedendo la Scala dei Giganti invasa dalla nera e bianca moltitudine che brulicava al lume rossastro delle fiaccole infisse nei candelabri di ferro, ebbe un moto subitaneo di ripugnanza e si soffermò nell'androne; perchè sentì stridere acutamente il contrasto fra quella meschina gente intrusa e gli aspetti di quelle architetture dall'insolito lume notturno magnificati, in cui s'esprimevano con sì varie armonie la forza e la bellezza della vita anteriore.

— Oh miseria! — esclamò volgendosi agli amici che l'accompagnavano. — Nella Sala del Gran Consiglio, dal palco del Doge, trovare qualche metafora per commuovere mille petti inamidati! Torniamo indietro: andiamo a sentir l'odore dell'altra folla, della folla vera. La Regina non è ancora escita dal Palazzo reale. Abbiamo tempo.

— Finché non ti vedrò sul palco — disse ridendo Francesco de Lizo — non sarò sicuro che tu parlerai.

— Credo che Stelio preferirebbe al palco la loggia: arringare tra le due colonne sanguigne il popolo ammutinato che minacciasse d'appiccare il fuoco alle Procuratie nuove e alla Libreria vecchia — disse Piero Martello volendo lusingare nel maestro il gusto della sedizione e lo spirito fazioso ch'egli medesimo affettava per imitarlo.

— Sì, certo — disse Stelio — se l'arringa valesse a impedire o a precipitare un atto irreparabile. Io comprendo che la parola scritta sia adoperata a creare una pura forma di bellezza che il libro intonso contiene e chiude come un tabernacolo a cui non si accede se non per elezione con quella stessa determinata volontà che è necessaria ad infrangere un suggello; ma mi sembra che la parola orale, rivolta in modo diretto a una moltitudine, non debba aver per fine se non l'azione, e sia pure un'azione violenta. A questo solo patto uno spirito un po' fiero può, senza diminuirsi, comunicare con la folla per le virtù sensuali della voce e del gesto. In ogni altro caso il suo gioco è di natura istrionica. Per ciò io mi pento amaramente d'aver accettato questo ufficio di oratore ornativo e dilettoso. Ciascuno di voi consideri quel che v'è di umiliante, per me, nell'onoranza di cui son fatto segno e consideri l'inutilità del mio prossimo sforzo. Tutta questa gente estranea, tolta per una sera alle sue occupazioni mediocri o alle sue predilette ricreazioni, viene ad ascoltarmi con la stessa curiosità futile e stupida con cui andrebbe ad ascoltare un qualunque “virtuoso”. Per le uditrici l'arte con cui è composto il nodo della mia cravatta sarà assai più apprezzabile dell'arte con cui coordinerò le mie frasi. E, in fondo, l'unico effetto del mio discorso sarà probabilmente un battimano con la sordina dei guanti o un breve mormorio discreto, a cui risponderò con un inchino piacevole. Non vi sembra che io stia per toccare l'ultimo termine della mia ambizione?

— Hai torto — disse Francesco de Lizo. — Tu devi congratularti teco perchè sei riuscito a imprimere per qualche ora il ritmo dell'arte alla vita d'una città immemore e a farci intravedere di quali splendori potrebbe abbellire la nostra esistenza il rinnovato connubio dell'Arte con la Vita. L'uomo che inalzò il Teatro di Festa, se fosse presente, ti loderebbe per questa armonia ch'egli ha annunziata. Ma il mirabile è che — te assente e ignaro — la festa sembra sia stata disposta secondo la guida del tuo spirito, secondo una tua ispirazione, un tuo disegno. Ecco la prova migliore della possibilità di restaurare e diffondere il gusto, pur tra la presente barbarie. La tua influenza oggi è più profonda che tu non creda. La signora che ha voluto festeggiarti — quella che tu chiami la Dogaressa — ad ogni nuova idea che le sorgeva nella mente, si domandava: “Piacerà a Stelio Èffrena?”. Se tu sapessi quanti oggi, tra i giovani, fanno a sé medesimi una simile domanda nel considerare gli aspetti della loro vita interiore!

— Per chi, se non per questi, tu parlerai? — disse Daniele Glàuro, il fervido e sterile asceta della Bellezza, con quella sua voce spiritale in cui pareva riflettersi l'ardor bianco e inestinguibile della sua anima che il maestro prediligeva come la più fedele. — Se quando sarai sul palco ti guarderai intorrno, tu li riconoscerai facilmente dall'espressione dei loro occhi. E sono numerosissimi: molti venuti anche di lontano: e aspettano con un'ansietà che tu forse non puoi comprendere. Sono tutti quelli che hanno bevuta la tua poesia, che hanno respirato nell'etere infiammato del tuo sogno, che hanno provato l'artiglio della tua chimera. Sono tutti quelli a cui tu hai promesso una vita più bella e più forte, tutti quelli a cui tu hai annunziato la trasfigurazione del mondo pel prodigio di un'arte nuova. Sono molti, sono molti quelli che tu hai sedotti con la tua speranza e con la tua gioia. Ora essi hanno sentito dire che tu parlerai a Venezia, nel Palazzo Ducale, in uno dei luoghi più gloriosi e più splendidi che sieno su la terra! Essi ti potranno dunque vedere e ascoltare per la prima volta circondato di quella magnificenza inestimabile che sembra a loro il quadro appropriato alla tua natura. Il vecchio Palazzo dei Dogi, rimasto nelle tenebre per tante e tante notti, ora s'illumina d'improvviso e rivive. Tu solo, per loro, hai avuto il potere di riaccendere le fiaccole. Comprendi dunque la loro ansietà? E non ti sembra che tu debba parlare soltanto per loro? La condizione da te posta, per colui che parla a molti, può essere adempiuta. Tu puoi sollevare nelle loro anime un moto veemente che le volga e le protenda per sempre verso l'Ideale. Per quanti di loro, Stelio, potrà essere indimenticabile questa notte veneziana!

Stelio pose la sua mano su le spalle precocemente incurvate del dottor mistico e ripetè sorridendo le parole del Petrarca: — Non ego loquar omnibus, sed tibi sed mihi et his...

Egli vedeva dentro di sé risplendere gli occhi dei discepoli sconosciuti; e sentiva ora dentro di sé con perfetta chiarezza, come una modalità tonica, l'accento del suo esordio.

— Tuttavia, — soggiunse gaiamente volgendosi a Piero Martello — suscitare una tempesta in questo mare sarebbe cosa più allegra.

Essi erano presso il pilastro angolare del portico, a contatto con la folla unanime e strepitosa che s'addensava nella Piazzetta, si prolungava verso la Zecca, s'ingolfava per le Procuratie, abbarrava la Torre dell'Orologio, occupava tutti gli spazii come l'onda informe, comunicava il suo calore vivo al marmo delle colonne e delle mura premute con violenza nel suo continuo rigurgito. Di tratto in tratto un clamore più forte si levava lontano, dall'estremità della Piazza, propagandosi; e talora andava crescendo di forza finché scoppiava da vicino come un tuono, e talora andava diminuendo finché spirava da vicino come un murmure. Gli archivolti, le logge, le guglie, le cupole della Basilica d'oro, l'attico della Loggetta, le trabeazioni della Biblioteca risplendevano di fiammelle innumerevoli; e la piramide del Campanile eccelsa, scintillando con le costellazioni silenziose nel seno della notte, evocava su la moltitudine ebra di clamore l'immensità del silenzio celeste, il navigante dell'estrema laguna a cui quella luce appariva come un nuovo faro, il ritmo d'un remo solitario che moveva su l'acqua dormente il riflesso degli astri, la pace sacra che raccoglievano le mura d'un convento insulare.

Vorrei trovarmi stanotte per la prima volta con la donna che desidero, di là dai Giardini, verso il Lido, in un letto galleggiante — disse il poeta erotico Paris Eglano, un giovine biondo imberbe che aveva una bella bocca porporina e vorace a contrasto con la delicatezza quasi angelica dei suoi lineamenti. — Fra un'ora Venezia offrirà a qualche amante neroniano celato in un felze lo spettacolo dionisiaco d'una città che s'incendia delirando.

Stelio sorrise nel notare fino a qual punto i suoi prossimi fossero impregnati della sua essenza e come profondamente il suggello del suo stile fosse rimasto impresso su quegli intelletti. L'imagine della Foscarina balenò al suo desiderio, avvelenata dall'arte, carica di sapere voluttuoso, col gusto della maturità e della corruzione nella bocca eloquente, con l'aridezza della vana febbre nelle mani che avevano spremuto il succo dei frutti ingannevoli, con i vestigi di cento maschere sul viso che aveva simulato il furore delle passioni mortali. Così egli la fingeva al suo desiderio; e palpitava pensando che fra breve l'avrebbe veduta emergere dalla folla come dall'elemento a cui ell'era asservita e avrebbe attinto dallo sguardo di lei l'ebrezza necessaria.

— Andiamo — disse pronto agli amici. — È tempo.

Un colpo di cannone annunziava che la Regina era uscita dalla Reggia. Un lungo fremito corse per la viva massa umana, simile a quello che sul mare precede la raffica. Dalla riva di San Giorgio Maggiore un razzo partì con un sibilo veemente, si levò diritto nell'aria come uno stelo di fuoco, gittò in sommo una tonante rosa di splendori; poi si piegò, si diradò, si disperse in faville tremule, si spense con un crepitio sordo su l'acqua. E l'acclamazione gioiosa verso la bella donna incoronata — il nome del bianco fiore stellare e della perla purissima ripetuto in un grido unanime di amore agli echi del marmo — evocò la pompa dell'antica Promissione, il corteo trionfale delle Arti accompagnante al Palazzo la Dogaressa novella, l'immensa onda di allegrezza su cui Morosina Grimani trasvolava al trono splendendo nel suo oro mentre tutte le Arti si chinavano a lei cariche di doni come le cornucopie.

— Certo — disse Francesco de Lizo — la Regina, se ama i tuoi libri, stasera porta al collo tutte le sue perle. Tu avrai dinanzi a te un roveto di gemme: tutti i gioielli ereditarii del patriziato veneto.

— Guarda, Stelio, a piè della Scala — disse Daniele Glàuro. — V'è un gruppo di fanatici che t'aspetta al passaggio.

Stelio si soffermò al pozzo indicato dalla Foscarina; si chinò sul margine di bronzo, sentendo contro le sue ginocchia i rilievi delle piccole cariatidi, e scorse nel cupo specchio interiore il riflesso vago delle lontane stelle. Per qualche attimo la sua anima si isolò, si fece sorda ai rumori circostanti, si raccolse in quel cerchio di ombra donde saliva un tenue gelo che rivelava la muta presenza dell'acqua; e sentì la fatica della sua tensione e il desiderio d'essere altrove e il bisogno indistinto di trascendere pur quell'ebrezza che le ore notturne gli promettevano e, nell'ultima profondità del suo essere, un'anima segreta che a simiglianza di quello specchio d'acqua rimaneva immota estranea ed intangibile.

— Che vedi? — gli chiese Piero Martello chinandosi anch'egli sul margine consunto dalle funi delle secchie secolari.

— Il volto della Verità — rispose il maestro.

Nelle stanze attigue alla Sala del Maggior Consiglio, un tempo abitate dal Doge, ora dalle statue pagane comprese negli antichi bottini di guerra, Stelio Èffrena attendeva l'avviso del cerimoniere per comparire sul palco. Egli sorrideva calmo agli amici che gli parlavano, ma le loro parole gli giungevano all'orecchio come i suoni interrotti che reca il vento da lungi tra l'una e l'altra pausa. Di tratto in tratto, per un moto che rivelavasi involontario dall'impeto soverchio, s'accostava a una statua e la palpava con la mano convulsa come se volesse cercarvi un punto debole per spezzarla; o si chinava su una medaglia intentamente come per leggervi un segno indecifrabile. Ma i suoi occhi non vedevano perchè il loro sguardo era rivolto in dentro, là dove la potenza moltiplicata della volontà suscitava le forme silenziose che dovevano raggiungere nella voce fluente la perfezione della musica verbale. Tutto il suo essere contraevasi nello sforzo di elevare al grado massimo dell'intensità la rappresentazione del sentimento singolare che lo possedeva. Poichè egli non poteva parlare se non di sé e del suo mondo, egli voleva almeno raccogliere in una figura ideale le qualità più fulgide e più speciose della sua arte e significare per imagini agli spiriti seguaci da qual forza invincibile di desiderio egli fosse lanciato a traverso la vita. Anche una volta egli voleva mostrare a costoro che, per ottener la vittoria su gli uomini e su le cose, nulla vale quanto la costanza nell'esaltar sé medesimo e nel magnificare il suo proprio sogno di bellezza o di dominazione.

Chino su una medaglia del Pisanello, egli sentiva nelle tempie ardenti battere con incredibile rapidità il polso del suo pensiero.

— Vedi, Stelio, — gli disse Daniele Glàuro in disparte con quella pia reverenza che gli velava la voce quando egli parlava della sua religione — vedi come operino su te le affinità misteriose dell'Arte e come da un infallibile istinto il tuo pensiero in punto di manifestarsi sia condotto, fra tante forme, verso l'esemplare della più esatta espressione, verso l'impronta del più alto stile. Dovendo coniare la tua idea, tu t'inchini per similitudine su una medaglia del Pisanello, tu t'incontri col segno di colui che fu uno tra i più grandi stilisti apparsi nel mondo: l'anima più schiettamente ellenica di tutto il Rinascimento. Ed ecco che la tua fronte è subito segnata da una nota di luce.

Era nel puro bronzo l'effigie di un giovine dalla bella chioma ondosa, dal profilo imperiale, dal collo apollineo, sovrano tipo di eleganza e di vigore, così perfetto che l’imaginazione non poteva rappresentarselo nella vita se non immune da ogni decadenza e immutabile come l'artefice lo aveva chiuso nel cerchio di quel metallo per l'eternità. — Dux equitum praestans Malatesta Novellus Cesenae dominus. Opus Pisani pictoris. — E accanto v'era un'altra medaglia, di mano del medesimo creatore, che recava l'effigie di una vergine dal petto esile, dal collo di cigno, dalla capellatura raccolta indietro a guisa di borsa grave, dalla fronte alta e sfuggente già promessa all'aureola della beatitudine: vaso di purità suggellato per sempre, duro, preciso e limpido come il diamante; pisside adamantina in cui era custodita un'anima consacrata come l'ostia al sacrifizio. Cicilia Virgo filia Iohannis Francisci primi Marchionis Mantuae.

— Vedi — soggiunse il sottile esegeta indicando le due rarissime impronte — vedi come il Pisanello sapesse cogliere con mano egualmente portentosa il più superbo fiore della vita e il più puro fiore della morte. Ecco l'imagine del desiderio profano e l'imagine dell'aspirazione sacra, nel medesimo bronzo, fissate entrambe nella medesima idealità dello stile. Non riconosci tu qui le analogie che congiungono a quest'arte la tua propria arte? Quando la tua Persefone spicca dal melagrano infernale il frutto gravido per aprirlo, v'è pur nel suo bel gesto di cupidigia qualche cosa di mistico poichè ella infatti nel fendere la scorza per mangiare i granelli inconsapevole determinerà il suo destino. L'ombra del mistero accompagna dunque il suo atto sensuale. Ecco che tu hai significato il carattere di tutta quanta la tua opera! Nessuna sensualità è più ardente della tua; ma i tuoi sensi sono così acuti che godendo delle apparenze penetrano fin nel più profondo e incontrano il mistero e ne rabbrividiscono. La tua visione si prolunga oltre il velo su cui la vita dipinge le sue figure voluttuose nelle quali tu ti compiaci. Così conciliando in te quel che sembra inconciliabile, confondendo in te senza sforzo i due termini dell'antitesi, dai oggi l'esempio d'una vita completa e strapotente. Bisogna che tu faccia sentir questo a chi t'ascolta; poichè questo, sopra tutto, importa che sia riconosciuto per la tua gloria.

Ed egli aveva celebrato il connubio ideale tra quel fìerissimo Malatesta duce dei cavalieri e la beata vergine mantovana Cecilia Gonzaga, con la stessa fede con cui il buon sacerdote officia dinanzi all'altare. E per quella fede lo amava Stelio, e perchè in nessun altro egli sentiva più profonda e più sincera la credenza nella realità del mondo poetico; e infine perchè in lui spesso egli ritrovava una specie di conscienza rivelatrice e nel comento di lui talvolta una illuminazione impreveduta della sua propria opera.

— Entra la Foscarina con Donatella Arvale — annunciò Francesco de Lizo, il quale stava osservando il passaggio della folla che saliva per la Scala dei Censori e si accalcava nell'aula immensa

E allora Stelio Èffrena fu ripreso dall'ansia. E udiva il mormorio della moltitudine confondersi nell'orecchio col battito delle sue arterie come in una lontananza indefinita, e ritornare su quel rombo le ultime parole di Perdita.

Il mormorio si elevò, si attenuò, cessò mentre egli saliva con passo fermo e leggero i gradini del palco. Volgendosi verso la folla, egli travide con occhi abbagliati il mostro formidabile dagli innumerevoli volti umani fra l'oro e la porpora cupa dell'aula immensa.

Una subitanea sollevazione d'orgoglio lo aiutò a riprendere il dominio di sé stesso. S'inchinò alla Regina e a Donna Andriana Duodo, che gli sorrisero de' loro sorrisi gemelli come sul Canal Grande dalla bissona fuggente. Acuì lo sguardo per riconoscere la Foscarina nello scintillio delle prime file; percorse tutta l'accolta sino al fondo ove non appariva se non una zona oscura cosparsa di vaghe macchie pallide. E allora la moltitudine ammutolita e aspettante gli si presentò a imagine d'una smisurata chimera occhiuta dal busto coperto di scaglie splendide, che s'allungava nereggiando sotto le enormi volute d'un cielo ricco e greve come un pensile tesoro.

Splendidissimo era quel busto chimerico, su cui brillava certo qualche monile che aveva già dato i suoi fochi sotto il medesimo cielo nel convito notturno di una Incoronazione. Il diadema e le collane della Regina — le collane molteplici di perle digradanti in acini di luce che facevano pensare a un miracoloso granire visibile del sorriso imminente —, i cupi smeraldi di Andriana Duodo già strappati all'elsa di una scimitarra crudele, i rubini di Giustiniana Memo legati in foggia di garofani dall'inimitabile lavoro di Vettor Camelio, gli zaffiri di Lucrezia Priuli tolti agli alti zoccoli su cui la Serenissima Zilia aveva incesso verso il trono nel giorno del suo trionfo, i berilli di Orsetta Contarmi così delicatamente misti all'opaco oro dall'arte di Silvestre Grifo, le turchesi di Zenobia Corner soffuse di non mai veduti pallori dal misterioso male che le aveva mutate una notte sul seno madido della Lusignana tra i piaceri di Asolo: i più insigni gioielli che avevano illustrato le feste secolari della Città anadiomene, tutti s'accendevano di nuovi bagliori su quel busto chimerico donde giungeva a Stelio il tiepido effluvio della pelle e dell'alito feminile. Stranamente maculato il resto del corpo difforme stendevasi indietro, quasi con un prolungamento caudale, passando tra i due giganteschi mappamondi che richiamavano alla memoria dell'Imaginifico le due sfere di bronzo cui il mostro bendato preme con le zampe leonine nell'allegoria del Giambellino. E la vasta vita animale, cieca di pensiero innanzi a colui che solo in quell'ora doveva pensare, dotata di quel fascino inerte che è negli idoli enigmatici, coperta dal suo proprio silenzio come da uno scudo capace di raccogliere e di respingere ogni vibrazione, aspettava il primo fremito dalla parola dominatrice.

Stelio Èffrena misurò il silenzio in cui la sua prima sillaba avrebbe potuto tremare. Mentre la voce gli saliva alle labbra condotta e affermata dalla volontà contro il turbamento istintivo, egli scorse la Foscarina diritta in piedi presso la ringhiera che circondava il globo celeste. Il volto pallidissimo della Tragica, sul collo privo di gioielli e su la purezza delle spalle nude, levavasi nell'orbe dei segni zodiacali. Stelio ammirò l'arte di quell'apparizione. Fissando i lontani occhi adoratori, egli cominciò a parlare con estrema lentezza, quasi che avesse ancor nell'orecchio il ritmo del remo.

“Io pensava in un pomeriggio recente — tornando dai Giardini per quella tiepida riva degli Schiavoni che all'anima dei poeti vaganti potè sembrar talvolta non so qual magico ponte d'oro prolungato su un mare di luce e di silenzio verso un sogno di Bellezza infinito — io pensava, anzi assisteva nel mio pensiero come a un intimo spettacolo, alla nuziale alleanza dell'Autunno e di Venezia sotto i cieli.

“Era per ovunque diffuso uno spirito di vita, fatto d'aspettazione appassionata e di contenuto ardore; che mi stupiva per la sua veemenza ma che pur non mi sembrava nuovo poichè io l'aveva già trovato raccolto in qualche zona d'ombra, sotto l'immobilità quasi mortale dell'Estate, e l'aveva anche sentito fra lo strano odor febrile dell'acqua vibrar quivi a quando a quando come un polso misterioso. — Così, veramente, — io pensava — questa pura Città d'arte aspira a una suprema condizione di bellezza, che è per lei un annuale ritorno come per la selva il dar fiori. Ella tende a rivelar sé medesima in una piena armonia quasi che sempre ella porti in sé possente e consapevole quella volontà di perfezione da cui nacque e si formò nei secoli come una creatura divina. Sotto l'immobile fuoco dei cieli estivi, ella pareva senza palpito e senza respiro, morta nelle sue verdi acque; ma non m'ingannò il mio sentimento quando io la indovinai travagliata in segreto da uno spirito di vita bastevole a rinnovare il più alto degli antichi prodigi.

“Questo io pensava, assistendo allo spettacolo incomparabile che per un dono di amore e di poesia io poteva contemplare con occhi attentissimi la cui vista mi si mutava in visione profonda e continua... Ma con qual virtù potrò io mai comunicare a chi m'ascolta questa mia visione di bellezza e di gioia? Non v'è aurora e non v'è tramonto che valgano una simile ora di luce su le pietre e su le acque. Né subito apparire di donna amata in foresta di primavera è inebriante così come quella impreveduta rivelazione diurna della Città eroica e voluttuosa che portò e soffocò nelle sue braccia di marmo il più ricco sogno dell'anima latina.”

La voce dell'oratore, chiara e penetrante e quasi gelida sul principio, pareva essersi di sùbito accesa alle faville invisibili che doveva suscitar dal cervello lo sforzo dell'improvvisazione regolato con acutissima vigilanza dall'orecchio difficile. Mentre le parole fluivano senza impedimento e la linea ritmica del periodo si chiudeva a similitudine d'una figura disegnata con un sol tratto da una mano libera, gli ascoltatori sentivano sotto quella fluidità armoniosa l'eccesso della tensione che tormentava quello spirito e n'erano presi come da uno di quei fieri giochi circensi in cui tutte le energie erculee di un atleta si palesano vibrando nelle corde dei tendini e gonfiando le trame delle arterie. Sentivano essi quanto eravi di vivo e di caldo e d'immediato nel pensiero così espresso; e il lor godimento era più forte perchè inatteso, attendendo ognuno da quell'infaticabile ricercatore di perfezioni la lettura studiata d'un discorso laboriosamente composto. I devoti assistevano con una commozione profonda a quella prova audace, quasi che essi avessero dinanzi a loro svelato il lavorio misterioso ond'eran sorte le forme da cui avevan ricevuto tanti doni di gioia. E quel moto iniziale, diffuso per contagio, indefinitamente moltiplicato nel numero e divenuto unanime, si ripercosse in colui che l'aveva prodotto; parve sopraffarlo.

Era il pericolo preveduto. Egli vacillò come sotto l'urto di un'onda troppo vasta. E per qualche attimo una densa oscurità occupò il suo cervello; la luce del suo pensiero si estinse come una face al soffio d'un vento irresistibile; i suoi occhi si velarono come sul principio della vertigine. Egli sentì qual sarebbe stata l'onta della disfatta, se avesse ceduto a quello smarrimento e la sua volontà con una specie di percossa cruda, come l'acciaro dalla selce, suscitò in quel buio la scintilla nuova.

Col suo sguardo e col suo gesto egli sollevò l'anima della folla verso il capolavoro che spandeva nel cielo dell'aula una irradiazione solare.

“Io sono certo” esclamò “io sono certo che in tale aspetto ella apparve a Paolo mentre colui cercava dentro di sé l'imagine della Regina trionfale. Ah io sono certo ch'egli ne tremò nell'intime vene e piegò i ginocchi, in atto di chi adora percosso e abbacinato dal miracolo. E quando volle dipingerla in questo firmamento per manifestare agli uomini la sua meraviglia, egli — il prodigo artefice che parve aver raccolto in sé tutte le imaginazioni dei satrapi più sfrenate, il poeta magnifico ch'ebbe l'anima simile a quel fiume lidio dagli Elleni armoniosi nomato Crisorroa, fuor de' cui gorghi auriferi era sorta una dinastia di re carichi d'una opulenza inaudita — egli, il Veronese, profuse l'oro, le gemme, lo sciamito, la porpora, l'ermellino, tutte le sontuosità, ma non potè rappresentare il volto glorioso se non in un nimbo di ombra.

“Sol per quell'ombra bisogna levare al cielo il Veronese!

“Tutto il mistero e tutto il fascino di Venezia sono in quell'ombra palpitante e fluida, breve e pure infinita, composta di cose viventi ma inconoscibili, dotata di virtù portentose come quella degli antri favoleggiati, dove le gemme hanno uno sguardo; e dove taluno potè trovare nel tempo medesimo, in una sensazione indicibilmente ambigua, la freschezza e l'ardore. Bisogna esaltare il Veronese per questo. Raffigurando in sembianze umane la Città dominatrice, egli seppe esprimerne lo spirito essenziale: che non è — in simbolo — se non una fiamma inestinguibile a traverso un velo d'acqua. E io so di taluno che, avendo lungamente immerso la sua anima in quella zona sublime, la ritrasse accresciuta d'una nova potenza e trattò indi con mani più ardenti la sua arte e la sua vita.”

Non egli era quell'uno? In tale affermazione di sé egli parve ritrovare tutta la sua sicurezza e sentirsi ormai signore del suo pensiero e della sua parola, fuor del pericolo, atto a trascinar nei cerchi del suo sogno la smisurata chimera occhiuta dal busto coperto di scaglie splendide, il mostro efimero e versatile fuor del cui fianco emergeva filialmente la musa tragica dal capo alzato nell'orbe delle costellazioni.

Obbedendo al suo gesto, i volti innumerevoli si levavano verso l'Apoteosi, gli occhi sbendati guardavano con stupore il prodigio, quasi lo vedessero per la prima volta o lo vedessero in un aspetto non conosciuto prima. Il gran dorso ignudo della donna dal casco d'oro rifulgeva su la nuvola con un sì forte rilievo di vita muscolare che tentava come una carne palpabile. E da quella nudità vivace sopra tutte le cose, vincitrice del tempo che aveva oscurato sotto di lei le imagini eroiche degli assedii e delle battaglie, pareva diffondersi un incantesimo venereo che i soffii della notte autunnale alitanti per i veroni aperti rendevano più dolce, quasi l'agitassero come l'onda dell'odore accolta intorno al roseto odorifero; mentre le principesse di quell'alta corte, chine dai balaustri fra le due tortili colonne, inclinavano i volti accesi e i seni opulenti verso le loro ultime mondane sorelle.

Nell'incantesimo il poeta gettò allora i suoi periodi armonizzati come strofe liriche.

“Ben tale fiamma io sentiva, ieri, assorgere alla veemenza estrema e infondere nella bellezza di Venezia una forza d'espressione non mai veduta prima. Tutta la Città ai miei occhi si accendeva di desiderio e palpitava di ansia nelle sue mille cinture verdi, come l'amante che aspetta la sua ora di gioia. Ella tendeva le sue braccia marmoree verso il selvaggio Autunno di cui giungevale l'umido alito profumato dalla morte deliziosa delle campagne lontane. Ella spiava i vapori leggeri che sorgevano dal limite della laguna muta e parevano avvicinarlesi in aspetto di messaggi furtivi. Ella ascoltava intentissima nel silenzio da lei medesima generato i più tenui romori; e il soffio del vento fuggevole nei suoi orti rari aveva per lei un prolungamento musicale fuor delle chiostre. Una specie di stupore si raccoglieva intorno ai solinghi alberi prigionieri che trascolorivano splendendo come se conflagrassero. La foglia arida caduta su la pietra consunta della proda brillava come una cosa preziosa; in cima al muro ornato dai licheni biondi il frutto del melagrano gonfio di maturità si fendeva subitamente come una bella bocca sforzata dall'impeto di un riso cordiale; una barca passava lenta e grande, colma di grappoli come il tino che sta per essere premuto, diffondendo su l'acqua ingombra d'alghe morte l'ebrietà aerea della vendemmia e la visione delle vigne solatie frequenti di giovinezze canore. Tutte le cose avevano una eloquenza profonda, come se un segno invisibile aderisse al loro aspetto visibile e per un divino privilegio élleno vivessero nella superiore verità dell'arte.

“Sicuramente dunque — io pensava — sicuramente è nella Città di pietra e d'acqua, come nello spirito di un artefice puro, una aspirazione spontanea e costante verso ideali armonie. Una specie di intelligenza ritmica e fittiva sembra elaborarne studiosamente le rappresentazioni come per renderle conformi a un'idea e convergerle a un fine meditato. Sembra ch'ella possegga mani meravigliose per comporre le sue luci e le sue ombre in una continua opera di bellezza; e ch'ella sogni fornendo il suo lavoro e dal suo sogno medesimo — ove il molteplice retaggio dei secoli splende trasfigurato — ella tragga il tessuto d'allegorie inimitabile che la ricopre. E, poichè sola nell'universo la poesia è verità, quegli che sa contemplarla e attrarla in sé con le virtù del pensiero, quegli è presso a conoscere il segreto della vittoria su la vita.”

Aveva cercato gli occhi di Daniele Glàuro nel proferire le ultime parole, e li aveva veduti brillare di felicità sotto quella enorme fronte meditativa che pareva gonfia d'un mondo non partorito. Il dottor mistico era là, vicino, con la sua schiera: con alcuni di quei discepoli sconosciuti ch'egli aveva rappresentati al maestro avidi e ansiosi, pieni di fede e di aspettazione, anelanti a infrangere l'angustia della lor servitù cotidiana e a conoscere qualche libera ebrezza di gioia e di dolore. Stelio li vedeva là stretti in gruppo, come un nucleo di forze compresse, addossati ai grandi armarii rossastri ove stavano sepolti gli innumerevoli volumi d'una sapienza obliata e inerte. Ne distingueva i volti accesi e intenti, le capellature folte e prolisse, le bocche dischiuse in uno stupore puerile o serrate con una sorta di violenza sensitiva, gli occhi chiari o bruni su cui il soffio delle parole sembrava alternare le luci e le ombre come la vicenda delle aure su un'accolta di delicati fiori. Egli credeva di avere le loro anime confuse in una sotto la sua mano e di poter agitare queir una o stringerla nel pugno o lacerarla o bruciarla come un leggero vessillo. Mentre il suo spirito tendevasi e distendevasi così gagliardamente in quel continuo scoccare, pur gli rimaneva una strana lucidità d'indagine esteriore, quasi una separata facoltà di osservazione materiale; che sembrava farsi sempre più acuta e più netta, come più s'accelerava e s'accendeva la sua eloquenza. Egli sentiva a poco a poco il suo sforzo divenire più facile e l'efficacia della sua volontà essere sopravvanzata da una energia libera e oscura come un istinto, sorta dalle profondità della sua inconsapevolezza e operante con un processo occulto non verificabile. Per analogia, egli si ricordava dei momenti straordinarii in cui — nel silenzio e nel calore intellettuale della sua stanza remota — la mano aveva scritto su la pagina un verso eterno ch'eragli parso non nato dal suo cervello ma dettato da un nume impetuoso a cui l'organo inconscio avesse obbedito come un cieco istrumento. Una meraviglia non dissimile a quella svegliavasi ora in lui, quando il suo orecchio era sorpreso da una cadenza impreveduta delle parole che proferivano le sue labbra. Nella comunione tra la sua anima e l'anima della folla un mistero sopravveniva, quasi divino. Qualche cosa di più grande e di più forte aggiunge vasi al sentimento ch'egli aveva della sua persona consueto. E sembravagli che la sua voce acquistasse d'attimo in attimo una virtù più alta.

Egli vide in quel punto intera e viva entro di sé la figura ideale; e la significò alla maniera dei Maestri coloristi che regnavano il luogo: con il lusso di Paolo e con l'ardenza del Tintoretto, nel linguaggio della poesia.

“E l'ora s'approssimava: già quasi era imminente l'ora della Festa suprema. Un insolito lume propagavasi nei cieli dall'ultimo orizzonte, come se il selvaggio Sposo vi trascorresse con un carro di fuoco agitando il suo gonfalone purpureo. Generato dalla sua corsa il vento spirava carico di tutti gli odori terrestri; e all'aspettante, su l'acqua ove qua e là vaghe capellature marine fluttuavano, recava l'imagine dei rosai bianchi e compatti che si distruggevano a poco a poco come ammassi di neve contro i balaustri dei giardini inclinati verso la Brenta. L'imagine intera del paese lontano parevami rispecchiarsi nel cristallo dell'aria come per la meteora fallace dei deserti; e quell'aspetto di natura valeva a magnificare la rarità di quel sogno d'arte, poichè nessun fasto autunnale di verzieri e di boschi — nella memoria — era comparabile alle divine animazioni e trasfigurazioni dell'antica pietra.

“Veramente, non è per giungere un dio su la città che gli si offre? — io chiedeva a me medesimo, sopraffatto dall'ansia e dal desiderio e dalla volontà di gioire che tutte le cose intorno a me esprimevano come invase da una febbre di passione infinita. Ed evocai l'artefice più possente perchè con le forme più fiere e con i colori più fulgidi mi raffigurasse quel giovine dio aspettato.

“Era per giungere! La coppa invertita del cielo versava su tutte le cose un flutto di splendore che sembrò da prima ai miei occhi incredibile, tanto la sua qualità superava di ricchezza pur le più ricche illuminazioni interiori del pensiero inspirato o del sogno involontario. Come una materia siderale, di natura sconosciuta e mutevole, in cui fossero figurate a miriadi imagini d'un fluido mondo indistinte, dalle quali un perpetuo fremito con una vicenda di distruzioni e di creazioni stupendamente facili traesse un'armonia sempre novella, così appariva l'acqua. Tra le due meraviglie la pietra multiforme e multanime come una selva e come, un popolo, — quella smisurata congerie muta da cui il genio dell'Arte estrasse i concetti occulti della Natura, su cui il tempo accumulò i suoi misteri e la gloria incise i suoi segni, per le cui vene ascese l'umano spirito verso l'Ideale come la linfa ascende verso il fiore per le fibre degli alberi — la pietra multanime e multiforme assumeva d'attimo in attimo espressioni di vita così intense e nuove che veramente parve distrutta per lei la legge e la sua inerzia originale irradiarsi d'una miracolosa sensibilità.

“Ogni attimo, allora, vibrò nelle cose come un baleno insostenibile. Dalle croci erette in sommo delle cupole gonfie di preghiera ai tenui cristalli salini penduli sotto l'arco dei ponti, tutto brillò in un supremo giubilo di luce. Come la vedetta gitta dai precordii l'acuto grido all'ansia che sotto freme in guisa di procella, così l'angelo d'oro dal vertice della massima torre diede alfine l'annunzio fiammeggiando.

“Ed Egli apparve. Apparve su una nuvola assiso come su un carro di fuoco, traendo dietro di sé i lembi delle sue porpore, imperioso e dolce, e con socchiuse le labbra piene di murmuri e di silenzii silvani, e con diffusi i capelli sul collo arduo come un collo equino, e con nudo il torace titanico misurato al respiro delle foreste. Inclinò verso la Città bella il suo giovenile volto donde emanava un indicibile fascino inumano, non so qual bestialità delicata e crudele, cui contrastavano gli sguardi profondi di conoscimento sotto le palpebre gravi. Ed era palese che per tutto il suo corpo il sangue pulsava e balzava con violenza fino ai pollici dei piedi agili, fino all'estreme falangi delle mani forti; e cose occulte erano per tutto il suo essere, che parevano celare la gioia come i grappoli in fiore celano il vino; e tutto il fulvo oro e tutta la porpora ch'Egli portava seco erano come il vestimento dei suoi sensi...

“Con che passione palpitando nelle sue mille cinture verdi e sotto i suoi immensi monili la Città bella si abbandonò al dio magnifico!”

Sollevata nella spira ascendente delle parole, l'anima innumerevole sembrò giungere d'un tratto al sentimento della Bellezza come a un apice non mai attinto prima; e ne fu quasi attonita. L'eloquenza del poeta era secondata dalle espressioni di tutte le cose circostanti: essa pareva riprendere e continuare i ritmi a cui obbedivano tutta quella forza e tutta quella grazia effigiate; essa pareva riassumere le concordanze indefinite che correvano fra quelle forme create dall'arte umana e le qualità dell'atmosfera naturale ov'elleno si perpetuavano. Per ciò la voce aveva un tal potere; per ciò il gesto ampliava così facilmente i contorni delle imagini; per ciò in ogni parola proferita la virtù suggestiva del suono inalzava di tanto il significato della lettera. Non era solo quivi l'usuale effetto d'una comunicazione elettrica stabilita fra il dicitore e l'uditorio, ma quivi pur l'incantesimo che teneva il portentoso edifizio dalle fondamenta e che prendeva uno straordinario vigore dal contatto insolito di tutta quella umanità agglomerata e palpitante. Il palpito della folla e la voce del poeta sembravano rendere alle mura secolari la vita primiera e rinnovellar nel freddo museo lo spirito originario: un nucleo d'idee possenti, concretate e organate nelle sostanze più durevoli a testimoniare la nobiltà d'una stirpe.

Lo splendore d'una giovinezza divina scendeva su le donne, come in un'alcova suntuosa; poichè esse avevano sentito in loro l'ansietà dell'attesa e la voluttà dell'abbandonarsi, come la Città bella. Sorridevano con un vago languore, quasi estenuate da una sensazione troppo forte, emergendo con le spalle nude dalle loro corolle di gemme. Gli smeraldi d'Andriana Duodo, i rubini di Giustiniana Memo, gli zaffiri di Lucrezia Priuli, i berilli di Orsetta Contarini, le turchesi di Zenobia Corner, tutti i gioielli ereditarii ne' cui fuochi era più che il pregio della materia come nel decoro della grande aula era più che il pregio dell'arte, parevano mettere su i bianchi volti delle patrizie il riflesso d'una gioconda e invereconda vita anteriore, quasi risvegliando in esse e dall'imo risollevando per virtù segrete l'anima delle voluttuarie che avevano offerto agli amori una carne macerata nei bagni di mirra di muschio d'ambra e scoperto in publico le mammelle colorite di belletto.

Vedeva Stelio quel busto femineo della smisurata chimera occhiuta, sul quale palpitavano mollemente le piume dei ventagli; e sentiva passare sul suo pensiero un'ebrezza troppo calda, che lo turbava suggerendogli parole dall'aspetto quasi càrneo, quelle vive sostanziali parole con cui egli sapeva toccare le donne come con dita carezzevoli e incitatrici. La vasta vibrazione da lui prodotta ripercotendosi in lui medesimo con una forza moltiplicata, lo scoteva così profondamente ch'egli smarriva il senso dell'equilibrio abituale. Sembravagli d'oscillare su la folla come un corpo concavo e sonoro in cui le risonanze varie si generassero per una volontà indistinta e tuttavia infallibile. Nelle pause, egli aspettava con ansia il manifestarsi impreveduto di quella volontà, mentre gli durava l'eco interiore come d'una voce non sua che avesse proferito parole espressive di pensieri per lui novissimi. E quel cielo e quell'acqua e quella pietra e quell'Autunno, così rappresentati, gli parevano non aver alcuna attinenza con le proprie sensazioni recenti ma appartenere a un mondo di sogno da lui intraveduto — mentre parlava — in un succedersi rapido di lampi.

Egli si stupiva di quell'ignoto potere che convergeva in lui abolendo i confini della persona particolare e conferendo alla voce solitaria la pienezza d'un coro. — Tale era dunque la tregua misteriosa che la rivelazione della Bellezza poteva dare all'esistenza cotidiana delle moltitudini affannate; tale era la misteriosa volontà che poteva investire il poeta nell'atto di rispondere all'anima innumerevole interrogante intorno al valore della vita e agognante a sollevarsi pur una volta verso l'Idea eterna. — In quell'ora egli non era se non il tramite pel quale la Bellezza porgeva agli uomini, raccolti in un luogo consacrato da secoli di glorie umane, il dono divino dell'oblio. Egli non faceva se non tradurre nei ritmi della parola il linguaggio visibile con cui già in quel luogo gli antichi artefici avevano significato l'aspirazione e l'implorazione della stirpe. E per un'ora quegli uomini dovevano contemplare il mondo con occhi diversi, dovevano sentire pensare e sognare con un'altra anima.

Era il sommo beneficio della Bellezza rivelata; era la vittoria dell'Arte liberatrice su le miserie e su le inquietudini e su i tedii dei giorni comuni; era il felice intervallo in cui cessano le fitte del dolore e del bisogno, e sembrano aprirsi lentamente le chiuse mani del Destino. Egli oltrepassava col pensiero quelle pareti che serravano la palpitante massa in una sorta di ciclo eroico, in una cerchia di rosse triremi e di torri munite e di teorie trionfali. Il luogo ora appariva angusto all'esaltazione del suo sentimento novello; e anche una volta lo attraeva la folla vera, l'immensa folla unanime ch'egli aveva veduto fluttuare dianzi nella conca marmorea e levare alla notte stellata un clamore di cui ella medesima s'inebriava come del sangue o del vino.

Né soltanto verso quella moltitudine ma verso infinite moltitudini andò il suo pensiero; e le evocò addensate in profondi teatri, dominate da una idea di verità e di bellezza, mute e intente dinanzi al grande arco scenico aperto su una meravigliosa trasfigurazione della vita, o frenetiche sotto il repentino splendore irradiato da una parola immortale. E il sogno d'un'arte più alta, levandosi in lui anche una volta, gli dimostrò gli uomini novamente presi di reverenza verso i poeti come verso coloro i quali potevano soli interrompere per qualche attimo l'angoscia umana, placare la sete, largire l'oblio. E troppo gli parve lieve quella prova ch'egli compiva; poichè mosso dal soffio della folla il suo spirito si stimò capace di generare finzioni gigantesche. E l'opera ch'egli nutriva entro di sé, ancora informe, ebbe un fiero sussulto di vita; mentre i suoi occhi vedevano su l'orbe delle costellazioni eretta la Tragica, la musa dalla voce divulgatrice, che pareva portare per lui nelle pieghe delle sue vesti raccolta e muta la frenesia delle moltitudini lontane.

Quasi estenuato dall'incredibile intensità di vita vissuta nella pausa, egli riprese a parlare con un accento più sommesso.

“In tal figura” egli riprese a dire “in tal figura — evidente e reale per me in quell'ora, tanto che quasi mi parve tangibile — chi m'ascolta non vede le analogie che la rendono significativa di cose singolari?

“La mutua passione di Venezia e dell'Autunno, che esalta l'una e l'altro al sommo grado di lor bellezza sensibile, ha origine in una affinità profonda; poichè l'anima di Venezia, l'anima che foggiarono alla Città bella gli antichi artefici, è autunnale.

“Avendo io scoperta la rispondenza tra l'esterno spettacolo e l'interiore, il mio gaudio ne fu moltiplicato indicibilmente. L'immensa moltitudine di forme imperiture, che popola le chiese e i palazzi, rispondeva dalle sue sedi alle armonie della luce diurna con un accordo così pieno e così possente che in breve divenne dominatore. E — poichè la luce del cielo s'avvicenda con l'ombra ma la luce dell'arte dura inestinguibile nell'anima umana — quando cessò nelle cose il prodigio dell'ora, il mio spirito si trovò solo ed estatico tra le magnificenze di un Autunno ideale.

“Tal sembra veramente a me la creazione d'arte compresa tra la giovinezza di Giorgione e la vecchiezza del Tintoretto. Essa è purpurea, dorata, opulenta ed espressiva come la pompa della terra sotto l'ultima fiamma del sole. Se io considero i creatori impetuosi di sì forte bellezza, mi si presenta allo spirito l'imagine che sorge da quel frammento pindarico: — Quando i Centauri conobbero la virtù del vino soave come il miele, che vince gli uomini, súbito respinsero dalle lor mense il bianco latte; e s'affrettarono a bere il vino in corni d'argento... — Nessuno al mondo conobbe e assaporò meglio di loro il vino della vita. Essi ne traggono una lucida ebrietà che moltiplica il lor potere e comunica alla loro eloquenza una energia fecondatrice. E nelle loro creature più belle il battito violento dei loro polsi sembra persistere a traverso i secoli come il ritmo stesso dell'arte veneziana.

“Ah, in che puro e poetico sonno posa la vergine Orsola sul suo letto immacolato! Il più benigno dei silenzii tiene la stanza solitaria ove sembra che le pie labbra della dormiente disegnino la consuetudine della preghiera. Per le porte e per le finestre dischiuse penetra la timida luce dell'alba, e illustra la parola scritta nell'angolo dell'origliere.Infantia è la parola semplice, che diffonde intorno al capo della vergine una freschezza simile a quella del mattino: Infantia. Dorme la vergine, già fidanzata al principe pagano e promessa al martirio. Non è ella forse, casta, ingenua e fervente, non è ella l'imagine dell'Arte quale la videro i precursori con la sincerità dei loro occhi puerili? Infantia. La parola evoca intorno all'origliere gli obliati: Lorenzo Veneziano e Simone da Cusighe e Catarino e Iacobello e Maestro Paolo e il Giambono e il Semitecolo e Antonio e Andrea e Quirizio da Murano e tutta la famiglia laboriosa per cui il colore, che doveva poi divenire emulo del fuoco, fu preparato nell'isola ardente delle fornaci. Ma essi medesimi non avrebber messo un grido di meraviglia nel vedere il flutto di sangue sgorgante dal petto della vergine saettato dal bello arciere pagano? Sì vermiglio sangue in una donzella nutrita di "bianco latte"! È quasi un tripudio la strage: gli arcieri vi recano le armi più elette, le vesti più ornate, i gesti più eleganti, come in un festino. Il chiomadoro che con sì fiero atto di grazia dardeggia la martire non sembra veramente il giovinetto Eros larvato e senz'ali?

“Questo leggiadro uccisore d'innocenze (o forse un fratel suo), deposto l'arco, si abbandonerà domani all'incanto della musica per sognare un sogno di voluttà infinito.

“Ben è Giorgione quegli che infonde in lui l'anima nuova e glie l'accende d'un desiderio implacabile. La musica incantatrice non è la melodia che pur ieri dai liuti angelici si diffondeva per gli archi incurvati su i troni raggianti o si dileguava pel silenzio delle lontananze serene, nelle visioni del terzo Bellini. Sorge ancora al tocco di mani religiose, dall'alveo del clavicordio; ma il mondo ch'ella risveglia è pieno d'una gioia e d'una tristezza in cui celasi il peccato.

“Chi ha veduto il Concerto, con occhi sagaci, conosce un momento straordinario e irrevocabile dell'anima veneziana. Per un'armonia di colore — la cui potenza significativa è senza limiti come il mistero dei suoni — l'artefice ci racconta il primo turbamento di un'anima cupida a cui la vita appare d'improvviso in aspetto d'un retaggio opimo.

“Il monaco che siede al clavicordio e il suo compagno maggiore non somigliano quelli che Vettor Carpaccio figurò fuggenti dinanzi alla fiera ammansita da Girolamo, in San Giorgio degli Schiavoni. La loro essenza è più forte e più nobile; l'atmosfera in cui respirano è più alta e più ricca, propizia alla natività d'una grande gioia o d'una grande tristezza o d'un sogno superbo. Quali note le mani belle e sensitive traggono dai tasti su cui s'indugiano? Magiche note, certo, se valgono a operare nel musico una trasfigurazione così violenta. Egli è nel mezzo della sua esistenza mortale, già distaccato dalla sua giovinezza, già in punto di declinare; ed ecco, ora soltanto la vita gli si rivela ornata di tutti i beni come una foresta carica di pomi purpurei, dei quali le sue mani intente ad altre opere non conobber mai il fresco velluto. Poichè la sua sensualità è sopita, egli non cade sotto il dominio di una sola imagine tentatrice, bensì prova una confusa angoscia in cui il rammarico vince il desiderio; mentre, su la trama delle armonie ch'egli ricerca, la visione del suo passato — quale avrebbe potuto essere e non fu — si compone come un tessuto di chimere. Indovina l'intima tempesta il compagno che già è su la soglia della vecchiezza calmo; e dolce e grave tocca la spalla dell'appassionato con un gesto pacificatore. Ma è pur quivi, emerso fuor della calda ombra come la espressione stessa del desiderio, il giovinetto dal cappello piumato e dalla chioma intonsa: l'ardente fiore d'adolescenza, che Giorgione sembra aver creato sotto un riflesso di quello stupendo mito ellenico donde sorse la forma ideale d'Ermafrodito. Egli è quivi presente ma estraneo, separato dagli altri, come colui che non ha cura se non del suo bene. La musica esalta il suo sogno indicibile e sembra moltiplicare infinitamente la sua potenza di gioire. Egli sa d'esser padrone di quella vita che sfugge ad ambo gli altri, e le armonie ricercate dal sonatore non gli sembrano se non il preludio della sua propria festa. Il suo sguardo è obliquo e intenso, rivolto a una parte come per sedurre non so qual cosa che lo seduca; la sua bocca chiusa è come una bocca che porti la pesantezza d'un bacio non dato ancora; la sua fronte è spaziosa così che non l'ingombrerebbe la più folta delle corone; ma, se io penso alle sue mani nascoste, le imagino nell'atto di frangere le foglie del lauro per profumarsene le dita.”

Le mani dell'animatore resero visibile quell'atto del concupiscente, come se in verità esprimessero l'essenza dalla foglia aromale; e il modo della voce diede alla figura evocata un rilievo così forte che quanti erano giovani ad ascoltare credettero di veder esternato il loro desiderio indicibile, di veder palesato il loro intimo sogno di piacere senza tregua e senza fine. Presi da un turbamento profondo, essi sentivano in loro un'agitazione oscura d'impeti contenuti, e intravedevano nuove possibilità, credevano ormai tangibile una preda già insperata e lontana. Li riconosceva Stelio di qua di là, per tutta la lunghezza dell'aula, addossati ai grandi armarii rossastri ove erano sepolti gli innumerevoli volumi d'una sapienza obliata e inerte. Essi stavano in piedi, occupando gli spazii liberi che correvano in giro; a simiglianza di un orlo vivace, essi parevan limitare la massa compatta; e, come in un drappo che ondeggi al vento le estremità hanno un fremito più gagliardo, così essi tremavano al soffio della poesia.

Li riconosceva Stelio; e ne distingueva taluno dalla singolarità dell'attitudine, dall'eccesso della commozione rivelato nella piega delle labbra o nel battito delle palpebre o nell'ardore delle gote. Su la faccia di taluno, rivolta al vano del balcone aperto, egli indovinava l'incanto della notte autunnale e la delizia della brezza saliente dalla laguna algosa. Gli sguardi di taluno gli indicavano per un raggio d'amore una donna assisa e come abbandonata su sé medesima, quasi indebolita da un godimento segreto, con un indefinibile aspetto di mollezza impura, con un molle viso niveo dove la bocca aprivasi come un alveolo umido di miele.

Egli aveva una strana lucidità per cui le cose gli apparivano con una evidenza insolita come in una allucinazione febrile. Tutto viveva, agli occhi suoi, d'una vita iperbolica: i ritratti dei Dogi ricorrenti in giro tra il serpeggiar bianco dei cartigli respiravano come i vecchi calvi, laggiù in fondo, di cui egli scorgeva ad intervalli il gesto eguale nel tergere le pallide fronti sudate. Nulla gli sfuggiva: non la lacrimazione assidua delle torce pendute ne' cestelli di bronzo che raccoglievano la cera gialla come l'ambra; nè l'estrema finezza d'una mano inanellata che premeva il fazzoletto su labbra dolorose come per lenire un bruciore; nè l'avvolgimento d'una sciarpa leggera intorno a spalle ignude in cui la brezza notturna alitante pei balconi aperti aveva suscitato un brivido di gelo. E tuttavia, mentre notava i mille aspetti momentanei, egli conservava nella sua visione l'imagine totale della smisurata chimera occhiuta dal busto coperto di scaglie splendide, fuor del cui fianco emergeva la musa tragica col capo alzato nell'orbe delle costellazioni.

Il suo sguardo tornava di continuo alla donna promessa, che mostravasi a lui come il fulcro vivente d'un mondo stellare. Egli le era grato di aver scelto un tal modo per apparirgli nell'atto di quella prima comunione. Egli ora non vedeva più in lei l'amante di una notte, il corpo maturato da lunghi ardori, carico di sapere voluttuoso; ma vedeva lo strumento mirabile dell'arte novella, la divulgatrice della grande poesia, quella che doveva incarnare nella sua persona mutevole le future finzioni di bellezza, quella che doveva portare ai popoli nella sua voce indimenticabile la parola risvegliatrice. Non per una promessa di piacere ma per una promessa di gloria egli ora si legava a lei. E l'opera ch'egli nutriva entro di sé, ancora informe, ebbe un altro sussulto.

“Chi m'ascolta” continuò “chi m'ascolta non vede qualche analogia fra questi tre simboli giorgioneschi e le tre generazioni, viventi a un tempo, che illumina l'aurora del secolo nuovo? Venezia, la città trionfante, si rivela ai loro occhi come un grande apparato per un convito oltrapiacente ove tutta la dovizia raccolta da secoli di guerre e di traffichi sta per essere addótta senza misura. Qual più ricca fonte di voluttà potrebbe aprire la vita al desiderio insaziabile? È un'ora di turbamento e quasi di vertigine, che vale per la sua plenitudine un'ora di violenza eroica. Voci e risa incitatrici sembrano giungere dai colli asolani ove regna in delizia la figliuola di San Marco, Domina Aceli, che rinvenne in un mirteto di Cipro il cinto di Afrodite. Ed ecco l'adolescente dalle belle piume bianche avanzarsi verso il convito come un corifeo seguito dalla sua torma sfrenata, e tutte le forti brame ardere quivi in guisa di doppieri le cui fiamme ecciti senza tregua un vento impetuoso.

“Comincia così quel divino autunno d'arte al cui splendore gli uomini si rivolgeranno sempre con un palpito profondo, finché duri nell'anima umana l'aspirazione a trascendere l'angustia dell'esistenza comune per vivere una vita più fervida o per morire di più nobile morte.

“Io veggo Giorgione imminente su la plaga meravigliosa, pur senza ravvisare la sua persona mortale; lo cerco nel mistero della nube ignea che lo circonfonde. Egli appare piuttosto come un mito che come un uomo. Nessun destino di poeta è comparabile al suo, in terra. Tutto, o quasi, di lui s'ignora; e taluno giunge a negare la sua esistenza. Il suo nome non è scritto in alcuna opera; e taluno non gli riconosce alcuna opera certa. Pure, tutta l'arte veneziana sembra infiammata dalla sua rivelazione; il gran Vecellio sembra aver ricevuto da lui il segreto d'infondere nelle vene delle sue creature un sangue luminoso. In verità, Giorgione rappresenta nell'arte l'Epifania del Fuoco. Egli merita d'esser chiamato "portatore di fuoco", a simiglianza di Prometeo.

“Quando considero la rapidità con cui il dono sacro passa d'artefice in artefice e va di colorazione in colorazione rosseggiando, mi sorge spontanea nello spirito l'imagine d'una di quelle lampadeforie con cui gli Elleni vollero appunto perpetuare la memoria del Titano figlio di Iapeto. Nel giorno della festa una torma di giovini cavalieri ateniesi partivasi a gran galoppo dal Ceramico verso Colono; e il duce agitava una fiaccola ch'era stata accesa all'ara di un santuario. Spenta dall'impeto della corsa il portatore la consegnava al compagno che la riaccendeva sempre correndo; e questi al terzo, e il terzo al quarto, e così di seguito sempre correndo finché l'ultimo la deponeva rossa ancora su l'altare del Titano. Questa imagine, per quel che ha di veemente, mi significa in qualche modo la festa dei maestri coloritori in Venezia. Ciascuno d'essi, anche il men glorioso, ha tenuto in pugno almeno per un istante il dono sacro. Taluno perfino, come quel primo Bonifacio che bisogna glorificare, sembra aver colto con mani incombustibili l'interno fiore del fuoco.”

Colse egli con le sue dita l'ideal fiore nell'aria, come dalla sommità invisibile dell'onda che l'anima estuosa della chimera mandava verso il poeta da cui ell'era ormai conquisa. E i suoi occhi andarono alla sfera celeste, volendo offrire mutamente quel dono igneo a colei che custodiva laggiù il divino bestiame zodiacale. “A te, Perdita!” Ma la donna sorrideva rivolta a una persona lontana; sorrideva accennando.

Così, nel seguire il filo del sorriso, egli fu condotto alla persona sconosciuta che s'illuminò per lui di repente su un campo d'ombra.

Non era quella forse la creatura musicale il cui nome aveva risonato contro la corazza della nave, nel silenzio e nell'ombra?

Ella quasi gli parve un'imagine interiore, generata a un tratto in quella parte della sua anima ove il fantasma della sensazione subitanea ch'egli aveva ricevuta entrando nell'ombra prodotta dal fianco della nave munita era rimasto come un punto isolato e indistinto.

Per un attimo ella fu bella com'eran belli in lui i pensieri ancora inespressi.

“Una città a cui tali creatori composero un'anima di tal possanza” egli soggiunse, agile su l'onda che saliva “non è oggi considerata, dai più, se non come un grande reliquiario inerte o come un asilo di pace e d'oblio!

“In verità, io non conosco al mondo altro luogo — se non Roma — dove uno spirito gagliardo e ambizioso possa, meglio che su questa acqua torpida, attendere ad incitare la virtù attiva del suo intelletto e tutte quante le energie del suo essere verso il grado supremo. Io non conosco palude capace di provocare in polsi umani una febbre più violenta di quella che sentimmo talvolta venire verso di noi all'improvviso dall'ombra di un canale taciturno. Né colui che meriggia profondato nella messe matura sotto la canicola sente salire alle sue tempie un'onda di sangue più fiera di quella che talvolta offuscò i nostri occhi quando c'inchinammo a cercar troppo intentamente nell'acqua se per avventura vi si scorgesse in fondo qualche antica spada o qualche antico diadema.

“Tuttavia come a un rifugio benigno non vengono qui le anime gracili, e quelle che celano qualche piaga inconfessabile, e quelle che compirono qualche finale rinunzia, e quelle che effeminò un morbido amore, e quelle che non cercano il silenzio se non per sentirsi perire? Forse ai loro pallidi occhi Venezia appare come una clemente città di morte abbracciata da uno stagno soporifero. In vero, la lor presenza non pesa più delle alghe vagabonde che fluttuano presso le scale dei palazzi marmorei. Esse aumentano quel singolare odor di cose malaticce, quello strano odor febrile su cui è così dolce, talvolta, verso sera, dopo una giornata laboriosa, cullare il sentimento della propria pienezza, che talvolta somiglia al languore.

“Pur non sempre l'ambigua indulge all'illusione di coloro che la implorano pacificatrice. Io so di taluno che a mezzo dei suoi riposi sussultò sbigottito come quegli che, giacendo con le dita leni dell'amata su le sue palpebre stanche, udì repentine serpi sibilare nei capelli di costei...

“Ah se io sapessi dire di che prodigiosa vita ella mi par palpitante nelle sue mille cinture verdi e sotto i suoi immensi monili! Ogni giorno ella assorbe la nostra anima: ed ora ce la rende intatta e fresca e tutta nuova quasi direi d'una novità originale su cui domani i vestigi delle cose avranno una ineffabile limpidezza; ed ora ce la rende infinitamente sottile e vorace come un calore che strugge quanto attinge, per modo che talvolta a sera rinveniamo tra le ceneri e le scorie qualche straordinaria sublimazione. Ella ci persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie: lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità di un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c'insegna che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha gioito.”

Un vago mormorio di dissenso serpeggiò qua e là nell'uditorio, a questa sentenza che parve troppo audace; la Regina scosse lievemente il capo in segno di diniego; alcune dame in uno scambio di sguardi manifestarono l'una all'altra un grazioso orrore. Poi il tutto fu disperso dall'acclamazione giovenile che si levò con impeto da ogni parte verso colui che insegnava con sì schietto ardire l'arte di ascendere per le virtù della gioia alle superiori forme della vita.

Stelio sorrideva riconoscendo i suoi, ch'erano molti; sorrideva riconoscendo l'efficacia del suo insegnamento, che aveva già cacciato da più di uno spirito le nebbie della tristezza inerte e in più d'uno aveva ucciso la viltà delle lacrime vane e in più d'uno aveva infuso per sempre il disprezzo dei lamentosi dolori e delle compassioni molli. Egli era lieto d'aver enunciato anche una volta il principio della sua dottrina, che scaturiva naturalmente da quell'anima d'arte ch'egli stava glorificando. E quelli che s'eran tratti in un eremo per adorare un fantasma triste che sol viveva nello specchio dei loro occhi appannato; e quelli che s'eran creati re d'una reggia senza finestre, ove aspettavano da tempo immemorabile una Visitazione; e quelli che di sotto a una ruina avevan creduto disseppellire il simulacro della Bellezza, e non era se non una sfinge corrosa che li travagliava coi suoi enigmi senza fine; e quelli che ogni sera si mettevano su le loro soglie per veder giungere lo straniero misterioso dal mantello gonfio di doni, e pallidi ponevano l'orecchio contro la terra per udire il passo che sembrava avvicinarsi e poi dileguare: quanti insomma un cordoglio rassegnato steriliva o divorava un orgoglio disperato, quanti indurava una pertinacia inutile o rendeva insonni un'attesa di continuo delusa, tutti egli avrebbe ora voluto chiamare a riconoscere i loro mali sotto lo splendore di quell'anima antica e pur sempre novella.

“In verità,” egli disse con suono di esultanza “se tutto il popolo emigrasse abbandonando le sue case, attratto oggi da altri lidi come già la sua eroica giovinezza fu tentata dall'arco del Bosforo al tempo del doge Pietro Ziani, e nessuna preghiera più percotesse l'oro sonoro dei mosaici concavi, e nessun remo più perpetuasse col suo ritmo la meditazione della muta pietra, Venezia rimarrebbe pur sempre una Città di Vita. Le creature ideali che il suo silenzio custodisce vivono in tutto il passato e in tutto l'avvenire. Noi discopriamo in loro sempre nuove concordanze con l'imminente edifizio dell'Universo, riscontri inattesi con l'idea che nacque ieri, chiari annunzii di ciò che in noi non è se non un presentimento, aperte risposte a ciò che noi non osiamo chiedere ancora. Esse sono semplici e tuttavia cariche di significazioni innumerevoli; sono ingenue e tuttavia vestite di tuniche speciose. Se noi le contemplassimo per un tempo indefinito, esse non resterebbero mai dal versare nel nostro spirito verità dissimiglianti. Se noi le visitassimo ogni giorno, esse ogni giorno ci apparirebbero in un aspetto impreveduto, come i mari, i fiumi, i prati, i boschi, le rupi. Talvolta le cose ch'esse ci dicono non giungono fino al nostro intelletto, ma si rivelano a noi per una specie di confusa felicità in cui la nostra sostanza sembra fremere e dilatarsi dall'imo. In qualche mattino limpido esse ci indicheranno il cammino che conduce alla foresta remota ove la Bella ci attende da tempo immemorabile sepolta nella sua mistica chioma.

“Donde a loro viene lo smisurato potere?

“Dalla pura inconsapevolezza degli artefici che le crearono.

“Questi uomini profondi ignorano l'immensità delle cose ch'essi esprimono. Immersi nella vita con milioni di radici, non come alberi soli ma come vastissime selve, essi assorbono infiniti elementi per trasfonderli e condensarli in specie ideali le cui essenze rimangono a loro ignote come i sapori del pomo al ramo che lo porta. Essi sono i misteriosi tramiti per cui si appaga la perpetua aspirazione della Natura verso i tipi ch'ella non giunge a stampare integri nelle sue impronte. Per ciò, continuando l'opera della divina Madre, la loro mente si trasmuta in una similitudine di mente divina, come dice Leonardo. E, poichè la forza creatrice affluisce alle loro dita come la linfa alle gemme degli alberi incessantemente, essi creano con gioia.”

Tutto il desiderio dell'artefice duro anelante ad ottenere quell'olimpico dono, tutta la sua invidia per quei colossali fabbri della Bellezza non mai stanchi e non mai dubitosi, tutta la sua sete di felicità e di gloria si palesavano nell'accento con cui egli proferì le ultime parole. Di nuovo l'anima della moltitudine era in signoria del poeta, senza contrasto, tesa e vibrante come una sola corda fatta di mille corde, in cui ogni risonanza aveva un prolungamento incalcolabile. Risvegliavasi in lei il sentimento confuso di una verità ch'ella portava dentro oscurata e che il poeta le rivelava a un tratto in forma d'un messaggio inaudito. Ella non si sentiva più estranea in quel luogo sacro, ove una delle più splendide sorti umane aveva lasciato così larghe tracce di splendore; ma sentiva intorno a sé e sotto di sé vivere dall'ime basi la mole secolare come se le memorie, non più immobili nell'ombra del passato, vi circolassero a similitudine di aure libere in una foresta commossa. Ora, nella magica tregua che le davano le virtù della poesia e del sogno, ella sembrava ritrovare in sé stessa i segni indistruttibili delle primitive generazioni, quasi una vaga effigie dell'ascendenza remota, e riconoscere il suo diritto a un antico retaggio di cui fosse stata dispogliata: a quel retaggio che il messaggero le annunciava essere ancora intatto e recuperabile. Ella provava l'ansia di chi sia per ripossedere una ricchezza perduta. E nella notte riscintillante pe' balconi aperti, mentre già apparivano i rossi bagliori dell'incendio che stava per comprendere il bacino sottoposto, pareva diffusa l'aspettazione d'un ritorno predestinato.

Nel sonoro silenzio la voce solitaria giunse all'apogeo.

“Creare con gioia! È l'attributo della Divinità. Non è possibile imaginare al vertice dello spirito un atto più trionfale. Le parole stesse che lo significano hanno la splendidezza dell'aurora.

“E questi artefici creano con un mezzo che è per sé medesimo un mistero gioioso: col colore, che è l'ornamento del mondo; col colore, che sembra esser lo sforzo della materia per divenir luce.

“E il novissimo senso musicale ch'essi hanno del colore fa sì che la lor creazione trascenda i limiti angusti dei simboli figurati e assuma l'alta virtù rivelatrice di un'infinita armonia.

“Mai come dinanzi alle loro ampie tele sinfoniali ci appare evidente la sentenza proferita da quel Vinci a cui la Verità balenò un giorno co' suoi mille volti segreti: — La musica non ha da essere chiamata altro che sorella della pittura. — La lor pittura non è soltanto una poesia muta ma è anche una musica muta. Per ciò i più sottili ricercatori di rari simboli, coloro che più furon curiosi di segnare nella purezza di fronti meditative gli indizii di un interno Universo, ci sembrano quasi aridi al paragone di questi grandi musici inconsapevoli.

“Quando il Bonifacio, nella Parabola del ricco Epulone, intona su una nota di fuoco la più potente armonia di colore in cui siasi mai rivelata l'essenza di un'anima voluttuosa e superba, noi non interroghiamo il sire biondo che ascolta i suoni assiso tra le due cortigiane magnifiche i cui volti splendono come lampade di limpido elettro; ma, trapassando il simbolo materiale, ci abbandoniamo con ansia alla virtù evocatrice dei profondi accordi in cui il nostro spirito sembra oggi trovare il presentimento di non so qual sera grave di belle fatalità e d'oro autunnale su un porto quieto come un bacino d'olio odorifero ove una galera palpitante di orifiamme entrerà con uno strano silenzio come una farfalla crepuscolare nel calice venato di un gran fiore.

“Non la vedremo noi veramente coi nostri occhi mortali, in qualche sera di gloria approdare al Palazzo dei Dogi?

“Non ci appare essa da un orizzonte profetico nell'Allegoria dell'Autunno che il Tintoretto ci offre come una superiore imagine creata del nostro sogno di ieri?

“Seduta su la sponda, in aspetto di deità, Venezia riceve l'anello dal giovine dio pampinifero disceso nell'acqua, mentre la Bellezza si libra nell'aria a volo con un serto di stelle per coronare l'alleanza meravigliosa.

“Guardate il naviglio lontano! Sembra che rechi un annunzio. Guardate i fianchi della Donna simbolica! Sono capaci di portare il germe d'un mondo.”

Il vasto applauso scrosciante fu soverchiato dal clamore giovenile che salì come un turbine verso colui il quale faceva balenare agli occhi inquieti una così grande speranza, verso colui il quale mostrava una così lucida fede nel genio occulto della stirpe, nella virtù ascendente delle idealità trasmesse dai padri, nella sovrana dignità dello spirito, nel potere indistruttibile della Bellezza, in tutti gli alti valori dalla novissima barbarie tenuti a vile. I discepoli si protendevano verso il maestro con effusione di riconoscenza, con impeto d'amore; poichè il verbo ardente aveva acceso le loro anime come faci, eccitando il senso della vita sino alla febbre. In ciascuno d'essi riviveva la creatura di Giorgione, l'adolescente dalle belle piume bianche nell'atto di avanzarsi verso l'immensa preda accolta; e sembrava in ciascuno d'essi infinitamente moltiplicata la potenza di gioire.

Il loro grido era così espressivo dell'interno tumulto, che l'animatore ne tremò a dentro e fu attraversato da un flutto subitaneo di tristezza pensando alla cenere di quel fuoco fugace, pensando ai crudeli risvegli del giorno venturo. Contro quali ostacoli aspri e ignobili doveva infrangersi quel terribile desiderio di vivere, quella violenta volontà di foggiare pel proprio fato le ali della Vittoria e di intendere tutte le energie dell'essere verso il grado sublime!

Ma la notte favoriva il delirio giovenile. Tutti i sogni di dominazione, di voluttà e di gloria che Venezia aveva cullati e poi soffocati nelle sue braccia di marmo, tutti risuscitavano dalle fondamenta del palagio, entravano per i veroni aperti, palpitavano come un popolo rivivente, sotto le enormi volute di quel cielo ricco e greve quale un pensile tesoro. La forza che per l'ampia volta e su l'alte pareti gonfiava le musculature dei numi dei re e degli eroi effigiati, la bellezza che nelle nudità delle iddie delle regine e delle meretrici effigiate fluiva come una musica visibile, la forza e la bellezza umane trasfigurate da secoli di arte si armonizzavano in un simulacro unico che gli ebri credevano avere innanzi agli occhi reale e respirante, eretto quivi dal poeta nuovo.

Esalavano essi la loro ebrietà nel grido verso colui che aveva offerto alle loro labbra sitibonde la coppa del suo vino. Tutti vedevano ormai la fiamma inestinguibile a traverso il velo dell'acqua. Taluno già imaginava sé nell'atto di frangere le foglie del lauro per profumarsene le dita; e taluno già era deliberato di ritrovare in fondo a qualche canale taciturno l'antica spada e l'antico diadema.

Ora, nelle stanze del Museo attigue, Stelio Èffrena era rimasto solo con le statue, insofferente d'ogni altro contatto, bisognoso di raccogliersi e di sedare in sé quella insolita vibrazione per cui tutta la sua essenza eragli parsa diffusa e come dissipata a traverso l'anima innumerevole. Delle recenti parole non scorgeva egli traccia nella memoria; delle recenti imagini non scorgeva segno. Soltanto gli persisteva nel mezzo dello spirito quel “fiore del fuoco” ch'egli aveva suscitato in gloria del primo Bonifacio e aveva colto con le sue stesse dita incombustibili per offerirlo alla donna promessa. Egli ripensava come in quell'attimo dell'offerta spontanea la donna si fosse ritratta e nel luogo dello sguardo assente egli avesse trovato il sorriso indicatore. Sembrò che la nuvola dell'ebrezza, nel punto d'involarsi, si condensasse di nuovo in lui prendendo la forma vaga della creatura musicale e che questa tenendo il fiore del fuoco in un'attitudine dominatrice emergesse su l'agitazione ulteriore come sul tremolio incessante d'un mare d'estate. A celebrar quell’imagine gli giunsero dall'aula prossima le prime note della Sinfonia di Benedetto Marcello, il cui movimento fugato rivelava sùbito il carattere del grande stile. Un'idea sonora, nitida e forte come una persona vivente, sviluppavasi secondo la misura della sua potenza. Ed egli riconobbe in quella musica la virtù di quel principio medesimo intorno a cui, come intorno a un tirso, egli aveva avvolto le ghirlande della sua poesia.

Allora il nome che già aveva risonato contro la corazza della nave nel silenzio e nell'ombra, quel nome che nell'immensa onda delle campane crepuscolari erasi perduto come una foglia sibillina, propose per lui all'orchestra le sue sillabe in guisa d'un tema nuovo che raccolsero gli archi. I violini, le viole, i violoncelli lo cantarono a gara; gli squilli improvvisi delle trombe eroiche lo esaltarono; infine tutto il quartetto lo lanciò con un impeto concorde nel cielo della gioia ove più tardi doveva brillare la corona di stelle offerta ad Arianna da Afrodite d'oro.

Nella pausa, Stelio provò uno smarrimento singolare, quasi uno stupor religioso davanti a quell'annunziazione. Egli comprese quanto valesse per lui, in quell'inestimabile momento lirico, il ritrovarsi solo tra simulacri candidi e muti. Un lembo del medesimo mistero che sotto il fianco della nave munita egli aveva sfiorato come si sfiora un velo fuggitivo, pareva ora ondeggiargli su le ciglia in quella stanza deserta che pure era tanto vicina alla moltitudine umana. — Tace così, sul lido, presso il flutto, una conca marina. — Egli credeva sentire anche una volta, come già in qualche altra ora straordinaria del suo viaggio, la presenza del suo fato che stesse per dare al suo essere un nuovo impulso e per suscitarvi forse una volontà meravigliosa. E, considerando la mediocrità delle mille sorti oscure che pendevano su le teste della folla intente alle apparizioni della vita ideale, egli si compiacque di poter adorare in disparte quella fausta figura demoniaca che veniva a visitarlo quivi segretamente per recargli nel nome d'un'amante incognita un dono involuto.

Trasalì, allo scoppio delle voci umane che salutavano con un'acclamazione trionfale il dio invitto.

Viva il forte, viva il grande..

L'aula profonda rimbombò come un vasto timpano percosso; e il rimbombo si dilatò per la Scala dei Censori, per la Scala d'Oro, per gli anditi, per gli atrii, per i vestiboli, per le logge, sino ai Pozzi, sino alle fondamenta del palagio, come un tuono d'allegrezza tonante nella notte serena.

Viva il forte, viva il grande
Vincitor dell'Indie dome!

Veramente pareva che il Coro salutasse l'apparizione del dio magnifico evocato dal poeta su la Città anadiomene. Pareva che i lembi delle sue porpore fremessero in quelle note vocali come fiamme in canne di cristallo. L'imagine vivente ondeggiava sospesa su la folla che la nutriva del suo proprio sogno.

Viva il forte, viva il grande...

Nell'impetuoso movimento fugato i bassi, i contralti, i soprani ripetevano l'acclamazione frenetica all'Immortale dai mille nomi e dai mille serti “nato su letti ineffabili”, “simile a un giovine nella prima adolescenza”. Tutta l'antica ebrietà dionisiaca pareva risorgere e diffondersi da quel Coro divino. La pienezza e la freschezza della vita nel sorriso di Lieo, di colui che scioglie dagli affanni il cuore degli uomini, vi si esprimevano con un getto luminoso di gioia. Le faci inestinguibili delle Bassaridi vi fiammeggiavano e vi crepitavano. Come nell'inno orfico, un riflesso d'incendio vi illuminava la fronte giovenile coronata dai capelli cerulei. “Quando lo splendor del fuoco invase tutta la terra, egli solo incatenò i turbini striduli della fiamma.” Come nell'inno omerico, vi palpitava il grembo sterile del mare, vi echeggiava la percossa misurata dei remi numerosi che spingevano la nave ben construtta verso le terre ignote. Il Florido, il Fruttifero, il Rimedio visibile ai mortali, il Fior sacro, l'Amico del piacere, Dioniso liberatore riappariva d'improvviso in conspetto degli uomini su le ali del canto, per essi coronava di felicità quell'ora notturna come un calice colmo, ad essi poneva innanzi novellamente tutti i beni sensibili della vita.

Il canto cresceva di forza; le voci si fondevano nell'impeto. L'inno celebrava il domator delle tigri, delle pantere, dei leoni e delle linci. Le Menadi parevano gridar quivi, col capo riverso indietro, con le chiome effuse, con le vesti discinte, percotendo i cembali, agitando i crotali: — Evoè!

Ma ecco dalla sonorità eroica sorgere a un tratto un largo ritmo pastorale evocante il Bacco Tebano dalla pura fronte cinta di soavi pensieri:

Quel che all'olmo la vite in stretto nodo

Pronuba accoppia, e i pampini feconda...

Due sole voci in successione di seste cantavano le nozze arboree, il verde maritaggio, i vincoli flessuosi. L'imagine del naviglio lagunare carico di grappoli come il tino che sta per essere premuto, già creata dalla parola del poeta, passò di nuovo negli occhi della moltitudine. E parve che il canto compisse di nuovo il prodigio del quale fu testimone il prudente pilota Medeide. “Ed ecco un vin dolce e aulentissimo fluì per il negro e veloce naviglio... Ed ecco fino in sommo della vela una vite si svolse; e ne pendevano innumerabili grappoli. E un'edera cupa s'attorceva all'antenna, ed era coperta di fiori; e bei frutti vi nascevano. E tutti gli scalmi dei remi avevano ghirlande...”

Lo spirito della fuga passava allora nell'orchestra, vi si alleggeriva in belle volute, mentre le voci battevano su la trama orchestrale in percussione simultanea. E, come un agile tirso brandito sopra la torma bacchica, una voce sola di nuovo levò la melodia nuziale in cui rideva la grazia del coniugio agreste.

Viva dell'olmo

E della vite

L'almo fecondo

Sostenitor!

Le voci sole davano così imagine di Tiadi alzate che movessero mollemente tra i fumi dell'ebrezza i loro tirsi ornati di corimbi e di pampini, vestite di lunghe vesti crocee, accese in volto e palpitanti come le donne di Paolo che s'inclinavano dai balaustri aerei a bevere il canto.

Ma l'acclamazione eroica risorse con una veemenza finale. Il volto del dio conquistatore ribalenò tra le faci agitate freneticamente. Le voci e l'orchestra all'unisono tonarono in un supremo impeto di giubilo, verso la smisurata chimera occhiuta, sotto il pensile tesoro di quel cielo, in quella cerchia di rosse triremi e di torri munite e di teorie trionfali.

Viva dell'Indie,

Viva de ' mari,

Viva de ' mostri

Il domator!

Stelio Èffrena era venuto su la soglia; per mezzo alla calca che si apriva era penetrato nell'aula; era rimasto in piedi vicino a un fianco del palco occupato dall'orchestra e dai cantori. Egli cercava con gli occhi inquieti la Foscarina presso la sfera celeste, ma senza incontrarla. Il capo della musa tragica non più si ergeva nell'orbe delle costellazioni. — Dov'era ella? Dove s'era ritratta? Era egli veduto da lei senza vederla? — Un'ansietà confusa lo turbava; e le visioni del vespero su le acque gli risorgevano nello spirito confuse, accompagnate dalle parole dell'ultima promessa. Nel guardare i balconi aperti, egli pensò che forse ella era uscita all'aria notturna e che reclinata forse contro la ringhiera ella sentiva passare le onde della musica su la sua nuca gelida godendone come di brividi comunicati da baci tenaci.

Ma l'aspettazione della voce rivelatrice soverchiò in lui ogni altra cura, abolì ogni altra ansietà. Egli s'accorse, d'improvviso, che un silenzio profondo s'era fatto nell'aula, come nell'istante in cui egli aveva dischiuso le labbra a proferire la prima sillaba. Come in quell'istante, il mostro efimero e versatile dai mille volti umani pareva tendersi mutamente e farsi vacuo per ricevere un'anima nuova.

Egli udì intorno a sé qualcuno bisbigliare il nome di Donatella Arvale. Volse gli occhi al palco, di là dai violoncelli che formavano una siepe bruna. La cantatrice rimaneva invisibile, nascosta nella selva delicata e fremente ond'era per salire l'armonia dolorosa che doveva accompagnare la lamentazione d'Arianna.

Un preludio di violini salì allora nel silenzio favorevole. Le viole e i violoncelli unirono a quel ploro supplice un sospiro più profondo. Non era, dopo il flauto frigio e il crotalo berecintio, dopo gli stromenti orgiaci i cui suoni turbano la ragione ed incitano al delirio, non era l'augusta lira dorica, grave e soave, armonico fulcro del canto? Tale dal Ditirambo strepitoso la natività del Drama. La grande metamorfosi del rito dionisiaco — la frenesia della festa sacra convertita nel creatore entusiasmo del tragedo — pareva figurata in quella vicenda musicale. Il soffio igneo del dio tracio aveva dato vita a una forma sublime dell'Arte. La corona e il tripode, decretati in premio alla vittoria del poeta, avevano sostituito il capro lascivo e il canestro di fichi attici. Eschilo, custode di una vigna, era stato visitato dal dio che avevagli infuso il suo spirito di fiamma. Sul fianco dell'Acropoli, presso il santuario di Dioniso, era sorto un teatro di marmo capace di contenere il popolo eletto.

Così, d'improvviso, nell'interno mondo dell'animatore si schiudevano le vie dei secoli prolungandosi per le lontananze dei misteri primitivi. Quella forma dell'Arte, a cui tendeva ora lo sforzo del suo genio attratto dalle aspirazioni oscure delle moltitudini umane, gli appariva nella santità delle sue origini. Il divino dolore di Arianna, saliente come un grido melodioso fuor del Tiaso furibondo, faceva sussultare anche una volta l'opera ch'egli nutriva entro di sé informe ma già vitale. Egli cercò di nuovo con gli occhi su l'orbe delle costellazioni la musa dalla voce divulgatrice. Poichè non la scorse, tornò con gli occhi alla selva degli stromenti onde saliva il gemito.

Allora, di tra gli archi sottili che brillavano come lunghi plettri alzandosi e abbassandosi su le corde con moto alterno, sorse la cantatrice eretta come uno stelo e un poco ondeggiò come uno stelo su l'armonia sommessa. La giovinezza del suo corpo agile e robusto pareva risplendere a traverso il tessuto del suo vestimento come una fiamma a traverso la tenuità di un avorio polito. Alzandosi e abbassandosi intorno alla bianca persona, gli archi parevano trarre la nota dalla musica occulta che era in lei. Quando le sue labbra si incurvarono, Stelio conobbe la purità e la forza della voce non anche modulata, quasi che egli avesse dinanzi agli occhi una statua di cristallo per entro a cui vedesse ascendere la vena d'una fonte viva.

Come mai puoi

Vedermi piangere...

La melodia dell'antico amore e dell'antico dolore fluì da quelle labbra con una espressione così pura e così forte che subitamente per l'anima innumerevole si convertì in una misteriosa felicità. Era quello forse il divino pianto della Minoide protesa invano le braccia deluse, dalla riva di Nasso deserta, verso l'Ospite flavo? La favola vaniva, l'inganno del tempo era abolito. L'eterno amore e l'eterno dolore degli iddii e degli uomini si esalavano nella voce sovrana. Il rammarico inutile d'ogni gioia perduta, l'ultimo richiamo dietro ogni bene fuggitivo, l'implorazione suprema verso ogni vela che dilegui nei mari, verso ogni sole che si celi nei monti, e il desiderio implacabile e la promessa della morte passavano nell'alto canto solitario trasmutati per la virtù dell'Arte in essenze sublimi che l'anima poteva ricevere senza soffrire. Le singole parole vi si discioglievano, vi smarrivano ogni significanza, vi si cangiavano in note d'amore e di dolore indefinitamente rivelatrici. Come un cerchio che sia chiuso e che pur si dilati di continuo col palpito medesimo della vita universa, la melodia aveva circompresa l'anima innumerevole che si dilatava con essa in una immensa felicità. Per gli aperti balconi, nella calma perfetta della notte autunnale, il fascino si spandeva su le acque torpide, saliva alle stelle vigilanti, oltre gli alberi immobili dei navigli, oltre le torri sacre abitate dai bronzi ora muti. Negli interludii, la cantatrice chinava il capo giovenile, pareva rimanere esanime come un simulacro, bianca nella selva degli stromenti, tra il moto alterno dei lunghi plettri, forse inconsapevole del mondo che il suo canto in qualche attimo aveva trasfigurato.

Disceso nel cortile celatamente, per sottrarsi alla curiosità importuna, Stelio Èffrena s'era rifugiato in un lembo di ombra; e spiava di là se non apparissero tra la calca in cima alla Scala dei Giganti le due donne, l'attrice e la cantatrice, che dovevano convenire al pozzo.

Egli sentiva la sua aspettazione farsi d'attimo in attimo più ansiosa, mentre gli giungeva il grido immenso che levavasi intorno alle mura esterne del palagio perdendosi nel cielo rischiarato da un riflesso d'incendio. Una gioia quasi terribile pareva propagarsi nella notte, su la Città anadiomene. Pareva che un respiro veemente fosse venuto d'improvviso a dilatare i petti angusti e che una sovrabbondanza di vita sensuale gonfiasse le arterie degli uomini. La ripresa del Coro bacchico, celebrante la corona di stelle cinta da Afrodite al capo oblioso di Arianna, quell'alto inno di gloria seguito dal supremo clamore orgiastico del Tiaso, aveva suscitato il grido della folla addensata sul Molo, sotto i balconi aperti. Nell'elevazione finale, unisona, su la parola “Viva!” al Coro delle Menadi, dei Satiri e degli Egipani aveva risposto il coro popolare come un'eco formidabile nel bacino di San Marco. Ed era parso che in quel punto il delirio dionisiaco, memore delle antiche selve arse nelle notti sacre, avesse dato il segnale dell'incendio in cui doveva risplendere ultimamente la bellezza di Venezia.

Il sogno di Paris Eglano balenò al desiderio di Stelio: — lo spettacolo delle fiamme portentose offerto all'amore sul letto galleggiante. L'imagine di Donatella Arvale persisteva nelle sue pupille: — l'agile persona giovenile, dalle reni falcate e possenti, fuor della selva sonora, tra il moto alterno dei plettri che parevan trarre la nota dalla musica occulta ch'era in lei. Ed egli, con una strana angoscia su cui passava quasi un'ombra di orrore, evocò l'imagine dell'altra: — avvelenata dall'arte, carica di sapere voluttuoso, col gusto della maturità e della corruzione nella bocca eloquente, con l'aridezza della vana febbre nelle mani che avevano spremuto il succo dei frutti ingannevoli, con i vestigi di cento maschere sul viso che aveva simulato il furore delle passioni mortali. In quella notte alfine, dopo il lungo desiderio intermesso, egli doveva ricevere il dono di quel corpo non più giovine, ammollito da tutte le carezze e rimasto ancóra sconosciuto per lui. Come aveva egli palpitato e tremato, pur dianzi, al fianco della donna taciturna, navigando verso la città bella, su l'acqua che pareva per entrambi scorrere in una clessidra spaventosa! Ah, perchè ora ella gli veniva incontro accompagnata dall'altra tentatrice? Perchè poneva ella accanto alla sua sapienza disperata il puro splendore di quella giovinezza?

Con un palpito profondo, egli scorse in sommo della scala marmorea al lume delle fiaccole fumide la figura della Foscarina così stretta a quella di Donatella Arvale, nella ressa, che l'una si confondeva con l'altra in un medesimo biancheggiare. Le seguì con lo sguardo giù per i gradini, sospeso come se elle ad ogni tratto ponessero il piede sul margine di un abisso. L'ignota in quelle brevi ore aveva già vissuto entro di lui una vita fittiva così intensa che, vedendola avvicinarsi, egli provava un turbamento non dissimile a quello che avrebbe provato vedendosi d'improvviso venire incontro l'incarnazione spirante d'una delle creature ideali génite dalla sua arte.

Ella discendeva con lentezza, nell'onda umana che il suo canto aveva sollevato per alcuni attimi al vertice della felicità. Dietro di lei, il Palazzo dei Dogi attraversato da larghi chiarori e da confusi strepiti dava imagine d'uno di quei risvegli favolosi che di repente trasfigurano nelle foreste le reggie inaccessibili ove qualche chioma regale cresceva sola nei secoli nutrita dal silenzio come un salice eterno su un fiume letèo. I due Giganti custodi rosseggiavano al rossor delle faci; la cuspide della Porta Dorata brillava di fiammelle; di là dall'ala settentrionale le cinque cupole della Basilica regnavano nel cielo come vaste mitre tempestate di crisòliti. E l'immenso clamore saliva saliva per l'adunazione dei marmi, gagliardo come il mugghio della procella contro le muraglie di Malamocco.

In tale tumulto di festa inaudito, in tal contrasto d'insolite apparenze, Stelio Èffrena vedeva venire al suo desiderio le due tentatrici, entrambe escite dalla folla come dall'amplesso d'un mostro. Straordinarie promiscuità gli fingeva il desiderio, le quali egli credeva potessero avverarsi con la facilità dei sogni e con la solennità delle cerimonie liturgiche. Egli pensò che Perdita gli conducesse innanzi quella magnifica preda per un fine recondito di bellezza, per qualche alta opera vitale di cui volesse ella medesima esser l'artefice con lui. Egli pensò che Perdita gli avrebbe parlato nella notte stupende parole. E gli ripassò su lo spirito la malinconia indefinibile ch'egli aveva provato nel chinarsi sul margine di bronzo a guardare in quel cupo specchio interiore il riflesso delle stelle; e s'aspettò un evento il quale movesse, nell'ultima profondità del suo essere, quell'anima segreta che a simiglianza di quello specchio d'acqua rimaneva immota estranea ed intangibile. Dall'accelerazione vertiginosa dei suoi pensieri comprese ch'egli trovavasi nello stato di grazia, nell'imminenza di quel divino delirio che soltanto potevano dargli le virtù della laguna. E dall'ombra andò incontro alle due donne, con un presentimento inebriante.

— Oh, Èffrena, — disse la Foscarina, giungendo al pozzo — non speravo più di trovarvi qui. Abbiamo indugiato molto, è vero? Ma siamo rimaste prese nella folla, senza scampo...

Soggiunse, sorridendo, volgendosi alla compagna:

— Donatella, ecco il Maestro del Fuoco.

Senza parlare, ma sorridendo, Donatella Arvale rispose al profondo inchino di Stelio.

Soggiunse la Foscarina traendola seco:

— Bisogna che andiamo in cerca della gondola. Ci aspetta al Ponte della Paglia. Venite con noi, Èffrena? Bisogna profittare del momento. La folla si precipita verso la Piazzetta. La Regina esce dalla Porta della Carta.

Un lungo grido concorde salutò l'apparizione della Regina bionda e perlata in cima alla Scala dove un tempo il Doge eletto riceveva l'insegna ducale alla presenza del popolo. Anche una volta il nome del bianco fiore stellare e della perla purissima fu ripetuto agli echi del marmo. Folgori di gioia crepitarono nel cielo. Mille colombe ardenti s'involarono dai pinnacoli di San Marco, messaggere del Fuoco.

— L'Epifania del Fuoco! — esclamò la Foscarina, uscendo sul Molo, dinanzi allo spettacolo allucinante.

E al suo fianco Donatella Arvale e Stelio Èffrena si arrestarono, attoniti; e si guardarono con gli occhi abbagliati. E i loro volti splendevano accesi dai riflessi, come se fossero chini su una fornace o su un cratere.

Tutte le apparenze innumerevoli del Fuoco volatile e versicolore si spandevano pel firmamento, strisciavano su l'acqua, si avvolgevano alle antenne delle navi, inghirlandavano le cupole e le torri, ornavano le trabeazioni, fasciavano le statue, gemmavano i capitelli, arricchivano ogni linea, trasfiguravano ogni aspetto delle architetture sacre e profane nella cui chiostra il bacino profondo era come uno specchio malioso che moltiplicava le meraviglie. Attoniti gli occhi non più distinguevano i confini e le qualità degli elementi ma erano illusi da una visione mobile e smisurata ove tutte le forme vivevano d'una vita lucida e fluida, sospese in un etere vibrante; così che le snelle prore ricurve su l'acqua e le miriadi di colombe d'oro pel cielo sembravano gareggiar di leggerezza nel volo consimile e attingere le sommità degli edifizii immateriali. Era veramente un tempio edificato dai genii alacri del Fuoco quello che nel crepuscolo era parso un argenteo palagio nettunio construtto a similitudine delle tortili forme marine. Era veramente, ingigantita, una di quelle dimore labirintee fondata sul ferro degli alari, alle cui cento porte appaiono i presagi bifronti e fanno gesti ambigui alla vergine che spia; era, ingigantita, una di quelle fragili reggie vermiglie alle cui mille finestre s'affacciano per un istante le principesse salamandre e ridono voluttuosamente al poeta che medita. Rosea come una luna occidua raggiava su la triplice loggia contigua la sfera della Fortuna portata dagli omeri degli Atlanti; e nasceva dal suo riflesso un ciclo di satelliti. Dalla Riva, da San Giorgio, dalla Giudecca, con un crepitìo continuo, fasci ignei di steli convergevano all'alto e vi si schiudevano in rose, in gigli, in palme, in paradisiaci fiori, formando un giardino aereo che struggevasi e rinnovellavasi di continuo con fioriture sempre più ricche e strane. Era come una vicenda rapida di primavere e di autunni superni. Una immensa pioggia favillante di petali e di frondi cadeva dalle dissoluzioni celesti e avvolgeva tutte le cose nel suo tremolìo d'oro. Scorgevasi lungi, verso la laguna, per entro gli squarci che s'aprivano in quel folto, avanzarsi una flotta pavesata: una torma di galere simiglianti forse a quelle che navigano nel sogno del lussurioso dormente il suo ultimo sonno in un letto pregno di profumi mortali. Come quelle, forse, esse portavano cordami composti con le capellature rattorte delle schiave predate nei paesi di conquista, tuttavia stillanti d'olio soave; come quelle, avevano le stive cariche di mirra, di spicanardo, di belzuino, di eleomele, di cinnamomo, di tutti gli aromati, e di sandalo, di cedro, di terebinto, di tutti i legni odoriferi in varii strati. Gli indescrivibili colori delle vampe, ond'esse apparivano pavesate, evocavano i profumi e le spezie. Azzurre, verdi, glauche, crocee, violacee, di mescolanze indistinte, le vampe sembravano sprigionarsi da un incendio interiore e colorarsi di sconosciute sublimazioni. Non altrimenti avvamparono forse, negli antichi furori del saccheggio, i riposti serbatoi d'essenze destinati a macerar le spose dei principi sirii. Or così, nell'acqua cosparsa delle materie fuse che gemevano per le carene, la flotta magnifica e perduta s'avanzava verso il bacino lentamente, quasi fossero ebri sogni i suoi piloti e la conducessero a consumarsi, in conspetto del Leone stilite, come una gigantesca pira votiva da cui dovesse l'anima di Venezia restar profumata e stupefatta per l'eternità.

— L'Epifania del Fuoco! Quale impreveduto comento alla vostra poesia, Èffrena! La Città di Vita risponde con un prodigio al vostro atto di adorazione. Ella arde tutta, a traverso il suo velo d'acqua. Non siete pago? Guardate! Milioni di melagrane d'oro pendono ovunque.

L'attrice sorrideva, col volto rischiarato dalla festa. Ella sembrava tenuta da quell'allegrezza singolare che era ben nota a Stelio e che, per una specie di stridore sordo, gli dava imagine d'una casa chiusa e profonda ove d'improvviso mani violente aprissero tutte le porte e tutte le finestre su i cardini corrosi.

— Bisogna lodare Arianna — egli disse — per aver portata a questa armonia la nota più alta.

Egli non aveva proferito quelle parole se non per indurre la cantatrice a parlare, se non pel desiderio di conoscere qual fosse il timbro di quella voce discesa dall'elevazione del canto. Ma la sua lode si perse nel clamore iterato della folla che rigurgitò sul Molo e rese impossibile ogni indugio. Dalla riva egli aiutò le due amiche a discendere nella gondola; quindi sedette presso ai loro ginocchi, su lo sgabello. E la lunga prua dentata penetrò nell'incantesimo, scintillando.

— Al rio Marin, pel Canalazzo — ordinò la Foscarina al rematore. — Sapete, Èffrena? Avremo a cena qualcuno dei vostri migliori amici: Francesco de Lizo, Daniele Glauro, il principe Hoditz, Antimo della Bella, Fabio Molza, Baldassare Stampa...

— Avremo dunque un convito — interruppe Stelio.

— Ahimè, non quello di Cana!

— Ma non ci sarà dunque Lady Myrta coi suoi veltri paoleschi?

— Certo, Lady Myrta non mancherà. L'avete vista nella Sala. Era in una delle prime file, perduta in voi.

Poichè parlando si guardavano negli occhi, l'una e l'altro furono invasi da un turbamento subitaneo. E il ricordo della pienissima ora crepuscolare ch'essi avevano vissuta, su l'acqua medesima solcata da quel medesimo remo, riempì i loro cuori come un flutto di sangue torbido; e li sorprese un rapido ritorno di quell'angoscia che avevano provata entrambi nel punto di lasciar dietro di loro il silenzio dell'estuario già in signoria dell'ombra e della morte. E le loro labbra ripugnarono alle vane parole ingannevoli; e le loro anime si sottrassero allo sforzo di inclinarsi per prudenza verso quegli ornamenti passeggeri della vita di festa, cui elle non potevan riconoscere ora alcun pregio assorte nel considerare le strane figure che sorgevano dalle lor profondità con aspetti non mai veduti di mostruosa ricchezza, a simiglianza di quelle adunazioni tesauriche che gli sprazzi di luce scoprivano per entro all'acqua notturna.

Ma, poichè tacquero come quando erano per avvicinarsi al vascello dalla bandiera calante, sentirono più grave sul loro silenzio la presenza della creatura musicale come allora avevan sentito il suo nome; e quella gravezza a poco a poco divenne quasi intollerabile. Pur tuttavia a Stelio, che le era presso i ginocchi, ella appariva

discosta, come dianzi nella selva degli stromenti: discosta e inconsapevole come dianzi nella felicità del canto. Ella non aveva ancora parlato!

Sol per udirla parlare, Stelio le chiese quasi timido:

— Rimarrete ancora qualche tempo a Venezia?

Egli aveva cercato le parole da rivolgerle; e tutte quelle venutegli a fior delle labbra lo avevano turbato, gli erano parse piene di significati ambigui, troppo vive, insidiose, capaci di fecondazioni incalcolabili, come le ignote semenze da cui nascono le mille radici. Ed eragli parso che nessuna di quelle potesse anche essere udita da Perdita senza che l'amore di lei ne rimanesse più triste.

Soltanto dopo aver proferita la domanda semplice e usuale egli s'accorse che pur in questa poteva celarsi un infinito di desiderio e di speranza.

— Dovrò partire domani — rispose Donatella Arvale. — Già non dovrei esser qui.

La sua voce, tanto limpida e forte nelle altezze del canto, era piana, sobria, come soffusa d'una tenue opacità, suggerendo l'imagine del più prezioso metallo avvolto nel più delicato velluto. La sua risposta breve evocava un luogo di supplizio ov'ella dovesse tornare per sottomettersi a una tortura ben nota. Una volontà dolorosa, come un ferro temprato nelle lacrime, scintillò a traverso il velo della sua bellezza giovenile.

— Domani! — esclamò Stelio mostrando il suo rammarico sincero. — Avete udito, signora?

— Lo so — disse la Foscarina prendendo la mano di Donatella con un atto dolce — lo so; ed è una grande tristezza per me il vederla partire. Ma ella non può rimaner troppo tempo lontana dal padre. Voi forse ignorate ancora...

— Che? — domandò Stelio, vivacemente. — È malato? È dunque vero che Lorenzo Arvale è malato?

— No, è stanco — rispose la Foscarina toccandosi la fronte con un gesto forse involontario in cui Stelio vide l'orribile minaccia sospesa sul genio di quell'artefice ch'era parso fecondo e infaticabile come un maestro antico, come un Della Robbia o un Verrocchio. — È solamente stanco... solamente stanco... Ha bisogno di riposo e di balsami. E il canto di sua figlia è per lui un balsamo senza pari. Non avete fede anche voi, Èffrena, nelle virtù mediche della musica?

— Certo — egli rispose — Arianna ha un dono divino, per cui il suo potere trascende ogni limite.

Il nome di Arianna gli veniva spontaneo alle labbra per indicare la cantatrice quale egli la vedeva; poichè sembravagli di non poter far precedere il nome vero della fanciulla dall'appellativo ordinario che impongono le consuetudini mondane. Egli la vedeva integra e singolare, libera dai piccoli legami del costume, vivente d'una vita propria e circonscritta, simile a un'alta opera su cui lo stile abbia impresso il suo suggello inviolabile. Egli la vedeva isolata, come quelle figure che risaltano per un contorno approfondito e netto, estranea alla vita comune, fissa in un suo pensiero segretissimo; e provava già, dinanzi all'intensità di quel raccoglimento, una specie di appassionata impazienza non dissimile a quella dell'uomo curioso dinanzi a una chiusura ermetica che lo tenti.

— Arianna aveva per le sue pene il dono dell'oblìo — ella disse — che a me manca.

Un'amarezza forse involontaria tingeva le sue parole; in cui parve a Stelio di scoprire l'indizio d'una aspirazione verso una vita meno oppressa dal dolore inutile. Egli divinò in lei, per un rapido intuito, lo sdegno contro la schiavitù, l'orrore del sacrificio a cui pareva costringersi, il desiderio veemente di elevarsi verso la gioia, e l'attitudine ad esser tesa come un bell'arco da una mano forte che sapesse armarsene per un'alta conquista. Divinò ch'ella non aveva ormai più speranza per la salvezza del padre e ch'ella si doleva di non essere ormai se non la custode di un focolare estinto, di una cenere senza faville. E l'imagine del grande artefice fulminato gli apparve non quale era, poichè egli non ne aveva mai conosciuta la larva caduca, ma quale glie la fingevano le idee di bellezza espresse dal genio di lui nel marmo e nel bronzo duraturi. Ed egli la guardò fissamente, con un'angoscia di terrore più gelida di quella che inspirano i più atroci aspetti della morte. E tutta la sua forza e tutto il suo orgoglio e tutti i suoi desiderii parvero risonare in lui come un fascio d'armi squassato da una mano minacciosa; e non vi fu fibra che in lui non ne tremasse.

Allora la Foscarina sollevò quel drappo funebre che a un tratto aveva mutato la gondola in una bara, tra gli splendori della festa.

— Guardate là, Èffrena, — disse ella accennando al balcone della casa di Desdemona — la bella Nineta che riceve l'omaggio della Serenata, tra la sua scimmia e la sua cagnolina.

— Ah, la bella Nineta! — esclamò Stelio scotendo da sé il pensiero tristo, inchinandosi verso il balcone ridente, mandando con una vivacità cordiale il suo saluto alla piccola donna che ascoltava i musici illuminata da due candelabri d'argento ai cui viticci erano appese le ghirlande delle ultime rose. — Non l'avevo ancora riveduta. Ella è il più dolce e il più grazioso animale ch'io mi conosca. Che fortuna ebbe quel caro Hoditz quando la scoprì dietro il coperchio d'un arpicordo, mentre rovistava una bottega d'anticaglie a San Samuele. Due fortune in un giorno: la bella Nineta e un coperchio dipinto dal Pordenone. Da quel giorno l'armonia della sua vita fu piena. Come vorrei che voi entraste nel suo nido! Avreste un esempio veramente mirabile di ciò che io vi diceva oggi, al tramonto. Ecco un uomo che, obbedendo al suo gusto nativo della tenuità, ha saputo comporsi con un'arte minuziosa la sua favoletta in cui vive beato come il suo avo moravo nell'Arcadia di Rosswald. Ah, quante squisite cose io so di lui!

Una larga peota, ornata di lanterne variopinte, carica di musici e di cantori, stava ferma sotto la casa di Desdemona. La canzone antica della gioventù breve e della bellezza passeggera saliva dolcemente verso la piccola donna che ascoltava sorridendo del suo sorriso infantile tra la sua scimmia e la sua cagnolina, come in una stampa di Pietro Longhi.

Do beni vu ghavé,

Beleza e zoventù;

Co i va no i torna più,

Nìna mia cara...

— Non vi sembra che sia questa la vera anima di Venezia e che quella da voi figurata alla folla non sia se non la vostra, Èffrena? — disse la Foscarina dondolando un poco il capo nel ritmo della molle melodia che fluiva per tutto il Canal Grande ripetuta in lontananza dalle altre barche canore.

— No, non è questa — rispose Stelio. — È dentro di noi, vagante come una farfalla volubile su per la superficie della nostra anima profonda, un'animula, un esiguo spirito giocoso che spesso ci seduce e ci persuade a inclinarci verso i piaceri blandi e mediocri, verso i passatempi puerili, verso le musiche facili. Quest'animula vagula è pur nelle nature più gravi e più violente, come quel clown addetto alla persona di Othello; e talvolta inganna il giudizio. Voi udite ora canterellare su le chitarre l'animula di Venezia; ma l'anima vera non si discopre se non nel silenzio e più terribilmente — siatene certa — nella piena estate, di mezzogiorno, come il gran Pan. Pur tuttavia, là, sul bacino di San Marco, dianzi, io credeva che voi l'aveste sentita per qualche attimo vibrare nell'immenso incendio. Voi dimenticate Giorgione per la Rosalba!

Intorno alla peota canora s'assembravano i battelli pieni di donne languide che si piegavano verso la musica con attitudini d'abbandono come sul punto di venir meno fra braccia invisibili. E, intorno a quella voluttà accolta, le lanterne rispecchiate dall'acqua tremolavano come una fiorita di luminose ninfee multicolori.

Se lassarè passar

La bela e fresca età,

Un zorno i ve dirà

Vechia mauro;

E bramarè, ma invan,

Quel che ghavevi in man

Co avè lassà scampar

La congiontura.

Era veramente la canzone delle ultime rose che s'appassivano tra i viticci dei candelabri. Evocava nell'anima di Perdita il corteo dell'Estate defunta, l'involucro opalino in cui Stelio aveva chiuso il dolce cadavere vestito di oro. Ella vedeva l'imagine di sé a traverso il vetro suggellato dal Maestro del Fuoco, in fondo alla laguna, su la prateria d'alghe. Un gelo improvviso le occupò tutte le membra; di nuovo la strinsero l'orrore e il disgusto del suo corpo non più giovine. E ricordando la promessa recente, pensando che l'amato avrebbe potuto in quella notte medesima chiederle l'adempimento, di nuovo ella si contrasse tutta nel fremito di un pudore doloroso, misto di paura e d'orgoglio. I suoi occhi esperti e disperati percorsero la persona che le stava al fianco, la ricercarono, la penetrarono, ne sentirono la forza occulta ma certa, la freschezza intatta, la sanità pura, e quella indefinita virtù d'amore che tramandano come un aroma i corpi casti delle vergini quando hanno attinto la perfezione del lor fiorire. Le parve di riconoscere l'affinità segreta che già correva tra quella creatura e l'animatore; le parve d'indovinare le parole ch'egli le rivolgeva in silenzio. Un'angoscia atroce la morse nel mezzo del petto, intollerabile, così che le sue dita convulse si aggrapparono alla corda nera del bracciale con un gesto involontario e s'udì stridere il piccolo grifo di metallo che la reggeva.

Non sfuggì a Stelio quel gesto, vigilando egli inquieto. Comprese quell'angoscia estrema e la patì acutissima egli medesimo per qualche attimo ma commista a una impazienza quasi irosa poichè essa attraversava e interrompeva come un grido distruttore una finzione di vita trascendente ch'egli stava componendo in sé per conciliare il contrasto, per conquidere quella forza nuova che gli si presentava come un arco da tendere e per non perdere il sapore di quella maturità che la vita aveva impregnata di tutte le sue essenze, il beneficio di quell'attenzione e di quella fede appassionate da cui il suo intelletto era acuito come da un farmaco incensivo e il suo orgoglio era nutrito come da una continua lode. “Ah Perdita” egli pensava “perchè dal fermento dei vostri innumerevoli amori umani non s'è sprigionato un puro spirito d'amore più che umano? Ah, perchè ho io voluto finalmente vincervi col mio desiderio, se bene sappia che è troppo tardi, e perchè lasciate voi che io legga nei vostri occhi la certezza del prossimo dono tra un flutto di dubbii che non più varranno a risollevare il divieto abolito? Ben conoscendo entrambi che in quel divieto era tutta la nobiltà della nostra lunga comunione, noi non abbiamo saputo preservarlo; e cederemo ciecamente nell'ultima ora al comando di una torbida voce notturna. Pur dianzi, quando il vostro capo s'alzava nell'orbe delle costellazioni, io non ho più veduto in voi l'amante carnale ma la musa divulgatrice della mia poesia; e tutta la gratitudine della mia anima è venuta a voi per la promessa della gloria, non per la promessa del piacere. Non avete voi compreso come sempre? Con una meravigliosa invenzione, come sempre, non avete voi condotto pel raggio del vostro sorriso il mio desiderio verso una giovinezza splendente che voi mi avevate eletta e riserbata? Discendendo insieme a quella per la grande scala e venendo verso di me, non avevate voi l'aspetto di chi porta un dono o un annunzio inatteso? Non inatteso forse, Perdita, non inatteso; perchè qualche straordinario atto io mi attendeva dalla vostra sapienza infinita...”

— Com'è felice la bella Nineta tra la sua scimmia e la sua cagnolina! — sospirò la donna disperata volgendo indietro il capo verso la canzone facile e il balcone ridente.

La zoventù xe un fior

Che apena nato el mor,

E un zorno gnanca mi

No sarò quela.

Anche Donatella Arvale volse indietro il capo, e con lei Stelio Èffrena. Senza affondare, il naviglio leggiere portava quel pesante destino dai tre volti su l'acqua e su la musica.

E vegna quel che voi,

Lasse che vaga!

Per tutto il Canal Grande, ripetuta in lontananza da tutte le barche, scorreva la melodia del piacere fuggevole. Affascinati dal ritmo, anche i servi del remo unirono le loro voci al coro giocondo. Quella gioia ch'era parsa terribile all'animatore, nel primo grido della folla addensata sul Molo, ora s'attenuava, illasciviva, fioriva di giochi e di grazie, si faceva mite e indulgente. L'animula di Venezia ripeteva il ritornello della vita obliosa pizzicando le chitarre e danzando tra i festoni di lanterne.

E vegna quel che vol,

Lassé che vaga!

A un tratto, dinanzi il palazzo rosso dei Foscari, nella curva del canale, un gran bucentoro fiammeggiò come una torre che s'incendii. Nuove folgori crepitarono nel cielo. Nuove colombe ardenti s'involarono dal cassero, sorpassarono le altane, strisciarono giù pei marmi, si agitarono stridendo su l'acqua, vi si moltiplicarono per faville innumerevoli, vi galleggiarono fumigando. Lungo i parapetti, su pei castelli, a poppa, a prua, con una esplosione simultanea, mille fontane di fuoco s'apersero, si dilatarono, si mescolarono, illuminarono d'un violento rossore il canale dall'una parte e dall'altra, fino a San Vitale, fino a Rialto. Il bucentoro disparve alla vista, trasmutato in una nube purpurea e tonante.

— Per San Polo, per San Polo! — gridò la Foscarina al rematore, chinando il capo come sotto a una tempesta, difendendo con le palme i suoi orecchi dal tuono.

E Donatella Arvale e Stelio Èffrena si guardarono di nuovo con gli occhi abbagliati. E i loro volti splendevano accesi dai riflessi come se fossero chini su una fornace o su un cratere.

La gondola entrò nel rio di San Polo, s'insinuò nell'ombra. Un subito velo di gelo cadde su i tre taciturni. Sotto l'arco del ponte le anime riudirono la cadenza del remo; e lo strepito della festa parve infinitamente remoto. Tutte le case erano oscure; il campanile era muto e solo fra le stelle; il campiello del Remer, il campiello del Pistor erano deserti, e l'erba vi respirava in pace; gli alberi, soverchiando le mura dei piccoli orti, sentivano morire le foglie su i rami alzati verso il cielo sereno.

— Almeno per qualche ora dunque, a Venezia, il ritmo dell'arte e il polso della vita han riavuto un medesimo battito — disse Daniele Glàuro sollevando su la mensa il suo calice a cui mancava la patèna sacra. — Mi sia concesso di esprimere, anche per un gran numero di assenti, la riconoscenza e il fervore che confondono in una sola imagine di bellezza le tre persone a cui dobbiamo il miracolo: la signora del convito, la figlia di Lorenzo Arvale e il poeta di Persefone.

— Perchè anche la signora del convito, Glàuro? — domandò sorridendo la Foscarina con una grazia attonita. — Anch'io, come voi, non ho dato ma ho ricevuto gioia. Bisogna incoronare Donatella e il donatore. La gloria va ad entrambi.

— Ma la vostra presenza silenziosa, nella Sala del Maggior Consiglio, dianzi, presso la sfera celeste, — rispose il dottor mistico — non era meno eloquente della parola di Stelio, nè meno musicale del canto di Arianna. Anche una volta voi avete scolpito divinamente nel silenzio la vostra propria statua, che vive nel nostro ricordo con la parola e col canto.

Stelio Èffrena, per un brivido occulto e profondissimo, rivide il mostro efimero e versatile fuor del cui fianco emergeva la musa tragica dal capo alzato nell'orbe delle costellazioni.

— È vero! È vero! — esclamò Francesco de Lizo. — Anch'io ho questo pensiero. Chi vi guardava vi riconosceva come il centro vivente di quel mondo ideale che ognuno di noi — di noi fedeli, di noi prossimi — sentiva formarsi dalle sue stesse aspirazioni ascoltando la parola, il canto e la sinfonia.

— Ognuno di noi — disse Fabio Molza — sentiva che nella vostra figura dominante su la folla, incontro al poeta, era un significato insolito e grandissimo.

— Sembrava che voi sola foste per assistere alla nascita misteriosa di un'idea nuova — disse Antimo della Bella. — Tutto intorno sembrava animarsi per generare quell'idea, che presto sarà a noi rivelata, se ci valga l'averla attesa con tanta fede.

L'animatore, con un altro brivido, sentì sussultare entro di sé l'opera ch'egli nutriva, ancora informe ma già vitale; e tutta la sua anima si inclinò con un moto impetuoso, come investita da un soffio lirico, verso la potenza di fecondazione e di rivelazione ch'emanava dalla donna dionisiaca a cui saliva la lode di quegli spiriti ferventi.

Ella a un tratto era divenuta bellissima, creatura notturna foggiata dalle passioni e dai sogni su un'incudine d'oro, simulacro spirante dei fati immortali e degli enigmi eterni. Se bene ella fosse immobile, se bene ella tacesse, i suoi accenti famosi, i suoi gesti memorabili parevano vivere intorno a lei e vibrare indefinitamente come le melodie intorno alle corde che sogliono ripeterle, come le rime intorno al libro chiuso ove l'amore e il dolore sogliono ricercarle per inebriarsene e per consolarsene. La fedeltà eroica di Antigone, il furore fatidico di Cassandra, la divorante febbre di Fedra, la ferocia di Medea, il sacrifizio d'Ifigenia, Mirra dinanzi al padre, Polissena e Alceste dinanzi alla morte, Cleopatra volubile come il vento e la vampa sul mondo, Lady Macbeth veggente carnefice dalle piccole mani, e i grandi gigli imperlati di rugiade e di lacrime, Imogene, Giulietta, Miranda, e Rosalinda e Jessica e Perdita, le più dolci anime e le più terribili e le più magnifiche erano in lei, abitavano il suo corpo, balenavano per le sue pupille, respiravano per la sua bocca che sapeva il miele e il veleno, la coppa gemmata e la tazza di scorza. Così in una vastità senza limiti e in un tempo senza fine pareva ampliarsi e perpetuarsi il contorno della sostanza e dell'età umana; pur tuttavia non da altro se non dal moto di un muscolo, da un cenno, da un segno, da un lineamento, da un battito di palpebre, da una tenue mutazione di colore, da una lievissima reclinazione della fronte, da un fuggevole gioco di ombre e di luci, da una fulminea virtù espressiva irradiata nella carne angusta e frale si generavano di continuo quei mondi infiniti d'imperitura bellezza. I genii stessi dei luoghi consacrati dalla poesia alitavano sopra di lei, la cingevano di visioni alterne. Il piano polveroso di Tebe, l'Argolide sitibonda, i mirti arsicci di Trezene, i santi olivi di Colono, il trionfale Cidno, e la pallida campagna di Dunsinana, e la caverna di Prospero, e la selva delle Ardenne, i paesi rigati di sangue, travagliati dal dolore, trasfigurati da un sogno o rischiarati da un sorriso inestinguibile, apparivano, lontanavano, dileguavano dietro la sua testa. E altri paesi remoti, le regioni delle brume, le lande settentrionali, i continenti immensi di là dagli oceani ov'ella era passata come una forza inaudita tra le moltitudini attonite portando la parola e la fiamma, dileguavano dietro la sua testa; e le moltitudini con i monti con i fiumi con i golfi con le città impure, le stirpi assiderate e antichissime, i popoli forti anelanti al dominio della terra, le genti nuove che strappano alla natura le energie più segrete per asservirle al lavoro onnipossente negli edifizii di ferro e di cristallo, le colonie di razze imbastardite che fermentano e si corrompono su un suolo vergine, tutte le folle barbariche a cui ella era apparsa come una rivelazione sovrana del genio latino, tutte le torme ignare a cui ella aveva parlato la lingua sublime di Dante, tutte le innumerevoli greggi umane ond'era salita verso di lei sopra un flutto di ansie e di speranze confuse l'aspirazione verso la Bellezza. Ella era là, creatura di carne caduca, soggetta alle tristi leggi del tempo; e una smisurata massa di vita reale e ideale gravava su lei, si allargava intorno a lei, pulsava col ritmo di quel respiro stesso. Non nella finzione soltanto ella aveva gittato i suoi gridi e soffocato i suoi singhiozzi, ma nella vita comune. Violentemente amato, lottato, sofferto ella aveva per sé, per la sua anima, per il suo sangue. Quali amori? quali contrasti? quali spasimi? Da quali abissi di malinconia aveva ella tratto le sublimazioni della sua virtù tragica? A quali fonti d'amaritudine aveva ella abbeverato il suo libero genio? Certo ella era stata testimone delle più truci miserie, delle più cupe mine; ella aveva conosciuto gli sforzi eroici, la pietà, l'orrore, il limitare della morte. Tutte le sue seti riardevano nel delirio di Fedra, e nella sommessione d'Imogene ritremavano tutte le sue tenerezze. Così la Vita e l'Arte, il passato irrevocabile e l'eternamente presente, la facevano profonda, multanime e misteriosa; magnificavano oltre i limiti umani le sue sorti ambigue; la eguagliavano ai templi e alle foreste.

Ed ella era là, respirante, sotto gli occhi dei poeti che la vedevano una e diversa.

“Ah, io ti possederò come in un'orgia vasta; io ti scrollerò come un fascio di tirsi; io scoterò nella tua carne esperta tutte le cose divine e mostruose che t'aggravano, e le cose compiute e quelle in travaglio che crescono entro di te come una stagione sacra” parlava il demone lirico dell'animatore riconoscendo nel mistero della donna presente la potenza superstite del mito primitivo, l'iniziazione rinnovellata del nume che aveva fuso in un sol fermento tutte le energie della natura e col variare dei ritmi aveva sollevato i sensi e gli spiriti umani al sommo della gioia e del dolore nel suo culto entusiastico. “Mi gioverà, mi gioverà l'avere atteso. Il mutare degli anni, il tumulto dei sogni, i palpiti della lotta, la rapidità dei trionfi, l'impurità degli amori, gli incantesimi dei poeti, le acclamazioni dei popoli, le meraviglie della terra, la pazienza e la furia, i passi nel fango, i ciechi voli, tutto il male, tutto il bene, quel che io so e quel che io ignoro, quel che tu sai e quel che tu ignori, tutto fu per la pienezza della mia notte.”

Egli si sentiva soffocare e impallidire. Il desiderio lo aveva preso alla gola con un impeto selvaggio, per non più lasciarlo. E il cuore gli si gonfiava di quella medesima ansietà che avevano provato entrambi nel vespro navigando su quell'acqua che pareva scorrere per loro in una clessidra spaventosa.

Così per lui vanendo a un tratto la visione smisurata dei luoghi e degli eventi, la creatura notturna riappariva ancor più profondamente commista con la Città dalle mille cinture verdi e dagli immensi monili. Nella città e nella donna egli vedeva ora una forza d'espressione non mai veduta prima. L'una e l'altra ardevano nella notte d'autunno, correndo per le vene e per i canali una medesima febbre.

Scintillavano gli astri, ondeggiavano gli alberi dietro il capo di Perdita, si profondava un giardino. Dai balconi aperti entravano nel cenacolo i soffii del cielo, agitavano le fiammelle dei candelabri e i calici dei fiori, passavano per le porte, facevano palpitare le tende, animavano tutta la vecchia casa dei Capello ove quell'ultima grande figliuola di San Marco, che i popoli avevano coperta di gloria e d'oro, adunava le reliquie della magnificenza republicana. I fanali dei galioni, le targhe alla turchesca, le faretre di cuoio, i caschi di bronzo, le sciablache di velluto ornavano le stanze all'estrema discendente di quel meraviglioso Cesare Darbes che aveva tenuto in vita la Comedia dell'arte contro la riforma goldoniana e mutato in una convulsione di riso l'agonia della Serenissima.

— Io non chiedo se non di servire quell'idea, umilmente — disse la Foscarina ad Antimo della Bella, con un leggero tremito nella voce poichè ella aveva incontrato lo sguardo di Stelio.

— Voi sola potrete farla trionfare — disse Francesco de Lizo. — L'anima della folla vi è sommessa per sempre.

— Il drama non può essere se non un rito o un messaggio — sentenziò allora Daniele Glàuro. — Bisogna che la rappresentazione sia resa novamente solenne come una cerimonia, comprendendo essa i due elementi constitutivi d'ogni culto: la persona vivente in cui s'incarna su la scena come dinanzi all'altare il verbo d'un Rivelatore; la presenza della moltitudine muta come nei templi...

— Bayreuth! — interruppe il principe Hoditz.

— No; il Gianicolo, — gridò Stelio Èffrena uscendo all'improvviso dal suo silenzio vertiginoso — un colle romano. Non il legno e il mattone dell'Alta Franconia; noi avremo sul colle romano un teatro di marmo.

L'opposizione subitanea delle sue parole sembrava quasi mossa da un dispregio allegro.

— Non ammirate l'opera di Riccardo Wagner? — gli chiese Donatella Arvale con un leggero corrugar dei sopraccigli, che per un attimo rese quasi duro il suo volto ermetico.

Egli la guardò nelle pupille, sentendo quel che v'era d'oscuramente ostile nel mondo della vergine e provando contro di lei quell'indistinta nimistà egli stesso. Anche allora egli la vide isolata, vivente d'una vita propria e circonscritta, fissa in un suo pensiero segretissimo, estranea ed inviolabile.

— L'opera di Riccardo Wagner — egli ripose — è fondata su lo spirito germanico, è d'essenza puramente settentrionale. La sua riforma ha qualche analogia con quella tentata da Lutero. Il suo drama non è se non il fiore supremo del genio d'una stirpe, non è se non il compendio straordinariamente efficace delle aspirazioni che affaticarono l'anima dei sinfoneti e dei poeti nazionali, dal Bach al Beethoven, dal Wieland al Goethe. Se voi imaginaste la sua opera su le rive del Mediterraneo, tra i nostri chiari olivi, tra i nostri lauri svelti, sotto la gloria del cielo latino, la vedreste impallidire e dissolversi. Poichè — secondo la sua stessa parola — all'artefice è dato di veder risplender della perfezione futura un mondo ancora informe e di gioirne profeticamente nel desiderio e nella speranza, io annunzio l'avvento d'un'arte novella o rinnovellata che per la semplicità forte e sincera delle sue linee, per la sua grazia vigorosa, per l'ardore de' suoi spiriti, per la pura potenza delle sue armonie, continui e coroni l'immenso edifizio ideale della nostra stirpe eletta. Io mi glorio d'essere un latino; e — perdonatemi, o sognante Lady Myrta, perdonatemi, o delicato Hoditz — riconosco un barbaro in ogni uomo di sangue diverso.

— Ma anch'egli, Riccardo Wagner, sviluppando il filo delle sue teorie, si parte dai Greci — disse Baldassare Stampa che, reduce da Bayreuth, era ancor tutto pieno dell'estasi.

— Filo ineguale e confuso — rispose il maestro. — Nulla è più lontano dall'Orestiade quanto la tetralogia dell'Anello. Penetrarono assai più profondamente l'essenza della tragedia greca i Fiorentini di Casa Bardi. Omaggio alla Camerata del Conte di Vernio!

— Io ho sempre pensato che la Camerata fosse un'adunanza oziosa di eruditi e di retori — disse Baldassare Stampa.

— Hai udito, Daniele? — esclamò Stelio rivolgendosi al dottor mistico. — Quando mai vi fu al mondo un focolare d'intelligenza più fervido? Essi cercavano nell'antichità greca lo spirito di vita: essi tentavano di sviluppare armoniosamente tutte le energie umane, di manifestare con tutti i mezzi dell'arte l'uomo integro. Giulio Caccini insegnava che all'eccellenza del musico non servono solo le cose particolari ma tutte insieme le cose. La capellatura fulva di Jacopo Peri, dello Zazzerino, fiammeggiava nel canto come quella di Apollo. Nel discorso preposto alla Rappresentazione di Anima et di Corpo Emilio del Cavaliere espone intorno alla formazione del teatro novello le medesime idee che furono attuate a Bayreuth, compresi i precetti del perfetto silenzio, dell'orchestra invisibile e dell'ombra favorevole. Marco da Gagliano, nel celebrare lo spettacolo di festa, fa l'elogio di tutte le arti che vi concorrono “di maniera che con l'intelletto vien lusingato in uno stesso tempo ogni sentimento più nobile dalle più dilettevoli arti ch'abbia ritrovato l'ingegno umano”. Non basta?

— Il Bernino — disse Francesco de Lizo — fece rappresentare a Roma un'opera per la quale egli stesso costruì il teatro, dipinse le scene, scolpì le statue ornamentali, inventò le macchine, scrisse le parole, compose la musica, regolò le danze, ammaestrò gli attori, danzò, cantò, recitò.

— Basta, basta! — gridò il principe Hoditz ridendo. — Il barbaro è vinto.

— Non basta ancora — disse Antimo della Bella — Bisogna glorificare il più grande degli innovatori, che la passione e la morte consacrarono veneziano, colui che ha il sepolcro nella chiesa dei Frari, degno d'un pellegrinaggio: il divino Claudio Monteverde.

— Ecco un'anima eroica, di pura essenza italiana! — assentì Daniele Glàuro con reverenza.

— Egli compì l'opera sua nella tempesta, amando, soffrendo, combattendo, solo con la sua fede, con la sua passione e col suo genio — disse la Foscarina lentamente, come assorta nella visione di quella vita dolorosa e coraggiosa che aveva nutrito del più caldo suo sangue le creature della sua arte. — Parlateci di lui, Èffrena.

Stelio vibrò come se ella lo avesse toccato all'improvviso. Ancora una volta la virtù espressiva di quella bocca divulgatrice evocò da una indefinita profondità una figura ideale che risorse come da un sepolcro dinanzi agli occhi dei poeti assumendo il colore e il soffio dell'esistenza. L'antico sonator di viola, vedovo ardente e triste come l'Orfeo della sua favola, apparve nel cenacolo.

Fu un'apparizione di fuoco assai più fiera e più abbagliante di quella che aveva acceso il bacino di San Marco: una infiammata forza di vita, espulsa dall'imo grembo della natura verso l'ansia delle moltitudini; una veemente zona di luce, erotta da un cielo interiore a rischiarare i fondi più segreti della volontà e del desiderio umano; un inaudito verbo, emerso dal silenzio originario a esprimere quel che v'è di eterno e di eternamente indicibile nel cuore del mondo.

— Chi potrebbe parlare di lui se egli medesimo volesse parlarci? — disse l'animatore, turbato, non riuscendo a contenere la crescente pienezza che dentro gli fluttuava come un mare d'angoscia.

E guardò la cantatrice; e la vide quale ella eragli apparsa tra la selva degli stromenti, nelle pause, bianca ed esanime come un simulacro.

Ma lo spirito di bellezza evocato doveva manifestarsi in lei.

— Arianna! — soggiunse Stelio sommessamente come per risvegliarla.

Ella si levò senza parlare, andò verso una porta, entrò nella stanza attigua. S'udì il fruscio della sua veste, il suono lieve del suo passo; e poi il rumore del cembalo che s'apriva. Tutti erano muti e intenti. Un silenzio musicale occupava il posto rimasto vuoto, nel cenacolo. Una sola volta il soffio del vento inclinò le fiammelle, commosse i fiori. Tutto poi sembrò immobile e ansioso nell'aspettazione.

Lasciatemi morire!

D'un tratto, le anime furono rapite da un potere che parve l'aquila fulminea da cui Dante nel sogno fu rapito insino al fuoco. Esse ardevano insieme nella sempiterna verità, udivano la melodia del mondo passare a traverso la loro estasi luminosa.

Lasciatemi morire!

Arianna, ancora Arianna piangeva con un novo dolore? saliva saliva ancora nel martirio?

E che volete

Che mi conforte

In così dura sorte,

In così gran martire?

Lasciatemi morire!

La voce tacque; la cantatrice non riapparve. L'aria di Claudio Monteverde si compose nel ricordo come un lineamento immutabile.

— V'è forse un marmo greco che sia giunto a una perfezione di stile più ingenua e più sicura? — disse Daniele Glàuro sommessamente, quasi temesse di turbare il silenzio musicale.

— Ma quale dolore su la terra ha mai pianto così? — balbettò Lady Myrta con gli occhi pieni di lacrime che le scorrevano giù per le rughe del povero viso esangue, mentre le sue mani difformate dalla chiragra tremavano nell'asciugarle.

L'austero intelletto dell'asceta e quella dolce anima sensitiva chiusa nella vecchia carne inferma testimoniavano della medesima potenza. Così, quasi tre secoli innanzi, a Mantova, nel famoso teatro, seimila spettatori non avevano potuto contenere i singhiozzi; e i poeti avevano creduto alla presenza vivente d'Apollo su la nuova scena.

— Ecco, Baldassare, che un artefice di nostra stirpe — disse Stelio Èffrena — con i più semplici mezzi giunge a toccare il sommo grado di quella bellezza a cui s'avvicinò rare volte il Germano nella sua confusa aspirazione verso la patria di Sofocle.

— Conosci tu il lamento del re malato? — gli chiese il giovine dalla lunga capellatura febea ch'egli portava come un retaggio della Saffo Veneziana, dell'“alta Gasparra”, della sventurata amica di Collaltino.

— Tutta l'angoscia di Amfortas è in un mottetto che io conosco “Peccantem me quotidie”; ma con che impeto lirico, con che semplicità possente! Tutte le forze della tragedia vi sono quasi direi sublimate come gli istinti d'una moltitudine in un cuore eroico. La parola del Palestrina, assai più antica, mi sembra anche più pura e più virile.

— Ma il contrasto di Kundry e di Parsifal nel secondo atto, il motivo di Herzeleide, la figura impetuosa, la figura del dolore tratta dal motto dell'agape sacra, il motivo dell'aspirazione di Kundry, il tema profetico della promessa, il bacio su la bocca dell'adolescente folle, tutto quello straziante e inebriante contrasto di desiderio e di orrore... “La piaga, la piaga! Ecco che mi brucia, ecco che sanguina in me!” E su la smania disperata della tentatrice la melodia della sommessione... “Lasciami piangere sul tuo petto! Che per un'ora io mi congiunga a te e, pur se Dio mi respinga, sarò in te redenta e salva!” E la risposta di Parsifal in cui ritorna con una solennità così grandiosa il motivo del Folle ormai trasfigurato nell'Eroe promesso... “L'inferno per noi in eterno se anche un'ora io lasci che tu mi stringa fra le tue braccia.” E l'estasi selvaggia di Kundry... “Poichè il mio bacio t'ha reso veggente, l'amplesso intero del mio amore ti farà divino. Un'ora, un'ora sola con te; e sarò salva!” E gli ultimi sforzi della sua volontà demoniaca, il supremo gesto d'allettamento, la implorazione e l'offerta furibonda... “Solo il tuo amore mi salva. Lascia ch'io t'ami! Mio, un'ora sola! Tua, un'ora sola!”

Perdutamente Perdita e Stelio si guardarono negli occhi; in un battito di palpebre si mescolarono, si confusero, gioirono e spasimarono come su un letto di voluttà e di morte.

La Marangona, la massima campana di San Marco, sonava nella mezza notte. E, come già nell'ora del vespro, essi credettero sentire il rombo del bronzo nelle radici dei capelli, quasi un brivido della carne loro. Credettero sentir passare novamente su le loro teste quell'immenso turbine di suono in cui avevano veduto a un tratto levarsi le apparizioni della Bellezza consolatrice invocate dalla Preghiera unanime. Tutti i fantasmi delle acque, gli infiniti ondeggiamenti del desiderio dissimulato, l'ansietà, la promessa, l'addio, la festa, e il mostro formidabile dagli innumerevoli volti umani, e la grande sfera stellare, e le acclamazioni, e la sinfonia, e il canto, e i prodigi del fuoco, il passaggio pel canale sonoro, la canzone della gioventù breve, la lotta e l'angoscia muta nel naviglio, l'ombra improvvisa su i tre destini, il convito illuminato dall'idea bella, gli annunzii, le speranze, gli orgogli, tutte le pulsazioni della vita forte si rinnovarono in loro concordemente, si accelerarono, furono mille e furono una. E credettero essi di aver vissuto oltre ogni limite umano, e che fosse in quell'attimo dinanzi a loro una immensità ignota ch'essi potessero attrarre come in un sorso un oceano; poichè, avendo tanto vissuto, sembravano vacui; poichè, avendo tanto bevuto, erano sitibondi. Un'illusione violenta s'era impadronita delle loro anime ricche. L'una credette di crescere smisuratamente nella ricchezza dell'altra. La vergine era scomparsa. Gli occhi della donna disperata e nomade ripetevano: “L'amplesso intero del mio amore ti farà divino. Un'ora, un'ora sola con te; e sarò salva! Mio, un'ora sola! Tua, un'ora sola!”.

E la tragedia sacra continuava a innalzarsi nell'eloquenza dell'entusiasta. Kundry, la tentatrice furente, la schiava del desiderio, la Rosa dell'Inferno, l'originale Perdizione, la maledetta, riappariva ora nell'alba primaverile; riappariva umile e pallida sotto la veste della messaggera, curva il capo, spenta lo sguardo, avendo nella voce rauca e rotta un sola parola: “Servire, servire!”

La melodia della solitudine, la melodia della sommessione, la melodia della purificazione preparavano intorno alla sua umiltà l'incantesimo del Venerdì Santo. Ed ecco Parsifal nella nera armatura, col morione chiuso, con la lancia bassa, assorto in un sogno infinito. “Io vengo per sentieri perigliosi, ma forse questo giorno mi salva poichè odo il murmure della divina foresta... ” La speranza, la doglia, il rimorso, il ricordo, la promessa, la fede anelante verso la salute, misteriose melodie sacre parevano tessere il manto ideale di cui doveva coprirsi il Semplice, il Puro, il promesso Eroe inviato a guarire la piaga immedicabile. “Mi condurrai tu oggi verso Amfortas? ” Egli s'illanguidiva, mancava, tra le braccia del vecchio. “Servire, servire!” La melodia della sommessione si distendeva nell'orchestra anche una volta, fugando la primitiva figura impetuosa. “Servire!” La donna fedele portava l'acqua, s'inginocchiava umile e ardente, lavava i piedi amati. “Servire!” La donna fedele traeva dal suo seno un vasello di balsamo, ungeva i piedi amati; poi li tergeva con la sua capellatura disciolta. “Servire!” Su la peccatrice s'inclinava il Puro, su la selvaggia testa versava egli il puro elemento. “Così compio il mio primo officio. Ricevi il battesimo e credi al Redentore!” Con la fronte Kundry toccava la terra, prorompendo in pianto, liberata dal desiderio, liberata dalla maledizione. Ed ecco, dalle profonde armonie finali dell'appello al Redentore, disciogliersi, ascendere, spandersi con una sovrumana soavità la melodia del prato fiorito. “Com'è bello oggi il prato! Meravigliosi fiori un dì m'allacciarono, ma non mai l'erba e la corolla ebbero questo profumo...” Estatico Parsifal contemplava il prato e la selva ridenti di rugiade nella luce mattutina.

— Ah, chi dimenticherà mai il momento sublime? — esclamò l'affascinato nel cui volto scarno parve ribalenare quella folgore di gioia. — Tutti, nella tenebra del teatro, eravamo fissi in una perfetta immobilità, come una sola massa compatta. Pareva che il sangue si fosse arrestato in tutte le vene per ascoltare. Dal Golfo Mistico la musica saliva in illusione di luce; le note si convertivano in raggi di sole primaverile, si generavano col giubilo del filo d'erba che fende la terra, della corolla che si apre, del ramo che mette le gemme, dell'insetto che mette le ali. E tutta l'innocenza delle cose che nascono entrava in noi; e l'anima riviveva non so che sogno dell'infanzia lontana... Infantia, la parola di Vettor Carpaccio. Ah, come hai saputo ripeterla tu, Stelio, dianzi, alla nostra vecchiezza! E come hai saputo darci il rammarico di quel che abbiamo perduto e la speranza di recuperarlo per mezzo dell'arte ricongiunta indissolubilmente alla vita!

Stelio Èffrena taceva, sentendosi come oppresso dal peso dell'opera gigantesca fornita da quel creatore barbarico che l'entusiasmo di Baldassare Stampa aveva evocato incontro alla figura ardente del tragedo di Arianna e di Orfeo. Una specie di rancore istintivo, una oscura ostilità che non era d'intelletto, lo sollevava avverso quel Germano pertinace ch'era riuscito a infiammare di sé il mondo. Per ottener la vittoria su gli uomini e su le cose, anche colui non aveva fatto se non esaltar la sua imagine e magnificare il suo proprio sogno di bellezza dominatrice. Anche colui era andato alla folla come alla preda preferibile. Anche colui aveva posto a sua disciplina lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua. E ora egli aveva il tempio del suo culto, su la collina bàvara.

— Soltanto l'arte può ricondurre gli uomini all'unità — disse Daniele Glàuro. — Onoriamo l'alto maestro che ha testimoniato questa fede per sempre! Il suo Teatro di Festa, se bene di legno e di mattone, imperfetto e angusto, ha un sublime significato. Quivi l'opera d'arte non appare se non come la religione fatta sensibile sotto una forma vivente. Il drama è un rito.

— Onoriamo Riccardo Wagner — disse Antimo della Bella. — Ma, se quest'ora dev'essere memorabile per un annunzio e per una promessa che attendiamo da colui il quale dianzi mostrava alla folla il naviglio misterioso, invochiamo novamente come auspice l'anima eroica che ci ha parlato nella voce di Donatella Arvale. Ponendo la prima pietra del suo Teatro di Festa, il poeta di Siegfried la consacrò alle speranze e alle vittorie germaniche. Il Teatro d'Apollo, che s'alza rapidamente sul Gianicolo dove un tempo scendevano le aquile a portare i presagi, non sia se non la rivelazione monumentale dell'idea verso di cui la nostra stirpe è condotta dal suo genio. Riaffermiamo il privilegio onde la natura fece insigne il nostro sangue.

Stelio Effrena taceva, sconvolto da forze vorticose che lo travagliavano con una sorta di furor cieco, simili alle energie sotterranee che sollevano squarciano trasfigurano i paesi vulcanici creandovi i nuovi monti e i nuovi abissi. Tutti gli elementi della sua vita interiore, investiti da quell'impeto, parevano nel tempo medesimo dissolversi e moltiplicarsi. Imagini grandiose e terribili passavano su quel tumulto accompagnate da nembi di musiche. Concentrazioni e dispersioni rapidissime di pensieri si succedevano come le scariche elettriche nell'uragano. A tratti, era come s'egli udisse clamori e canti per una porta che si spalancasse e si richiudesse di continuo; era come se le raffiche gli recassero le grida di una strage e di un'apoteosi lontana alterne. Vide all'improvviso, con l'intensità delle visioni febrili, la terra arsa e fatale dove egli voleva far vivere le anime della sua tragedia; ne sentì tutta la sete in sé. Vide la fonte mitica che sola interrompeva l'arsura, e sul palpito delle polle il candore della vergine che quivi doveva morire. Vide la maschera dell'eroina sul volto di Perdita, composta nella bellezza di un dolore straordinariamente calmo. Poi l'antica arsura del piano d'Argo si convertì in fiamme; la fonte Perseia fluì come un fiume volubile. Il fuoco e l'acqua, i due elementi primordiali, passarono su tutte le cose, cancellarono ogni segno, si diffusero, errarono, lottarono, trionfarono, favellarono, ebbero un verbo, ebbero un linguaggio per rivelare la loro intima essenza, per raccontare i miti innumerevoli ch'eran nati dalla loro eternità. La sinfonia espresse il drama delle due Anime elementari su la scena dell'Universo, la lotta patetica dei due grandi Esseri viventi e mobili, delle due Volontà cosmiche, quale se la fingeva il pastore Arya su gli altipiani contemplando gli spettacoli con occhi puri. Ed ecco, dal centro medesimo del mistero musicale, dall'imo gorgo dell'oceano sinfonico, sorse l'Ode — portata dalla voce umana — e attinse la massima altezza. Il miracolo beethoveniano si rinnovava. L'Ode alata, l'Inno, erompeva dalla profondità dell'orchestra per dire, in una maniera imperiosa e assoluta, la gioia e il dolore dell'Uomo. Non il Coro, come nella Nona, ma la Voce solitaria e dominatrice: l'interprete, la messaggera della moltitudine. “La sua voce, la sua voce! Ella è scomparsa. Il suo canto pareva toccare il cuore del mondo; ed ella era di là dal velo” diceva l'animatore, avendo di nuovo negli occhi la statua di cristallo per entro a cui avea veduto ascendere la vena della melodia. “Ti cercherò, ti ritroverò, m'impadronirò del tuo segreto. Tu canterai i miei inni, alzata su la sommità delle mie musiche.” Liberato da ogni desiderio impuro, egli considerava la spoglia della vergine come il ricettacolo, come la custodia di un divino dono. Egli udiva la voce incorporea sorgere dalla profondità dell'orchestra per rivelare la parte di verità sempiterna ch'era nel fatto efimero, nell'evento passeggero. L'ode coronava di luce l'episodio. Allora, quasi a ricondurre verso il gioco delle apparenze lo spirito rapito “di là dal velo”, una figura di danza si disegnò sul ritmo dell'ode morente. Entro un parallelogramma inscritto nell'arco scenico, come entro i confini di una strofe, la danzatrice silenziosa con le linee del suo corpo, redento per alcuni attimi dalle tristi leggi del peso, imitò il fuoco l'acqua il turbine le evoluzioni delle stelle. “La Tanagra, fiore di Siracusa, tutta fatta di ali come un fiore di petali!” Così egli evocava l'imagine della Siciliana, già celebre, che aveva ritrovata l'antica arte orchestica quale era al tempo in cui Frinico potè vantarsi di avere in sé tante figure di danza quante onde solleva una notte procellosa d'inverno sul mare. L'attrice, la cantatrice, la danzatrice, le tre donne dionisiache, gli apparivano come gli strumenti perfetti e quasi divini delle sue finzioni. Con una incredibile celerità, nella parola nel canto nel gesto nella sinfonia la sua opera s'integrava e viveva d'una vita oltrepossente dinanzi alla moltitudine soggiogata.

Egli taceva, perduto in quel mondo ideale, inteso a misurare lo sforzo necessario per manifestarlo. Le voci dei prossimi gli giungevano come di lontano.

— Riccardo Wagner afferma che il solo creatore dell'opera d'arte è il popolo — diceva Baldassare Stampa — e che l'artista può soltanto cogliere ed esprimere la creazione del popolo inconsapevole...

Il sentimento straordinario, di cui egli erasi stupito quando dal trono dei Dogi parlava alla folla, tornò ad occuparlo. Nella comunione tra la sua anima e l'anima della folla un mistero era sopravvenuto, quasi divino; qualche cosa di più grande e di più forte erasi aggiunto al sentimento che egli aveva della sua persona consueto; un ignoto potere era parso convergere in lui abolendo i confini della persona particolare e conferendo alla voce solitaria la concordia d'un coro. V'era dunque nella moltitudine una bellezza riposta, donde il poeta e l'eroe soltanto potevano trarre baleni. Quando quella bellezza si rivelava per l'improvviso clamore alzato nel teatro o su la piazza publica o nella trincea, allora un torrente di gioia gonfiava il cuore di colui che aveva saputo suscitarla col verso, con l'arringa, col segno della spada. La parola del poeta comunicata alla folla era dunque un atto, come il gesto dell'eroe. Era un atto che creava dall'oscurità dell'anima innumerevole un'istantanea bellezza, come uno statuario portentoso potrebbe da una mole d'argilla trarre con un sol tocco del suo pollice plastico una statua divina. Cessava allora il silenzio disteso, come una cortina sacra, sul poema compiuto. La materia della vita non era più evocata dai simboli immateriali; ma la vita manifestavasi per il poeta integra, il verbo facevasi carne, il ritmo si accelerava in una forma respirante e palpitante, l'idea si enunciava nella pienezza della forza e della libertà.

— Ma Riccardo Wagner — diceva Fabio Molza — pensa che il popolo consista di tutti coloro i quali sentono una miseria comune, intendete?, una miseria comune...

“Verso la Gioia, verso l'eterna Gioia!” pensava Stelio Èffrena. “Il popolo consiste di tutti coloro i quali sentono un oscuro bisogno di elevarsi, per mezzo della Finzione, fuor della carcere cotidiana in cui servono e soffrono.” Scomparivano gli angusti teatri urbani ove, nel calore soffocante e pregno di tutte le impurità, dinanzi a una schiera di crapuloni e di meretrici, gli attori fanno ufficio di spintrie. Egli vedeva su le gradinate del novo teatro la folla vera, l'immensa folla unanime di cui aveva sentito l'odore e udito il clamore dianzi nella conca marmorea sotto le stelle. Nelle anime rudi e ignare la sua arte, pur non compresa, per il potere misterioso del ritmo recava un turbamento profondo, simile a quello del prigioniere che sia sul punto di essere liberato dai duri vincoli. La felicità della liberazione si spandeva a poco a poco nei più abietti; le fronti solcate si rischiaravano; le bocche, use alle vociferazioni violente, si dischiudevano alla meraviglia. E le mani alfine — le aspre mani asservite agli strumenti del lavoro — si tendevano con un moto concorde verso l'eroina che mandava alle stelle il suo dolore immortale.

— Nell'esistenza di un popolo come il nostro — diceva Daniele Glàuro — una grande manifestazione d'arte conta assai più d'un trattato d'alleanza o di una legge tributaria. Ciò che non muore val più di ciò che è caduco. L'astuzia e l'audacia di un Malatesta sono chiuse in una medaglia del Pisanello, per l'eternità. Non sopravvive alla politica del Machiavelli se non il nerbo della sua prosa...

“È vero, è vero” pensava Stelio Èffrena. “La fortuna d'Italia è inseparabile dalle sorti della Bellezza, cui ella è madre.” Tale ora gli appariva la verità sovrana come l'imminente sole di quella divina e remota patria ideale dove peregrinò Dante. “Italia! Italia!” Come un grido di riscossa gli risonava su l'anima quel nome che inebria la terra. Dai ruderi inondati di tanto sangue eroico non doveva levarsi robusta di radici e di rami l'arte nuova? Non doveva essa riassumere in sé tutte le forze latenti nella sostanza ereditaria della nazione, divenire una potenza determinante e costruttiva nella terza Roma, indicare agli uomini partecipi del Governo le verità originarie da porre a norma degli statuti nuovi? Fedele ai più antichi istinti della sua razza, Riccardo Wagner aveva presentito e secondato col suo sforzo l'aspirazione degli Stati germanici alla grandezza eroica dell'Impero. Egli aveva evocata la figura magnifica d'Enrico l'Uccellatore nell'atto di levarsi sotto la quercia secolare: — Che da tutta la terra alemanna sorgano i combattenti! — A Sadowa, a Sedan, i combattenti avevano vinto. Con il medesimo impeto, con la medesima pertinacia il popolo e l'artefice avevano raggiunta la meta gloriosa. La stessa vittoria aveva coronato l'opera del ferro e l'opera del ritmo. Come l'eroe, il poeta aveva compiuto un atto liberatore. Come la volontà del Cancelliere, come il sangue dei soldati, le sue figure musicali avevano contribuito a esaltare e a perpetuare l'anima della razza.

— È qui, già da alcuni giorni, al palazzo Vendramin-Calergi — diceva il principe Hoditz.

E subitamente l'imagine del creatore barbarico si avvicinò, le linee della sua faccia divennero visibili, gli occhi cerulei brillarono sotto la fronte vasta, le labbra si serrarono sul robusto mento armate di sensualità, di superbia e di dispregio. Il suo piccolo corpo incurvato dalla vecchiezza e dalla gloria si sollevò, s'ingigantì a somiglianza della sua opera, assunse l'aspetto di un dio. Il sangue vi corse come torrenti in un monte, il respiro vi alitò come il vento in una foresta. A un tratto, la giovinezza di Siegfried lo invase, vi si sparse, vi rifulse come in una nube l'aurora. “Seguire l'impulso del mio cuore, obbedire al mio istinto, ascoltare la voce della natura in me: ecco la mia suprema unica legge!” La parola eroica vi risonò, erompendo dal profondo, esprimendo la volontà giovine e sana che trionfava di tutti gli ostacoli e di tutti i maleficii, sempre in accordo con la legge dell'Universo. E le vampe allora, quelle generate dalla rupe sotto l'urto dell'asta di Wotan, salirono in cerchio. “Nel mar fiammeggiante il cammino s'è aperto. Immergermi nel fuoco, oh gioia grande! Trovare nella fiamma la sposa!” Tutti i fantasmi del mito balenarono, si oscurarono. Il casco alato di Brunehilde sfavillò al sole. “Gloria al sole! Gloria alla luce! Gloria al giorno raggiante! Lungo fu il mio sonno. Chi mi ha risvegliata?” Tutti i fantasmi tumultuarono, si dispersero. Risorse di repente su un campo d'ombra la vergine del canto, Donatella Arvale, così com'ella era apparsa laggiù nella porpora e nell'oro dell'aula immensa, tenendo il fiore del fuoco in un'attitudine dominatrice. “Non mi vedi tu dunque? Il mio sguardo che ti consuma e il mio sangue che bolle non ti fanno paura? Provi tu questo ardore selvaggio?” Assente, ella riprendeva il suo potere di sogno. Musiche infinite si generavano dal silenzio che occupava il posto rimasto vuoto nel cenacolo. Il suo volto ermetico chiudeva un segreto inviolabile. “Non mi toccare, non mi turbare; e io rifletterò per sempre la tua imagine luminosa. Ama te stesso, e rinunzia a me!” Anche una volta, come su l'acqua febrile, un'appassionata impazienza incalzava l'animatore; ed egli ritrovava nell'assente l'attitudine ad esser tesa come un bell'arco da una mano forte che sapesse armarsene per un'alta conquista. “Svegliati, svegliati, vergine! Vivi e ridi! Sii mia!”

Il suo spirito era trascinato violentemente nell'orbita del mondo creato dal dio germano; le visioni e le armonie lo sopraffacevano, le figure del mito settentrionale si sovrapponevano a quelle della sua passione e della sua arte oscurandole. Il suo desiderio e la sua speranza parlavano il linguaggio del barbaro. “È necessario che ridendo io ti ami, che ridendo io m'accechi; è necessario che ridendo noi ci perdiamo congiunti. Amor raggiante, ridente morte!” Il giubilo della vergine guerriera su la rupe cerchiata di fiamme attingeva la più ardua altezza; il grido di voluttà e di libertà saliva sino al cuore del sole. Ah che cosa non aveva egli espresso, quale apice e quale abisso non aveva egli toccato, quel formidabile agitatore dell'anima umana? Quale sforzo avrebbe potuto eguagliare il suo? Quale aquila avrebbe potuto sperare di giungere più in alto? L'opera gigantesca era là compiuta, in mezzo agli uomini. Echeggiava per la terra l'ultimo coro del Graal, il cantico di grazie: “Gloria al miracolo! Redenzione al Redentore!”.

— È stanco, — diceva il principe Hoditz — molto stanco e affranto. Per ciò non l'abbiamo veduto al Palazzo Ducale. Il suo cuore è malato...

Il gigante ridiveniva uomo, piccolo corpo incurvato dalla vecchiezza e dalla gloria, logorato dalla passione, morituro. E Stelio Èffrena riudì in sé le parole di Perdita, che avevano mutato la gondola in una bara: le parole evocanti un altro grande artefice colpito, il padre di Donatella Arvale. “L'arco ha per nome Bios e per opera la morte.” Il giovine aveva dinanzi a sé il cammino segnato dalla vittoria, l'arte lunga, la vita breve. “Avanti! Avanti! In alto, sempre più in alto!” In ogni ora, in ogni attimo bisognava esperimentare, lottare, affermarsi, contro la distruzione, la diminuzione, la violazione, il contagio. In ogni ora, in ogni attimo bisognava tener l'occhio fisso alla mira, convergere tutte le energie a quella, senza tregua, senza fallo. Egli sentiva che la vittoria gli era necessaria come il respiro. Una furente volontà di lotta si svegliava in quell'agile sangue latino, a contatto del barbaro. “Ora a voi il volere!” aveva gridato colui nel giorno augurale, dalla scena del nuovo teatro. “Nell'opera d'arte futura, la sorgente dell'invenzione non s'inaridirà giammai.” L'arte era infinita come la bellezza del mondo. Nessun limite alla forza e all'ardire. Cercare, trovare, più oltre, sempre più oltre. “Avanti! Avanti!”

Una sola onda enorme e informe riassunse allora tutte le aspirazioni e tutte le angosce di quel delirio, si convolse in un vortice, si risollevò in un turbine, parve condensarsi, prendere la qualità della materia plastica, obbedire alla stessa energia inesausta che foggia gli esseri e le cose sotto il sole. Una forma straordinariamente bella e pura sorse da quel travaglio, visse e rifulse con una felicità insostenibile. Il poeta la vide, la ricevette nei suoi occhi puri, la sentì radicata nel centro del suo spirito. “Ah, esprimerla, manifestarla agli uomini, fermarla nella perfezione per l'eternità!” Attimo sublime e senza ritorno. Tutto scomparve. Scorreva in giro la vita comune; sonavano in giro le parole fuggitive; palpitava l'attesa; si consumava il desiderio.

Ed egli guardò la donna. Scintillavano gli astri, ondeggiavano gli alberi dietro il capo di Perdita, si profondava un giardino. Dicevano ancora gli occhi della donna: “Servire, servire!”.

Discesi nel giardino, gli ospiti erano sparsi pei viali e sotto le pergole. L'aura della notte era umida e tiepida così che le palpebre delicate la sentivano su i cigli quasi come una bocca volubile che si accosti per lambire. Le stelle nascoste dei gelsomini odoravano acutamente nell'ombra; e i frutti anche odoravano come negli orti delle isole, più gravi. Una vivida forza di fertilità emanava da quel breve spazio di terra vegetale che pareva in esilio constretto nella sua cintura d'acqua. Così l'anima esule si fa più intensa.

— Volete che io rimanga? Volete che io ritorni, quando sieno partiti gli altri? Dite! È tardi.

— No, no, Stelio. Vi prego! È tardi, è troppo tardi. Voi lo dite.

Uno sgomento mortale era nella voce della donna. Ella tremava nell'ombra con le spalle nude, con le braccia nude; e voleva ancora negarsi e voleva esser posseduta; e voleva morire e voleva essere scossa da quelle mani maschie. Ella tremava; le tremavano i denti in bocca. Un fiume escito da un ghiacciaio la sommergeva, le passava sopra, l'assiderava dalle radici dei capelli all'estremità delle dita. Tutte le giunture delle membra le dolevano, e pareva che fossero per dislegarsi, e le mascelle irrigidite le mutavano la voce nel terrore. Ed ella voleva morire, e voleva esser presa e abbattuta all'improvviso da quella violenza maschia. E sul suo sgomento e sul suo gelo e su la sua carne non più giovine pendeva quella parola atroce che l'amato stesso aveva proferita e ch'ella stessa aveva ripetuta: “È tardi, è troppo tardi!”.

— La promessa, la promessa! Non voglio più attendere, non posso, Perdita.

Il bacino voluttuoso come un seno che si offre, l'estuario perduto nell'ombra e nella morte, la Città accesa dalla febbre crepuscolare, l'acqua scorrente nella clessidra invisibile, il bronzo vibrante nel cielo, la soffocante brama, le labbra serrate, le palpebre basse, le aride mani, tutta la piena ritornò nel ricordo della promessa muta. Egli desiderò con un ardore selvaggio quella carne profonda.

— Non voglio più attendere.

Di lontano, di lontano gli veniva quel torbido ardore, dalle più remote origini, dalla primitiva bestialità delle mescolanze subitanee, dall'antico mistero delle libidini sacre. Come la torma invasa dal dio discendeva per la montagna sradicando gli alberi, e s'avanzava con una furia sempre più cieca, e s'ingrossava di nuovi dementi, propagando l'insania per ovunque al passaggio sinché diveniva un'immensa moltitudine ferina e umana animata da una volontà mostruosa; così in lui quell'istinto crudo precipitò turbando e trascinando tutte le figure del suo spirito nell'empito con una agitazione innumerevole. Ed egli desiderò nella donna sapiente e disperata colei che era premuta dall'eterna servitù della sua natura, colei che era destinata a soggiacere nelle improvvise convulsioni del suo sesso, colei che placava la lucida febbre della scena nella voluttà oscura e sonnifera, l'attrice ardente che passava dalla frenesia della folla alla forza del maschio, la creatura dionisiaca che con l'atto di vita coronava il rito misterioso come nell'Orgia.

Il suo desiderio fu insano e smisurato, contenne il fremito delle moltitudini vinte e l'ebrezza degli amanti ignoti e la visione delle promiscuità orgiache; fu fatto di crudeltà, di rancore, di gelosia, di poesia e di orgoglio. Lo punse il rammarico di non aver mai posseduta l'attrice dopo un trionfo scenico, ancora calda dell'alito popolare, coperta di sudore, ansante e smorta, con i vestigi dell'anima tragica che aveva pianto e gridato in lei, con le lacrime di quell'anima intrusa ancora umide sul viso convulso. Egli la vide in un lampo riversa, piena della potenza che aveva strappato l'urlo al mostro, palpitante come la Menade dopo la danza, assetata e stanca ma bisognosa d'essere presa, d'essere scossa, di contrarsi in un ultimo spasimo, di ricevere il seme violento, per placarsi alfine in un sopore senza sogni. — Quanti uomini erano esciti dalla folla per abbracciarla dopo avere anelato verso di lei perduti nella massa unanime? Il loro desiderio era fatto del desiderio di mille, il lor vigore era molteplice. Qualche cosa del popolo ebro, del mostro affascinato, penetrava nel grembo dell'attrice con la voluttà di quelle notti.

— Non siate crudele, non siate crudele! — supplicò la donna che sentiva nella voce di lui, che leggeva negli occhi di lui la turbolenza. — Oh, non mi fate male!

Sotto lo sguardo vorace del giovine, tutta la sua carne si contraeva anche una volta nella repulsa d'un pudore doloroso. Il desiderio di lui le giungeva come una ferita lacerante. Ella sapeva quanto d'acre e d'impuro fosse in quella concitazione subitanea e come profondamente egli la considerasse avvelenata e corrotta, carica di amori, esperta di tutto il piacere, tentatrice errante e implacabile. Ella divinava quel rancore, quella gelosia, quella malvagia febbre che erasi accesa a un tratto nel dolce amico a cui per tanto tempo aveva votato quel ch'ella chiudeva in sé di più prezioso e di più sincero preservando la bontà di quelle offerte con un costante divieto. Tutto era perduto ormai. Tutto era devastato a un tratto, come un bel dominio in balìa di schiavi ribelli e vendicativi. Ed ella, quasi fosse nell'estrema agonia, nell'attimo del trapasso, rivide tutta la sua vita aspra e turbinosa, la sua vita di lotta e di dolore, di smarrimenti e di sforzi, di passione e di trionfo. Ne sentì la pesantezza, l'ingombro. Ricordò il sentimento ineffabile di gioia, di spavento e di liberazione ch'ella aveva provato nell’abbandonarsi la prima volta all'uomo che l'aveva illusa, nella lontana adolescenza. E le traversò l'anima con una trafittura atroce “ l'imagine della vergine che s'era ritratta, ch'era scomparsa, che forse sognava nella stanza solitaria, lassù, o piangeva o si prometteva già e supina godeva già d'essersi promessa. “È tardi, è troppo tardi!” La parola irrevocabile sembrava passarle continuamente su la fronte come il rombo del bronzo. E il desiderio di lui le giungeva come una ferita lacerante.

— Oh, non mi fate male!

Ella supplicava, bianca e tenue come la piuma di cigno che correva intorno alle sue spalle nude e al suo petto palpitante. Ella pareva disciogliersi dalla sua potenza, divenir lieve e debole, vestirsi d'una sua segreta anima tenera, così facile a essere uccisa, a esser distrutta, immolata senza sangue.

— No, Perdita, nessun male! — balbettò egli sconvolto subitamente da quella voce e da quell'aspetto, preso alle viscere da una pietà umana ch'era risorta dalla stessa profondità ond'eragli venuto quell'istinto selvaggio. Perdonatemi, perdonatemi!

Egli avrebbe voluto prenderla fra le sue braccia, cullarla, consolarla, sentirla piangere, beverne le lacrime. Gli pareva di non riconoscerla più, di avere dinanzi a sé una creatura ignota, infinitamente umile e dolorosa, priva d'ogni forza. E la sua pietà e il suo rimorso somigliavano un poco al sentimento che si prova dopo aver offeso e leso, senza volere, un infermo, un fanciullo, un piccolo essere inoffensivo e solo.

— Perdonatemi!

Egli avrebbe voluto inginocchiarsi, baciarle i piedi nell'erba, dirle qualche parola puerile. S'inchinò, le toccò una mano. Ella sussultò dal capo alle piante; spalancò gli occhi verso di lui; poi riabbassò le palpebre; stette immobile. L'ombra s'accumulò sotto l'arco dei sopraccigli; segnò l'ondulazione delle gote. Di nuovo, il fiume gelido la sommergeva.

Si udirono le voci degli ospiti sparsi pel giardino; poi si fece un gran silenzio. Si udì stridere la ghiaia sotto qualche passo; poi si fece ancora un gran silenzio. Giunse un clamore indistinto dalla lontananza dei canali. Parve, a un tratto, che i gelsomini rendessero un odore più forte, come un cuore accelera i suoi battiti. La notte parve gravida di prodigi. Le forze eterne operavano armoniosamente, fra la terra e le stelle.

— Perdonatemi! Se il mio desiderio vi fa soffrire, io lo soffocherò ancora, io sarò ancora capace di rinunziare, di obbedirvi. Perdita, Perdita, io dimenticherò tutto quello che mi dicevano i vostri occhi, lassù, tra le parole inutili... Quale stretta, quale carezza potrebbe mescolarci più profondamente? Tutta la passione della notte c'incalzava e ci gettava l'un verso l'altra. Io vi ho ricevuta tutta in me, come un'onda... E ora mi sembra che io non possa più dividervi dal mio sangue, e che voi anche non possiate più allontanarvi da me, e che noi dobbiamo andare incontro a non so quale alba...

Egli le parlava sommesso, interamente effuso nelle sue parole, divenuto una sostanza vibrante in cui tutte le mutazioni della creatura notturna parevano imprimersi d'attimo in attimo.

Egli non vedeva più dinanzi a sé una forma corporea, una carne opaca e impenetrabile, la pesante carcere umana, ma un'anima rivelata in una successione di parvenze espressive come le melodie, una sensibilità oltre ogni limite delicata e possente che creava in quell'involucro a vicenda la fralezza dei fiori, il vigore del marmo, l'impeto della vampa, tutte le ombre e tutte le luci.

— Stelio!

Proferì ella quel nome appena appena; e tuttavia in quel soffio morente tra le labbra smorte era un'immensità di esultanza e di meraviglia come nel più acuto grido. Ella aveva sentito l'amore nell'accento virile: l'amore, l'amore! Ella che aveva ascoltato tante volte le belle e perfette parole fluenti nella voce limpida soffrendone stranamente come d'un supplizio e d'un gioco, ella ora vedeva per il nuovo accento trasfigurarsi a un tratto la sua vita e la vita universa. La sua anima parve invertirsi: cadde l'ingombro al fondo, disparve in una oscurità senza fine; e venne in alto qualche cosa di leggero e di lucente, qualche cosa di libero e d'immacolato, che si dilatò, che s'incurvò come un cielo mattutino. E, in quel modo che l'onda della luce sale dall'orizzonte al sommo con un'armonia muta, l'illusione della felicità salì alla sua bocca. Un sorriso infinito vi si diffuse, infinito, così che le linee delle labbra vi tremolavano come le foglie nell'aura, i denti vi rilucevano come i gelsomini nel chiarore stellare: esilissime forme nel vasto elemento.

“Tutto è abolito, tutto è scomparso. Io non ho vissuto, non ho amato, non ho gioito, non ho sofferto. Sono nuova. Non conosco che questo amore. Sono pura. Voglio morire nella voluttà che mi rivelerai. Gli anni e gli eventi sono passati sopra di me senza toccare quella parte dell'anima mia che io ti serbavo, quel cielo segreto che ora a un tratto s'è aperto e ha vinto ogni ombra ed è rimasto solo per contenere la forza e la dolcezza del tuo nome. Il tuo amore mi salva; l'amplesso intero del mio amore ti farà divino...” Parole d'ebrezza le sgorgavano dal cuore liberato, ma le sue labbra non osavano di proferirle. Ed ella sorrideva, sorrideva del suo sorriso infinito, silenziosa.

— Non è vero? Dite! Rispondete, Perdita! Non sentite anche; voi questa necessità che è forte di tutte le nostre rinunzie, di tutta la nostra costanza nell’attendere l'ora piena? Ah mi sembra che le mie speranze e i miei presentimenti non sarebbero più nulla, Perdita, se quest'ora non fosse. Dite che non potreste giungere all'alba senza di me, come io non potrei senza di voi!

— Rispondete!

— Sì, sì...

Perdutamente ella si donò in quella sillaba fioca. Il sorriso si spense; la bocca s'appesantì, si mostrò sul pallore con un rilievo quasi duro, come se la sete la gonfiasse, valida per attirare, per prendere, per ritenere, insaziata. E tutto il corpo, ch'era parso attenuarsi nel dolore e nel terrore, si risollevò come se vi crescesse di repente un'ossatura nuova, riacquistò la sua potenza carnale, fu attraversato da un'onda impetuosa; ridivenne desiderabile e impuro.

— Senza più indugio. È tardi!

Egli tremava d'impazienza. La furia lo riprendeva; la brama lo riafferrava alla gola con gli artigli felini.

— Sì — ripetè la donna, ma con un accento diverso, con gli occhi negli occhi di lui, avida e imperiosa, come se ora ella fosse certa di avere il filtro che doveva legarlo a sé ultimamente.

Egli sentì entrare nel suo cuore le voluttà che abitavano quella carne profonda. La guardò, impallidendo come se il suo sangue si disperdesse nella terra a bagnare le radici dei frutti, in sogno, fuori del tempo, solo con lei sola.

Ella stava sotto l'arbusto ornato di monili e carico di frutti, vivamente inarcata a guisa delle sue labbra, partendosi da tutte le sue membra la febbre come dalle labbra si parte il respiro. La bellezza repentina che l'aveva illuminata nel cenacolo, fatta di mille forze ideali, si rinnovellava in lei ma ancor più intensa, fatta della fiamma che non appassisce, del fervore che non langue. I frutti magnifici pendevano sul suo capo, recanti in sommo la corona d'un re donatore. Il mito del melagrano riviveva nella notte come al passaggio della barca ricolma su l'acqua vespertina. — Chi era ella? Persefone signora delle Ombre? Aveva ella vissuto là dove tutte le agitazioni umane sembrano un gioco di vènti nella polvere d'un cammino senza termine? Aveva ella guardato il mondo delle sorgenti, numerato nella terra sotterranea le radici dei fiori immote come le vene in un corpo impietrito? Era ella stanca o ebra delle lacrime e delle risa e delle lussurie umane, e dell'aver toccato a una a una tutte le cose mortali per farle fiorire, per farle perire? Chi era mai? Aveva colpito le città come un flagello? chiuso per sempre col suo bacio le labbra che cantavano, arrestato i battiti di un'anima tirannica, attossicato i giovinetti col suo sudore salso come la schiuma del mare? Chi era? Chi era? Quale passato la faceva così smorta, così cocente e così perigliosa? Aveva ella già detto tutti suoi segreti e donato tutti i suoi doni? O poteva ella ancora meravigliare con nuove opere il suo nuovo amante, pel quale la vita il desiderio e la vittoria erano una cosa sola? — Tanto, e più e più, davano al sogno le esili vene delle sue tempie, l'ondulazione delle sue gote, la possa dei suoi fianchi, l'ombra glauca e quasi marina che era l'elemento in cui viveva quel volto come l'occhio nella sua propria umidità.

“Tutto il male, tutto il bene, quel che io so e quel che io ignoro, quel che tu sai e quel che tu ignori, tutto fu per la pienezza della nostra notte.” La vita e il sogno erano una cosa sola. I sensi e i pensieri erano come vini mesciuti in una medesima tazza. Le vesti, il viso nudo, le speranze, lo sguardo erano simili alle piante di quel giardino, all'aria, alle stelle, al silenzio. Diveniva apparente quell'armonia nascosta in cui la natura ha mescolato e celato le differenze e le diversità.

Attimo sublime e senza ritorno. Prima che l'anima fosse consapevole, le mani fecero il gesto del desiderio, toccarono la carne, l'attirarono, la godettero fredda e dolce.

Sentendo le mani maschie su le sue braccia nude, la donna arrovesciò il capo nell'ombra come per abbattersi. Tra le palpebre che morivano, tra le labbra che morivano, il bianco degli occhi, il bianco dei denti brillarono come le cose che brillano per l'ultima volta. Poi, rapidamente, il capo si risollevò, risuscitò; la bocca cercò la bocca che la cercava. L'una s'impresse nell'altra. Mai suggello fu più forte. Come l'arbusto, l'amore coprì entrambi gli illusi.

Si distaccarono; si fissarono senza vedersi. Non vedevano più nulla. Erano ciechi. Udivano un rombo terribile, come se il fremito del bronzo si fosse ridestato entro le loro fronti stesse. Tuttavia poterono intendere il tonfo sordo di un frutto che cadde su l'erba, dal ramo ch'essi avevano scosso nella stretta violenta. Si scrollarono come per gittar via un'ammantatura che li gravasse. Si rividero; ridivennero lucidi. Udirono le voci amiche sparse nel giardino, l'indistinto clamore lontanante pei canali ove ripassavano forse gli antichi corteggi.

— Ebbene? — domandò il giovine avidamente, bruciato fin nelle midolle da quel bacio di carne e d'anima.

La donna si chinò a raccogliere su l'erba la melagrana. Era matura, s'era aperta cadendo, versava il succo sanguigno; che bagnò la mano arida, macchiò la chiara veste. Con la visione della barca onusta e dell'isola pallida e della prateria d'asfodelo, tornarono allo spirito amante le parole dell'animatore: “Questo è il mio corpo... Prendete e mangiate!”.

— Ebbene?

— Sì.

Ella strinse il frutto nel pugno, con un moto d'istinto, come se volesse spremerlo. L'umore stillò, le rigò il polso. Tutto il suo corpo allora si contorse e vibrò intorno a un nucleo di fuoco, chiedendo di soggiacere. Di nuovo, il fiume gelido la sommergeva, le passava sopra, l'assiderava dalle radici dei capelli all'estremità delle dita, ma senza spegnere quel nucleo ardente.

— Come? Dite! — incalzò il giovine, quasi crudamente, poichè sentiva risorgere l'insania e ritornar da lontano l'odore dell'Orgia.

— Partite con gli altri, poi tornate... Vi aspetterò al cancello del Giardino Gradenigo.

Ella tremava del tristo tremore carnale, preda della forza invincibile. Egli la rivide in un lampo riversa, coperta di sudore, palpitante come la Menade dopo la danza. Si guardarono ancora; ma non poterono tollerare lo sguardo ferino della loro cupidigia. Soffrirono. Si allontanarono.

Ella andò verso le voci dei poeti che avevano esaltata la sua potenza ideale.

Perduta, perduta, ella era ormai perduta. Ella viveva ancora, disfatta, umiliata e ferita, come se fosse stata calpesta senza pietà; viveva ancora, e l'alba si levava, e ricominciavano i giorni, e la fresca marea rifluiva nella Città bella, e Donatella era pura sul suo guanciale. In una infinita lontananza dileguavasi l'ora, tuttavia così prossima, in cui ella aveva atteso l'amato al cancello, aveva udito i passi nel silenzio quasi funebre della fondamenta deserta, aveva sentito le sue ginocchia piegarsi come sotto a una percossa e la sua testa riempirsi del rombo terribile. Lontanissima era quell'ora; e tuttavia nella sua carne, sotto il tremolio lasciatovi dagli spasimi, persistevano con una strana intensità le sensazioni dell'attesa: il freddo del ferro a cui s'era appoggiata la sua fronte, il fortore affogante che saliva dall'erbe come da un maceratoio, la lingua tiepida dei levrieri di Myrta che eran venuti senza strepito a leccarle le mani.

— Addio, addio!

Era perduta. Egli s'era levato da quel letto come dal letto d'una cortigiana, divenuto quasi estraneo, quasi impaziente, attirato dalla freschezza dell'alba, dalla libertà del mattino.

— Addio!

Dalla finestra ella lo scorse su la riva respirare largamente l'aria vivida; poi udì nella grande calma la voce di lui limpida e sicura chiamare il gondoliere.

— Zorzi!

L'uomo dormiva in fondo alla gondola immobile, e il suo sonno umano era simile al sonno di quel legno curvo che gli obbediva. Come Stelio lo toccò col piede, egli si svegliò di soprassalto, balzò a poppa, afferrò il remo. L'uomo e il legno a un tempo erano desti, in accordo come un corpo solo, pronti a scorrere su l'acqua.

— Servo suo, paron! — disse Zorzi con un sorriso bonario, guardando il cielo che si rischiarava. — La se senta, che adesso me toca vogar mi.

Di contro al palazzo la porta di un'officina s'aperse. Era un'officina di tagliapietre, dove si tagliavano gradini nella pietra di Val di Sole.

“Per salire!” pensò Stelio; e il suo cuore superstizioso si rallegrò del buon augurio. Il nome della cava gli sembrò raggiante su la tabella. L'imagine d'una scala gli significò la sua stessa ascensione. Egli l'aveva già veduta, nel giardino abbandonato, su l'arme dei Gradenigo. “In alto, sempre più in alto!” La gioia ripullulava dal profondo. Il mattino eccitava le opere umane.

“E Perdita? E Arianna?” Egli le rivide in sommo della scala marmorea al lume delle fiaccole fumide così strette, nella ressa, che l'una si confondeva con l'altra in un medesimo biancheggiare, le due tentatrici, entrambe escite dalla folla come dall'amplesso d'un mostro. “E la Tanagra?” La Siracusana dai lunghi occhi caprini gli apparve in riposo congiunta alla terra madre, come la figura d'un bassorilievo appresa al piano in cui è scolpita. “La Trinità dionisiaca!” Egli se le figurava scevre d'ogni passione, immuni d'ogni male, come le creature dell'arte. La superficie della sua anima si copriva d'imagini splendide e rapide, come un mare sparso di vele gonfie. Il suo cuore non soffriva più. Un aspro senso di novità si spandeva per tutta la sua sostanza, col diffondersi della luce. Il calore della febbre notturna si disperdeva interamente nella brezza, i vapori si dissipavano. Accadeva in lui quel che accadeva intorno. Egli rinasceva col mattino.

— Adesso no serve più che ti fazzi chiaro — mormorò maliziosamente il rematore, spegnendo il fanale della gondola.

— Per San Giovanni Decollato al Canal Grande! — gli gridò Stelio, sedendosi.

E, mentre la prua dentata volgeva pel rio di San Giacomo dall'Orio, egli si volse a riguardare il palazzo ch'era plumbeo nell'ombra. Una finestra illuminata si oscurò, come un occhio che s'accechi. “Addio, addio!” Il suo cuore ebbe un sussulto; la voluttà riondeggiò nelle sue vene; le imagini del dolore e della morte passarono su tutte le altre. La donna non più giovine era rimasta sola, lassù, con l'aspetto dell'agonizzante; la vergine chiusa si disponeva a ritornare verso il luogo del suo supplizio. Egli non seppe compiangere ma soltanto promettere. Dall'abondanza della sua forza egli trasse l'illusione di poter mutare quelle due sorti per la sua gioia. Il suo cuore non soffriva più. Ogni ansia cedette al piacere semplice che davano ai suoi occhi gli spettacoli mattutini. Gli celarono il pallore di Perdita le fronde soverchianti i muri degli orti, ove già si svegliava il cinguettìo dei passeri. Nelle ondulazioni dell'acqua si persero le labbra sinuose della cantatrice. Accadeva in lui quel che accadeva intorno. L'arco e l'eco dei ponti, le alghe natanti, il gemito dei colombi erano come il suo respiro, la sua fiducia, la sua fame.

— Férmati davanti al Palazzo Vendramin-Calergi — ordinò al rematore.

Lungo il muro di un orto, al passaggio, egli strappò alcune gracili piante fiorite negli interstizii del mattone che aveva il color cupo e ricco del sangue aggrumato. I fiori erano violetti, d'una estrema delicatezza, quasi impalpabili. Egli pensò ai mirti che crescono lungo il golfo di Egina, duri e fieri come cespugli di bronzo; pensò ai cipressetti foschi che coronano le cime sassose dei poggi toscani, agli alti allori che proteggono le statue nelle ville di Roma. Col pensiero accrebbe l'offerta di quei fiori autunnali troppo esigua per Colui che aveva saputo dare alla sua vita la grande vittoria che le aveva promessa.

— Accosta alla riva.

Il canale era deserto, antico fiume di silenzio e di poesia. Il cielo verde vi si specchiava con le sue ultime stelle morienti. Il palazzo al primo sguardo aveva un'apparenza aerea, come di una nuvola effigiata che posasse su l'acqua. L'ombra, ond'era ancora soffuso, aveva la qualità del velluto, la bellezza di una cosa magnifica e molle. E in quella guisa che in un velluto profondo si scoprono all'occhio l'opere, lentamente le linee dell'architettura si rivelarono nei tre ordini corintii che salivano con un ritmo di grazia e di forza al fastigio ove le aquile i corsieri le anfore, emblemi della vita nobile, s'intramezzavano alle rose dei Loredan. Non nobis, Domine, non nobis.

Il gran cuore malato palpitava là. L'imagine del creatore barbarico riapparve: gli occhi cerulei brillarono sotto la fronte vasta, le labbra si serrarono sul robusto mento armate di sensualità, di superbia e di dispregio. — Dormiva egli? Poteva egli dormire? O era insonne, con la sua gloria? — Il giovine ripensò le strane cose che aveva udito raccontare di lui. — Era vero ch'egli non potesse dormire se non sul cuore della sua donna, strettamente abbracciato alla sua donna, e che pur nella vecchiezza gli persistesse questo bisogno del contatto d'amore? — Ripensò il racconto di Lady Myrta che aveva visitato a Palermo la Villa d'Angri dove gli armarii della stanza abitata dal vecchio erano rimasti impregnati d'un'essenza di rose così violenta che dava ancora le vertigini. Vide il piccolo corpo stanco inviluppato in drappi suntuosi, ornato di gemme, profumato come un cadavere composto pel rogo. — Non forse Venezia aveva dato a lui, come già ad Alberto Durero, il gusto delle voluttà e dei fasti? Ben nel silenzio dei canali egli aveva udito passare il più ardente soffio delle sue musiche: la passione mortale di Tristano e di Isolda.

Ora il gran cuore malato palpitava là; il formidabile impeto si placava là. Il palazzo patrizio, con le aquile con i corsieri con le anfore con le rose, era chiuso e muto come un alto sepolcro. Sopra quel marmo il cielo si infiammava all'alito dell'aurora.

“Salute al Vittorioso!” E Stelio Èffrena gettò i fiori dinanzi alla porta.

— Avanti! Avanti!

Incitato da quell'impazienza subitanea, il rematore si curvò sul remo. Il legno sottile guizzò su l'acqua. Tutto il canale era chiaro da una banda. Una vela fulva passava senza romore. Il mare, i flutti allegri, le risa dei gabbiani, il vento del largo si rappresentarono al desiderio.

— Voga, Zorzi! Alla Veneta Marina pel rio dell'Olio — gridò il giovine.

Il canale gli sembrava troppo angusto pel respiro della sua anima. Come il respiro la vittoria gli era ormai necessaria. Egli voleva riconoscere alla luce del mattino e all'acredine del mare la bontà della sua tempra, escito dal delirio notturno. Non aveva sonno. Sentiva intorno ai suoi occhi un cerchio di freschezza, come se li avesse lavati con la rugiada. Non provava alcun bisogno di riposarsi; e il letto dell'albergo gli faceva orrore come un giaciglio vilissimo. “Il ponte d'una barca, l'odore del catrame e del sale, il battito d'una vela rossa...”

— Voga, Zorzi!

Il vigore del gondoliere si raddoppiò. La forcola strideva di tratto in tratto sotto lo sforzo. Si dileguò il Fondaco dei Turchi, avorio meravigliosamente trascolorato e consunto, simile al portico superstite d'una meschita in ruina; passarono il palazzo dei Cornaro e il palazzo dei Pesaro, i due colossi opachi anneriti dal tempo come dal fumo d'un incendio; passò la Ca' d'oro, divino gioco della pietra e dell'aria; ed ecco, il Ponte di Rialto mostrò il suo ampio dorso, già tutto strepitoso di vita popolare, carico delle sue botteghe ingombre, odorante di ortaggi e di pesci, simile a una smisurata cornucopia che riversasse intorno per le rive l'abondanza dei frutti terrestri e marini a nutrirne la Città Dominante.

— Ho fame, Zorzi, ho una gran fame — disse Stelio ridendo.

— Bon segno co' la notolada fa fame; xe ai vechi che la ghe fa sono — fece Zorzi.

— Accosta!

Egli comprò da una peata l'uva delle Vignole, i fichi di Malamocco raccolti su un piatto di pampini.

— Voga!

La gondola virò, sotto il Fondaco dei Tedeschi; scivolò per i canali angusti e oscuri, verso il rio di Palazzo. Le campane di San Giovanni Crisostomo, di San Giovanni Elemosinaro, di San Cassiano, di Santa Maria dei Miracoli, di Santa Maria Formosa, di San Lio sonavano sull'aurora gioiosamente. Lo strepito del mercato si perdeva nella salutazione dei bronzi, con gli odori della pesca, della verdura, del vino. Tra le mura di marmo e di mattone ancora dormenti, sotto la striscia del cielo la striscia dell'acqua andava sempre più risplendendo innanzi al ferro della prua come se l'accendesse la corsa; e quel crescere del fulgore dava a Stelio l'illusione d'una rapidità fiammeggiante. Egli pensò i vari delle navi che scendono nel mare sollevando nell'attrito le fiamme: l'onda fumiga intorno, il popolo acclama e applaude...

— Al Ponte della Paglia!

Un pensiero spontaneo come un istinto lo portava verso il luogo glorioso dove gli sembrava dovessero ancora rimaner le tracce delle sue animazioni liriche e gli echi del gran coro bacchico. “Viva il forte...” La gondola rasentò il fianco possente del Palazzo ducale, compatto in guisa d'un masso unico lavorato da scalpelli abili a trovar melodie come i plettri dei musici. Egli abbracciò la mole con tutta la sua anima rinata; vi riudì il suono della sua propria voce e lo scroscio degli applausi; vi rivide la smisurata chimera occhiuta dal busto coperto di scaglie splendide, lunga nereggiante sotto le enormi volute d'oro; e sé medesimo raffigurò oscillante su la moltitudine come un corpo concavo e sonoro, abitato da una volontà misteriosa. Egli diceva: “Creare con gioia! È l'attributo della divinità. Non è possibile imaginare al vertice dello spirito un atto più trionfale. Le parole stesse che lo significano hanno la splendidezza dell'aurora...”.

Egli ripeteva a sé, all'aria, all'acqua, alla pietra, all'antica Città, alla giovine aurora: “Creare con gioia! Creare con gioia!”.

Quando la prua passò di sotto al ponte ed entrò nello specchio di luce, egli ebbe nel più largo respiro, con la sua speranza e con il suo coraggio, tutta la bellezza e tutta la forza della vita anteriore.

— Trovami una barca, Zorzi, una barca che vada in alto mare!

Gli bisognava un respiro anche più largo, il vento, la salsedine, la schiuma, la vela gonfia, il bompresso appuntato verso l'orizzonte immenso.

— Alla Veneta Marina, trovami una barca di pescatori, un bragozzo di Chioggia!

Egli scorse una gran vela rossa e nera, allora allora issata, che palpitava nel prender vento, superba come un vecchio stendardo republicano, con il Leone ed il Libro.

— Eccola! Eccola! Raggiungila, Zorzi!

Impaziente, egli agitò la mano facendo il segnale dell'indugio.

— Grida alla barca che m'aspetti!

L'uomo del remo, acceso e grondante, gittò un grido di richiamo verso gli uomini della vela. La gondola volava come un sandalo in una regata. S'udiva l'anelito del petto robusto.

— Bravo Zorzi!

Ma anch'egli anelava, come se fosse per raggiungere la sua fortuna, una méta felice, la certezza d'un regno.

— Semo andai in bandiera — disse il rematore stropicciandosi le palme cocenti, con un franco riso che parve rinfrescarlo tutto. — Vardè che stravaganza!

Il gesto, il tono, l'arguzia popolana, le facce attonite dei pescatori che si sporgevano dal parapetto, i riflessi della vela che facevano sanguigna l'acqua, l'odor cordiale del pane che esciva da un forno, l'odor della pece che cominciava a bollire in uno squero vicino, il vocìo degli arsenalotti che andavano al lavoro guerresco, tutta l'emanazione forte di quella riva ove si sentivano ancora le vecchie galere imputridite della Serenissima e rimbombavano sotto il martello le corazze delle navi d'Italia, tutte quelle cose rudi e sane suscitarono dal cuore del giovine un impeto di allegrezza che scoppiò in un riso della sua bocca. Egli e il rematore insieme ridevano, concordi, presso il fianco rattoppato e incatramato della barca peschereccia che aveva l'aspetto vivo d'una buona bestia da travaglio con la pelle aspra di rughe d'escrescenze e di cicatrici.

— Cossa vorla? — domandò l'anziano dei marinai, inclinando verso le risa sonore la sua faccia barbata e cotta in cui non v'era di chiaro se non qualche pelo canuto e gli occhi grigi tra le palpebre arrovesciate dai vènti salmastri. — Cossa comandela, paron?

La maestra sbatteva e garriva come un vessillo.

— El paron vorìa montar a bordo — rispose Zorzi. L'albero scricchiolava tutto vivo dal calcagnolo al pomo.

— Ch'el monta pur. Co' nol vol altro, paron! — fece l'anziano semplicemente; e si volse per prendere la scala penzola.

L'attaccò a mezzapoppa. Era fatta d'alcuni cavigliotti consumati e d'una sola corda a doppino logora. Ma anch'essa, come tutte le particolarità del rozzo legno, parve a Stelio una cosa straordinariamente viva. Mettendovi il piede, ebbe vergogna della sua scarpa lucida e fine. La grossa mano dura del marinaio, segnata di emblemi azzurri, l'aiutò, lo tirò a bordo con una stratta.

— L'uva e i fichi, Zorzi!

Dalla gondola il rematore gli porse il piatto di pampini.

— Che i vada in tanto sangue!

— E il pane?

— Gavemo el pan caldo, — disse un marinaio alzando la bella forma tonda e bionda — apena cavà dal forno.

La fame doveva dargli un sapore delizioso, trovarvi adunata tutta la bontà del frumento.

— Servo suo, paron! E vento in pope! — gridò il rematore salutando.

— Orza!

La vela latina si gonfiò, purpurea, col Leone e col Libro. La barca prese la bordata del largo, volgendo la prua verso San Servolo. La riva parve inarcarsi a sospingerla. Nella scia si mescolarono i filoni, uno glauco, l'altro roseo, producendo un vortice opalino; poi si cangiarono, alternarono tutti i colori, come se l'onda prodiera fosse un'iride fluida.

— Poggia!

Il naviglio virò di gran forza. Un miracolo lo colse. I raggi primi del sole trapassarono la vela palpitante, folgorarono gli angeli ardui su i campanili di San Marco e di San Giorgio Maggiore, incendiarono la sfera della Fortuna, coronarono di lampi le cinque mitre della Basilica. La Città anadiomene fu regina su l'acque con tutti i suoi veli lacerati.

“Gloria al Miracolo!” Un sentimento sovrumano di potenza e di libertà gonfiò il cuore del giovine come il vento gonfiò la vela per lui trasfigurata. Nello splendore purpureo della vela egli stette come nello splendore del suo proprio sangue. Gli parve che tutto il mistero di quella bellezza gli chiedesse l'atto trionfale. Si sentì capace di compierlo. “Creare con gioia!”

E il mondo era suo.

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