I.

Galatea levò dalle carte que' suoi freddi occhi verdognoli, ergendosi al fine su la vita esile e lunga, facendo crepitare le dita esili e bianche. Disse, con un respiro:

- Ho finito.

- Grazie, Galatea. Siete stanca? - sussurrò Cesare con quella sua voce fioca, seguitando a voltar le pagine di un gran libro su 'l leggìo.

- Un poco. Mi riposerò.

Ella s'immergeva così nel silenzio: sul fondo di cuoio scuro della spalliera la capellatura cinerea posava dolcemente e un'ombra attenuava la nitida marmoreità del viso. Intorno la biblioteca pareva dormisse un sonno buono e pacifico di vecchio, metteva un alito di cartapecora e di noce antico nell'aria, metteva turbinii di polvere nelle zone di sole.

Da tempo, Cesare e Galatea passavano le ore così, studiando, in una quiete augusta di monastero. Egli era venuto nella villa dello zio materno a cercarvi la solitudine, a sacrificarvi la bella gioventù, i belli amori: a poco a poco tutte le esuberanze, tutte le irrequietezze della sua natura si agguagliavano in una serenità alta e virile, s'illimpidivano in una veggenza felice; il culto dell'arte a poco a poco gli andava infondendo un non so che di spirituale e di sacerdotale anche nell'aspetto. Fu l'opera lenta della consuetudine, fu l'opera di quella luce mite in cui egli viveva, di quel crepuscolo ove li occhi suoi miopi languivano quasi di continuo, ove su la sua faccia i fiori del sangue impallidivano.

Galatea gli era una compagna taciturna e pensosa, una aiutatrice, una gentile amanuense che non si perdeva mai tra i labirinti e li arabeschi delle scritture sapienti. Ella cresceva come uno stelo, cresceva nella grande malinconia di quella casa ove ella non aveva mai veduto sorridere la madre... Povera madre morta! Con che lungo sospiro di amore e di dolore Galatea guardava il velo disteso sul ritratto della povera madre morta! Quel ritratto era in una larga stanza nuda, sopra una parete bianca, là, all'estremità della villa: nessun rumore vi giungeva, la luce penetrava a traverso le tende fievole e triste. Quando Galatea varcava la soglia, un filo gelido di terrore l'assaliva, un ribrezzo le strideva per le ossa; le pareva come d'entrare in un sotterraneo; tutto quel candore le dava la sensazione dell'immenso. Pure ella restava là lungo tempo, in ginocchio, a pregare, a pregare, mentre il lembo del velo ondeggiava a ogni alito di vento sopra a quell'effige di cadavere; ella teneva gli occhi smarriti nel vano, e nel vano la preghiera si smarriva con un sussurro debole di labbra. Lentamente i chiarori del giorno mancavano. Allora nella penombra pareva che l' ondeggiamento si allargasse, ingigantisse; a poco a poco un immane lembo di sudario si stendeva in tutta la stanza con un soffio impuro. Ella ne sentiva il contatto rabbrividendo; ella diveniva diaccia ed immobile come di pietra, restava là fin che non la traevano fuori tutta pallida, tutta tremante.

Ma tornava poi a quell'adorazione cupa e solitaria, ci tornava con impeti di lacrime, chiamando la morta fra i singhiozzi. Ella voleva vederla, vederla una volta, ma viva, ma con la vita nelle pupille, vederla bella e ridente, una volta sola!

- Era bionda; è vero? bionda come me; è vero? - chiedeva al padre, sollevando li occhi umidi, tentando fra la tenerezza delle lacrime un lampo di sorriso.

Ella era cresciuta così, nel dolore. Ella aveva in sé qualche cosa di quelle piante bianche, vissute al buio, che sembrano germogliare dal morbo di un corpo umano e ombreggiano della loro tristezza i sepolcri. Il gran sole, la gran luce la fastidivano: ella socchiudeva le lunghe ciglia, ella difendeva dalla ferita que' poveri occhi infermi. Pure, amava i fiori. Dietro la villa, in un pezzo di terreno, una vegetazione malaticcia e pingue sonnecchiava nell'ombra; erano grosse foglie carnose di un bruno tendente al violetto, cosparse di pelurie come di una muffa; erano ramificazioni nane, ignude, simili a rettili morti o a bruchi enormi; erano lame piatte di un verde pallido, rigate di bianco e macchiate come dorsi di rane. Certi grandi fiori paonazzi si aprivano a coppa, sorgevano da terra su lunghi tubi, senza fogliame; certi calici di un roseo di pelle umana si gonfiavano su li steli contorti; certe bocche di uno scarlatto cupo emettevano stami simili a piccole lingue gialliccie. I petali avevano come il viscidume dei funghi, gli involucri sparsi di cavità erano favi di cera. Qualche tulipano si schiudeva pigramente in una striscia di sole; qualche peonia vinceva co' larghissimi fiori carichi di carminio; e in torno, nell'autunno, le vitalbe sembravano viluppi di ragni pelosi o mazzi di piume grigiastre. Solo il sambuco odorava dalle ampie antele candide, fresco e mite, là dentro. Le farfalle passavano fuggevoli; gruppi di chiocciole andavano qua e là strisciando tra le piante succose, lasciando le righe lucenti.

Galatea amava quel luogo: quella triste plebe di vegetali aveva per lei un incanto; come lei soffriva, come lei pareva inferma. Ella, dritta in mezzo, nell'abito bruno, faceva pensare a un gran fiore solitario. Ella provava allora un sentimento malsano di tenerezza per quelle povere esistenze che languivano senza un'occhiata di sole; ella si accasciava, udiva come un gemito sollevarsi, udiva il gemito delle cose morenti. Perché nel suo organismo pieno di umori acquei un senso misterioso della morte pareva influisse fin dal giorno natale che fu l'ultimo alla madre.

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