I.
Benchè da poi che 'l Redentor del mondo
Dimostar volse un sol Dio trino et uno,
Ogni idol falso rovinasse al fondo,
Pur fra' pagani ancor ne restò alcuno;
Che li altri Dei, eccetto il ver, secondo
Debbe di nuoi fedel creder ciascuno,
Erano di Pluton seguaci rei,
Che la gentilità chiamava Dei.
II.
Ma per la morte, e pel misterio sacro
Della acerba passion del Verbo eterno,
Qual segnò i suoi di quel santo lavacro
Che lava in nuoi ogni peccato interno,
Restò a Plutone il mondo acerbo et acro,
E ritrarse gli fu forza all'Inferno;
Nè falso alcuno Idio restò a' cristiani,
Ma qualche illusion fra li pagani.
[7]
III.
E però a alcun di vuoi strano non paia
Se a Feraguto quella ninfa apparve,
Qual si chiamava dell'altre primaia,
O fusser corpi veri o finte larve,
Pur parea corpo quella ninfa gaia,
Se con qualche ragion debbo parlarve:
Non sciò come altro giudicar si possa,
Chè un spirto non si tocca in carne e in ossa.
IV.
Toccavassi ella e ragionar se odiva,
E porse a quel baron lo illustre scuto,
A cui, da poi che 'l suo parlar finiva,
Rispose allor sagace Feraguto:
O sii donna mortale, o eterna diva,
Eternamente ti sarò tenuto,
Che in dui perigli, fuor d'ogni speranza,
In l'un scuto mi desti, in l'altro stanza.
V.
Ma qui se fai ch'a Venere io sia grato,
Nè mi trovi in amor tanto infelice,
Ch'io non vi fui giamai aventurato,
Pur ch'io vi fussi un tratto almen felice,
Io mi reputarei sempre beato.
Che tanto un sol piacere a un miser vale,
Che gli rimette ogni passato male.
[8]
VI.
Ma non sciò, ninfa, se ragione o errore
Sia, che sperar mi fa di questo puoco:
Come esser può che a quella Dea d'amore,
Che altrui suole infiammar, piaccia tal luoco?
Esser non può che in umile liquore
Produr si possa, e conservarsi, il fuoco,
Il fuoco che più al cor d'ogni altro preme,
Che mal pon stare dui contrari insieme.
VII.
Ben mostri, alto baron, vivace ingegno,
Disse la dama, e razional discorso,
Che cum la forza uniti ti fan degno
Di conseguir d'amor dolce soccorso;
Spera, che fine arai al tuo disegno,
E alla sventura tua porrai il morso,
Quanto ad Amore e Venere si spetta,
Benchè tua mente in ciò dubbia e suspetta.
VIII.
Ma dubitar non dei, che 'l fuoco pasce
In umido liquore e si conserva,
Come in vuoi il calor nativo nasce
In radicale umor, che in vita serva
Nel materno alvo l'uomo e nelle fasce,
E sempre umor da morte lo preserva;
E in la lucerna piccoletta fiamma
In oleo e in altro umor se aviva e infiamma.
[9]
IX.
Però Venere infiamma e si diletta
Di quello umor che sta col caldo insieme,
Anci nel mar di spuma fu concetta
Venere in cambio di genital seme;
La cosa non dirò, baron, perfetta,
Però che l'onestà la lingua preme,
Et a una donna, ancor che meretrice,
Lo inonesto parlar sempre desdice.
X.
Il viver di Saturno, e ciò che fece
Al padre suo, mi converria narrarte;
Ma questo ad uomo più che a donna lece;
Bastammi a dir la più opportuna parte,
E che come la fiamma in oleo o in pece,
Così in l'umor stia il caldo, dimostrarte;
Nè ti sia cosa nova e inusitata.
Che una Naiade a Vener sia dicata.
XI.
O felice colui che intender puote
Il secreto poter della natura!
O quante cose sono al mondo ignote
Che l'uomo di sapere ha puoca cura;
E se fussero a nuoi palesi e note
Procederia ciascun cum più misura.
Da te ben resto chiaro e resoluto,
Rispose a quella dama Feraguto.
[10]
XII.
Ma pregote, dapoi che mi hai promesso
Favorire in amore i miei disegni,
Che quando un tanto don mi fia concesso
Di amar cum frutto, me ne mostri segni;
Che sempre duolse, puoi che in speme è messo,
A cui come sperava non li avegni:
Sicchè, dama gentil, fa' poi ch'io sapia
Quando tal grazia in mia persona capia.
XIII.
Rispose allor la vezzosetta dama:
Io sempre fui fedele a chi mi crede,
E Vener anco, e chi infedel la chiama,
Non ben dicerne quel ch'amor richiede;
Fidelità conviensi a chi bene ama,
E dir si suol che Amor sempre vuol fede;
Ma acciò ch'in breve il tuo desir consegui,
Conviene che più oltre ancor mi segui.
XIV.
Rispose quel baron: guidami pure,
Se ben volessi, giuso ai regni stigi,
Che disposto mi son, dama, condure
Dove ti piace pronto a' tuoi servigi.
Ma mi bisogna l'animo ridure
Dove lassai, io credo, Malagigi,
Il qual, se vi rimembra, in l'altro canto
Vi lassai cum ragion jocondo tanto.
[11]
XV.
Io vi lassai di ciambra già partito
Della regina, e l'uno e l'altro lieto,
Che tanto l'uno a l'altro era gradito
Che ciascun di essi ne restava quieto;
Desidra la regina che finito
Presto sia il giorno al suo piacer secreto,
E sol la notte a lei felice espetta,
Che Amore è cieco, e notte gli diletta.
XVI.
E senza altro pensare, un suo fidato
Accorto servitor chiamò quel giorno,
A cui disse, se sei, come hai mostrato,
Sempre nemico a chi mi vuol far scorno,
Prego che vadi più che puoi celato,
E Orlando trovi cavaliero adorno,
E nostro capitan, se sciai qual sia,
E questa gli darai da parte mia.
XVII.
E una lettera in mano al messo porse,
Che del suo amore il conte reavisava;
Dopo molte proferte, il servo corse
Al finto non ma al ver conte di Brava:
Il conte poi che del sigil si accorse,
La lettra prese, e altro non parlava,
Anci notando il servo, in man la piglia,
In atto d'uom che assai si meraviglia.
[12]
XVIII.
Sciolsella, e prima sotto lesse
Il nome di chi a lui la scrive e manda;
Subito il resto a leger poi si messe
Di tal tenore = A te si aricomanda,
Conte, colei che per signor ti ellesse,
E sol ti apprezza, e solo ti dimanda;
Pregate, come la notte passata,
Questa altra ancor ti sia racomandata.
XIX.
Rimase il conte alle parol suspeso,
E di notte non scià, nè de che scriva;
Ma pur per coniettura ha in parte inteso
Quel che chiedea la donna, e le agradiva;
Scià ch'ella già lo amava; onde compreso
Ha che di novo in lei lo amor si aviva;
Ma pur di quel che ha letto assai si ammira,
E di novo la lettra or lege, or mira.
XX.
E alla proposta subito rispose,
E rescrisse una a lei di tal tenore:
Regina mia, nelle importanti cose
Vostre del regno sol vi mostro amore;
Ma in altre trame occulte et amorose,
Non fui mai vosco; onde pigliate errore:
Nè sta notte nè mai giacqui cum vui;
Credo ch'in cambio mio godesti altrui.
[13]
XXI.
Diede la lettra il conte al fido messo,
Che alla regina appresentolla in mano;
Ella vedendo il servo, al primo ingresso
Allegrossi, ma poi fu il gaudio vano,
Che poi che della lettra intese espresso
Tutto il tenor, le parve il caso strano
D'esser schernita, e che ciò niegi il conte,
Che pure il vide seco a fronte a fronte.
XXII.
E cominciò a dolersi la regina
Allor del conte assai cum voce pia;
Lacrimando diceva: ahimè mischina,
A chi dei l'alma e la persona mia!
Ad un che fu la notte, e la mattina
Dimostra ingrato che più mio non sia;
E a me che io il vidi, e sciò che fu certo ello
Non si vergogna dir, che non fu quello.
XXIII.
Nol vedeste, occhi vui, che le fattezze
Avea del conte? io sciò che non errasti;
Ora son queste, Orlando, le prodezze
Che per mio amore usar prima pensasti?
Se pur non ti piacean le mie bellezze,
(Che poco sono) a che, crudel, le usasti?
A che sì piccol tempo le godesti,
E da me, ingrato, come vil ti arresti?
[14]
XXIV.
Forse ch'io non ti son piacciuta quanto
Credevi prima, ahimè, solo a vedermi?
Ma perchè, ingrato, tante volte e tanto
Quella notte tornasti a rigodermi?
Se allor bella non fui, come di manto
Adorna poteva altri e tu tenermi?
E se a me più tornar pur non volevi,
Negarmi esser lì stato non dovevi.
XXV.
Dall'altro canto il conte Orlando stava
Suspeso assai, nè scià quel che si dire;
La cosa ben come era imaginava,
Ma non la scià per lo ben colorire;
Che essa l'avesse in fal preso pensava
Per cieca volontà, per gran desire,
Nè scià chi possa avere audacia presa
Di essere entrato in una tanta impresa.
XXVI.
Non scià come essa lui in fal pigliasse,
Nol cognoscendo al viso e al proprio aspetto,
Nè scià ch'in faccia lui rapresentasse
Salvo Milone, a lei figlio diletto,
Qual non si crede che alla madre usasse
Tanta sceleritade, tanto diffetto,
E stette in tal penser tutto quel giorno;
Ma il conte io lasso, e a Malagigi io torno.
[15]
XXVII.
Credendo Malagigi ritornare
Alla regina la notte seguente,
Nel mezzo di quel dolce lamentare,
Che faceva ella del suo error dolente,
Andolla Malagigi a visitare,
Che non sapea della regina niente
Quel che dolesse, anci a lei venne allora
Cum la sembianza di quel conte ancora.
XXVIII.
Fu dalla più secreta camariera
Portata alla regina la novella,
Come ad essa il gran conte venuto era
Per visitarla, se piacesse ad ella;
Tutta turbossi la regina in ciera,
E in mille parti il sdegno la martella,
E dubita di dui qual debbia fare,
O se lo escluda, o pur lo lassi entrare.
XXIX.
Non scià quel che si far, tutta è commossa,
Non scià se contradica o se consenta,
Ma l'amor più che l'ira ebbe gran possa,
Sì che a lassarlo entrar restoe contenta;
La camariera ad introdurlo mossa,
Avanti alla regina lo appresenta,
E Malagigi non sapendo il fatto,
A lei si appresentò cum allegro atto.
[16]
XXX.
Ma ella cum sembiante assai mansueto,
Cum occhi mesti a guisa di turbata,
Non ben rispose a Malagigi lieto
Come pensò vedere alla tornata;
Ma non per questo se ritrasse adrieto;
Ma dimostra egli faccia allegra e grata,
E accarecciar la donna allor non resta,
Pensando che per altro ella stia mesta.
XXXI.
Ma senza altro parlarli, la regina
La lettera del conte al baron diede;
Presella quello, e subito divina
Dove il gran sdegno di colei procede:
E più cognosce ancor la sua ruina
Che la lettra del conte in scritti vede;
La lettra lesse, e poi rivolto a lei
Disse, regina, per un scherzo il fei.
XXXII.
Tutta mutossi la regina allora,
E serenò la fronte e il suo bel ciglio,
E più che mai Orlando la innamora,
E subito le fa mutar consiglio;
Ma quietata non bene era ella ancora,
Quando a lei corse un suo fedel famiglio,
E dissele, regina, il tuo figliuolo
Si trova in gran contrasto e in maggior duolo.
[17]
XXXIII.
Il conte Orlando nostro defensore,
Venuto da ponente ove il sol monta
Per defendere il stato e il vostro onore,
Credo che ricevuta abbia qualche onta;
E dir l'ho udito al tuo figliuol: Signore,
Se sta persona mai per te fu pronta,
Se mai io satisfeci al tuo desire,
Piacemmi assai, ma ormai mi vo' partire.
XXXIV.
Di questo assai si duole il tuo Milone,
E li repugna, e consentir non vuole,
E vie più perchè Orlando la cagione
Tace, nè si contenta e non si duole;
Ma che offeso sia stato il gran barone
Conoscessi alla ciera e alle parole:
Però prega Milon ch'ivi tu vegni,
E che lui, se il puoi far, fra nuoi ritegni.
XXXV.
Poco cervel coprir de' la tua fronte,
E che l'hai dove la civetta il gozzo:
Or non è qui a me presente il conte,
Che ti sian cavi li occhi, e il capo mozzo?
Rispose la regina; e a me raconte
Una tal falsità, ribaldo e sozzo:
Sei cieco, over bevuto hai troppo vino,
Che qui non vedi Orlando paladino?
[18]
XXXVI.
Guarda il famiglio, e resta stupefatto,
E cognosce che quello è Orlando apponto:
Io non sciò, disse, come vada il fatto,
E come pria di me costui sia gionto;
Io il vidi, io lo udii pur, e corsi ratto,
Regina, a te, che sciai quanto sia pronto;
E non sciò come sia possibil questo,
Che egli di me sia giunto a te più presto.
XXXVII.
E partito porrò cum chi lo accetta,
Che quel ch'io vidi, Orlando, è in sala ancora,
E parla cum Milon, che così in fretta
Venni, che certo ancor cum lui dimora.
Perchè a chi il fatto attien sempre suspetta,
Molto turbossi la regina allora;
A Malagigi guarda, e si dispone
Veder di tal novella il parangone.
XXXVIII.
Malagigi, che più non può coprirse,
Dispose allor finir la cosa in riso,
E volto al servo disse, che forbirse
Debbassi ben di nuovo e li occhi e il viso,
E che debbia correndo indi partirse,
E ben cerchi mirare attento e fiso
Se più dove diceva il conte vede,
E poi ritorni, e facciane lor fede.
[19]
XXXIX.
Subito il servo senza altra risposta
Ritornò in sala ove ancor stava il conte,
A cui il servo assai vicin si accosta,
E fra se dice: io pur ti miro in fronte;
Pur veggio che quel sei; ora a sua posta
Mi accusi la regina, e facciammi onte,
Ch'io dubito assai ch'essa e il suo figliuolo
Non sian traditi, e ne ricevan duolo.
XL.
E nulla dire allora a Milon volle,
E fra se parla, e torna alla regina,
Et a lei disse: chi 'l cervel mi tolle,
Peggio che non veggio io quello indivina;
Tu sei troppo, regina, a creder molle,
E ne potria reuscir tua gran rovina;
Orlando è in sala, e questo è certo assai,
E a vederlo tu ancor venir potrai.
XLI.
Rispose la regina: io vo' vedello,
Ch'io voglio, s'io non trovo, castigarti;
E tu, conte, se tu però sei quello,
Prego che qui mi espetti e non ti parti:
Rispose Malagigi, io son pure ello,
E per meglio voler certificarti,
Qui dentro chiuso voglioti espettare,
Fa' pur quanti usci vuoi di fuor serrare.
[20]
XLII.
Fu chiuso Malagigi, e Galliciana
Andò dove è Milone e il conte in sala;
E visto il conte, assai li parve strana
Tal cosa, e come a occel le cascò l'ala;
Chiama in amore ogni sua opra vana,
L'ira in lei cresce, e il desiderio cala;
Volsessi disperar, volse morire,
Poi che così si vide allor schernire.
XLIII.
Ma come sempre saggia e discreta,
Farne vendetta al tutto si dispose,
Ma per suo onore più che può secreta,
Ordine buono al suo disegno pose;
Molti de' suoi armò, che non gliel vieta
Alcun, che potea queste e maggior cose,
E condusseli ove era il finto Orlando,
Per legarlo prigione al suo comando.
XLIV.
Ma intanto Malagigi la mala arte,
Buona per lui, aveva oprato solo,
Che solo a un comandare e aprir di carte
Passava i muri, e se ne andava a volo;
Effigie muta, e quando vuol si parte,
E il gaudio in pene muta, in gaudio il duolo:
Egli uscì fuora, e in cambio suo rinchiuso
Un spirito lassò da lui bene uso.
[21]
XLV.
Nè vi ammirate se tal cosa fa,
Che questo, a lui ch'è mastro, è cosa picola;
Un libro consecrato il barone ha
Che tutti i segni di tale arte articola;
In quello ogni scongiura e forza sta
Che descrive Azael e la Clavicola,
E però dal demonio egli è obedito
Secondo le occorrenzie e l'appetito.
XLVI.
Partisse allora egli per più destra
Che puote, che sapea quel che importava;
Non sciò se uscisse per uscio o finestra,
O se demonio o spirito il portava;
Da l'altra parte la regina allestra
Li armati suoi, e nella ciambra entrava,
E addosso a Libichel, ch'in propria forma
Del conte stava, corse quella torma.
XLVII.
Tutti cum gran furor contra a lui ferse,
Per far della regina ogni comando,
Che tutta l'ira contra a quel converse,
Che era in la ciambra, come a finto Orlando;
Ma Malagigi l'animo non perse,
Anci rispose bene al lor dimando,
Che a chi per darli o lo pigliar s'accosta,
Cum pugni e calci fa buona risposta.
[22]
XLVIII.
Gridava ognun: pigliamo sto mal guerzo,
(Che così è il spirto in forma del gran conte)
Ma Malagigi lor fa stranio scherzo,
E a chi una gota rompe e a chi la fronte,
Dui fece tramortire, e occise il terzo,
E contra li altri ha ancor sue forze pronte;
E ad un di lor, che gli contrasta invano,
Tolse per forza un gran baston di mano.
XLIX.
Questo vedendo li altri, e che ben li onge,
Ciascun sta largo, e il guardano alle mani;
Dàlli dàlli, ciascun grida da longe,
Come quando talor son tocchi i cani,
Che abaglian pure, e alcun non morde o ponge,
E vanno intorno oppur stanno lontani;
Così fan quelli, e gridano sì forte
Che udito già l'avea tutta la corte.
L.
Milon vi corse, il conte, e il gran Fondrano,
Rosadoro, Arideo cum altri insieme;
Ciascun teneva o brando o spiedo in mano,
Che chi il caso non scià di peggio teme;
Allora Libichel si fa più strano,
Il baston gira, e di gran furia freme
Per provocar più il conte e li altri in ira,
Corre al nemico, grida, salta e gira.
[23]
LI.
Intanto coi compagni il conte gionse,
E il tempo prese allora Libichello,
Per non mostrarsi Orlando a Orlando, assonse
Novella forma, come gionse quello;
Effigie da baston proprio si agionse,
E divenne di uno uomo uno asinello;
Io non sciò se Turpino in ciò mi inganni,
Fu uno asinello di ben sopra otto anni.
LII.
Rignando cominciò giocar de calci,
E porre ivi ciascuno in gran conquasso;
Fra color si dimena, e con gran balci
E correr, ne va assai più che di passo;
Non fa tempesta, quando scorza i salci,
Tanto rumor ne' campi e tal fracasso,
Quanto fa allora il spirto Libichello
Mutato (come io dissi) in asinello.
LIII.
Orlando e Rosador di riso scoppia,
Milon, Fondrano e così tutto il resto,
Pur sempre i calci l'asinel raddoppia,
E salta e corre e poi ragira presto;
L'orecchie stende, si digrigna, e doppia
Festa agli astanti poi aggiunse a questo,
E in ordine mostrò quel che in le stalle,
O ne' campi, il stallon fra le cavalle.
[24]
LIV.
E si drizzò a seguir Galliciana
Quel disonesto e intrepido asinazzo,
Ella, che vide quella cosa strana,
Si sforza vergognosa uscir d'impazzo;
Ma l'asino da lei non si allontana,
Gridagli forte ognun, pur n'ha sollazzo,
E se non pur che la regina infesta,
Scoppiato ne sarebbe ognun di festa.
LV.
Ma il conte Orlando, cavalier saputo,
Che ebbe la lettra, s'avisò del fatto,
Perchè più d'uno incanto avea veduto
Per altri tempi, imaginossi il tratto,
Che Malagigi, o chi altri, qui venuto
Fusse per eseguir questo tristo atto,
Et a quanti baron si vide avante
Disse: qui è stato qualche negromante.
LVI.
Confermò ognun quel che 'l conte prevede,
Il qual disse a ciascun che presente era:
Io sum Orlando, il quale in Cristo crede,
E la sua legge è sola al mondo vera;
Mostrar vi voglio la cristiana fede
Quanto potente sia, quanto sincera;
E l'asino gridò: Demonio tristo,
Partiti quindi per virtù di Cristo.
Manca la continuazione
[25]
LVII.
Ebbe il gigante allora acerba pena,
Pur si ritenne in piede, e il capo quassa,
La mazza stringe et a due man la mena,
E contra a chi il percosse un colpo lassa;
Schifarlo puote il Paladino appena,
Ma pur da parte salta, e il colpo passa;
Egli è mastro di guerra, e il suo Rondello
Ai salti è assuefatto, e molto snello.
LVIII.
Schiffò quel colpo, e ben volse il marchese,
Ma renderlo non puote a quella volta,
Chè separate fur le lor contese,
Tanto crescea de' cavalier la folta;
Sicchè Oliviero allora altra via prese,
Mostrando tra' pagani audacia molta:
Quanti ne giunge pien di rabbia e tosco,
Male integri li manda al regno fosco.
LIX.
Riconfortossi la cristiana schiera
Pel grande aiuto di quel Paladino;
Ma di Ruffardo la possanza fiera
Fa come falce di stipa o di lino:
Infernal cosa è riguardarlo in ciera,
Nè sì brutto si pinge Calcabrino;
E tanto adopra la ferrata mazza,
Che sempre ha intorno spaziosa piazza.
[26]
LX.
Ma Balugante cupido di sangue
Bravante il maladetto a ferir manda;
Mossessi quello a guisa di fiero angue,
Se advien che 'l tosco disdegnato spanda;
Restò a tal gionta ogni cristiano esangue,
E a fugir cominciar per ogni banda;
Li più galgiardi allor ebber paura,
Movendossi il pagan de empia statura.
LXI.
Il primo che scontrò cum la fiera asta
Fu Rodoardo sir di Lamporeggio,
Galgiardo fu, ma al colpo non contrasta,
Che a terra cade, e non gli avvenne peggio:
Poi che la lanza in mille pezzi è guasta,
Il brando tira, e grida: oggi preveggio
Il modo di sbramarmi a sangue e morte,
E provar quanto ogni cristiano è forte.
LXII.
Vide il Danese il danno de' cristiani,
E il suo Dudone e Bradamante appella,
Che era in la schiera delli due germani;
Costei del buon Ranaldo era sorella
Gagliarda, ardita, e da menar le mani
Atta non men che un Paladino, e bella;
Altra Camilla, altra Pentesilea,
Che armata sol per Cristo combattea.
[27]
LXIII.
Entrò la dama nel calcato stormo
Insieme cum Dudon gridando forte:
Ora canaglia insieme vi distormo,
Che tutti meritate acerba morte;
Io più di vui non son legata o dormo,
Che sì pensate, penso, a trista sorte:
E cum la lanza un cavalier percusse
Chiamato Armeno, e credo Armeno fusse.
LXIV.
Poi trasse il brando la gagliarda dama
E gettò morto un giovinetto al piano,
Qual da Turpino Chiariol si chiama,
D'abito e nascimento soriano,
Venuto di Soria per la gran fama
Del gran re Carlo e del popol cristiano,
E lassò il padre suo senza altro erede,
Giurando tornar presto, alla sua fede.
LXV.
Glorio, Lampruccio e Meleardo occise,
Tutti Africani, e tutti e tre di Egitto;
Col brando il capo ai dui primi divise,
L'altro di ponta fu nel cuor trafitto;
Per questo, gran terror la dama mise
Nel popul sarracin timido e afflitto,
Gettando gambe, braccia e teste a terra,
Questo urta, quello occide et altri atterra.
[28]
LXVI.
Come se tra molti minuti schioppi
Bombarda scocca e sino al ciel ribomba,
Che non pur par che de' nemici agroppi
L'animo, ma li offende, atterra e slomba;
O se nei campi peccorelle intoppi,
Dopo altri lampi, una fulminea romba;
A parangone de altri men potenti
Par che a ferir la dama si apresenti.
LXVII.
Ma Dudon fa cum lei la festa doppia,
E col brando fracassa, atterra et urta,
Minaccia, fende, rompe, taglia e stroppia,
E a questo il busto, a quello un braccio scurta;
L'uno induce timor, l'altro il radoppia,
Per tener de' Cristian l'audacia surta,
Ma non men sarracin da l'altro canto
Cercano di vittoria avere il vanto.
LXVIII.
Artiro, Odrido, Buffardo e Bravante
Son contra i nostri da gran furia spenti,
Come si vede a caso in uno instante
Levarsi a un tempo dui contrarii venti,
Che l'un sbatte a ponente, altro a levante,
Quel che a lor forza a caso si apresenti;
E cum tal furia l'un l'altro ritrova,
Come volesser discacciarsi a prova.
[29]
LXIX.
Scontrosse cum Odrido Bradamante,
E stordito il lassò, tanto il percosse;
Ferillo al capo la donzella aitante,
Che tutto il tramutò, tutto il commosse;
Visto quel colpo il forte re Bravante,
Stimò che un paladin la dama fosse,
E d'un gran colpo l'elmo le martella,
Di che gran poena ne sostenne quella.
LXX.
Ma subito grande ira al cuor le monta,
E cum il brando il capo gli percuote,
Che 'l colpo dato a lei cum questo sconta,
E impalidir gli fece ambe le gote;
Ma il re Bravante le lassò una ponta,
Che appena ella in arcion tener si puote;
Ma per la gente ch'ivi allor si mosse,
Per forza l'un da l'altro separosse.
LXXI.
Ma cum Buffardo si scontrò Dudone,
E cum gran stizza adosso se gli cazza;
D'una mazzata il gionse in un gallone,
E poco men ch'in terra nol tramazza,
Che grande anch'esso e forte era il barone,
Perito molto in adoprar la mazza;
Ora contra a Dudon venne il pagano,
E l'uno e l'altro cum la mazza in mano.
[30]
LXXII.
Mena il gigante cum la sua ben ferma
Mazza a Dudone, egli da parte salta,
E convien che cum senno e ben si scherma
Che troppo acerbo il sarracin lo assalta;
Ma Dudon nel costato allor gli afferma
La mazza, nè levolla allor troppo alta;
E di dolor, tanto la mazza il tocca,
Gettò il pagan la lingua fuor di bocca.
LXXIII.
Ma subito il gigante in se rivenne,
E nell'elmo a Dudon gran colpo tira:
Quasi cade il baron, pur si ritenne,
Ma monta per vergogna e doglia in ira
Tanto, che adosso a quel gigante venne,
E alla visera, dove il fiato spira,
Toccollo, e il naso talmente gli offese,
Che Buffardo per doglia a terra stese.
LXXIV.
Occiderlo volea Dudone allotta,
E per ferirlo avea già il braccio in ponto,
Ma proibillo far di nuovo lotta
Il stormo de' pagan ch'ivi fu gionto;
Fuli il disegno e la sua impresa rotta,
Che ognun fa più di se che d'altrui conto;
Vide essere egli danno e incarco espresso,
Per occidere altrui, morire anch'esso.
[31]
LXXV.
Onde indi allor convenne dipartirse,
E lassare il gigante in terra steso,
Che gente tanta contra lui venirse
Vedea, che forse allor restava preso,
E li fu forza altrove ancor partirse,
Che alla forza ciascun misura il peso,
Ferendo va i nemici in altra parte,
Et a chi il petto, a chi la faccia parte.
LXXVI.
Così fa la donzella Bradamante,
Col brando in man gagliarda a maraviglia;
Intanto sorse il caduto gigante,
Qual nuovamente la sua lancia piglia,
E questo dietro, e quel percuote avante,
A infernal mostro nel ferir simiglia,
E tanto de ferir l'empio procaccia,
Che chi percuote occide, e li altri caccia.
LXXVII.
Mirava la battaglia allor Ranaldo,
Il quale fra' pagan stava secreta-
Mente, ma di scoprirse e d'ira caldo,
E di assalirli cum il re di Creta
Non si può rafrenar, non può star saldo,
Non può tener la mente a un segno quieta;
E una sola ora mille anni gli pare
Potere esso in persona in gioco entrare.
[32]
LXXVIII.
Bradamante ferir vedea il barone,
Cognobella all'insegna, e alla armatura,
Che in campo verde portava un leone
Di quel proprio color ch'ha di natura;
L'insegna è questa del suo padre Amone,
Piacque alla dama simil portatura:
Fu il leon poi alquanto tramutato,
E di integro Ranaldo il fe' sbarato.
LXXIX.
Tanto col re Cretense oprato avea
Ranaldo, che a re Carlo è fatto amico,
E battezzarsi in tutto si volea
Che di Califa fatto era nemico;
E la cagion che a questo lo movea
Ditta l'ho sopra, e più non la ridico:
E in ponto stan quando fia tempo e luoco
Di accender fra' pagani un doppio foco.
LXXX.
E per tessere alfin quel che avea ordito,
E mandare ad effetto il suo disegno,
Alla sorella prese per partito
Far di sua mente cum buon modo segno;
E presto entrò cum l'asta bassa ardito
Fra' cristian, come li avesse a sdegno,
E percosse uno apresso alla sorella,
Che in terra il fe' cadere, e turbar quella.
[33]
LXXXI.
La dama allor cum rabbioso schismo
Verso Ranaldo si aventò col brando,
Per mandar quello, come lo esorcismo
I spiriti infernal de fuga in bando;
Del duol già ne sentì gran parossismo,
Ma non volse il baron far di rimando,
E beffarla e fugir cominciò insieme,
Come un pazzo che scherza a un tratto e teme.
LXXXII.
Dicea Ranaldo: sei tu de' baroni
Che se chiamano in Francia paladini,
Che non potete fuora delli arcioni
Gettar li men stimati sarracini?
Se non aveste le armi e i brandi buoni,
Persi aria Carlo ormai e' suoi confini;
E tu porti il leon, superba insegna,
Per dimostrar ch'in te gran forza regna.
LXXXIII.
Per tal parole, e per la prima causa
Dello occiso baron vicino a lei,
Seguia Ranaldo senza alcuna pausa,
Per condurlo col brando a casi rei;
E per grande ira allor saria stata ausa
Entrar nel fuoco o dove stanno i Dei,
Volar al ciel, o profundarsi in mare,
Per volersi del caso vendicare.
[34]
LXXXIV.
Fugia Ranaldo, et ella seguitava
Tanto, che fuora delle schiere usciro;
Allor Ranaldo a quella si voltava,
Dicendole, sorella, assai mi ammiro
Che tanto il tuo fratello ora ti agrava,
Che dar gli cerchi l'ultimo martiro;
Se ben son stravestito e non sto saldo,
Io però sono il tuo fratel Ranaldo.
LXXXV.
E verso lei alciata la visera,
Fecela chiara di quel ch'era incerta;
Visto alla faccia che quello appunto era
Ranaldo, e che ne fu la dama certa,
Depone ogni furor, jubila e spera
Che presto sua possanza sia scoperta;
E in ben di Carlo, e danno de' pagani,
La vittoria per lui fia de' cristiani.
LXXXVI.
Dopo molte parol tra lei e lui,
Ranaldo le contò lo ordine dato
Col re d'Oranio e i capitanei sui,
Sì come per adietro hovvi narrato;
Onde sogionse, a te prima che altrui
Il mio penser secreto ho revelato,
Acciò che vadi al capitan Dainese,
E quel ch'io a te, tu a lui facci palese.
[35]
LXXXVII.
Digli che in ponto cum due squadre stia
Cum qualche, che a lui piaccia, baron franco;
E che quando levato il rumor sia
Nel campo de' pagan, venga per fianco,
Che de venir lì avrà secura via,
Nè può venirne tal disegno a manco;
Egli da lato, e nuoi da la codazza,
Porremo a morte li inimici e in cazza.
LXXXVIII.
E senza spia che gli riporti quando
Comparir deva, digli che pur presto,
Che il cominciar tal cosa è a mio comando,
E che il troppo tardar mi è già molesto;
Comincierò adoprar subito il brando
Ch'io pensi che ciò a lui sia manifesto.
Vanne, sorella, e digli che non erri,
Che oggi vittoria aranno i nostri ferri.
LXXXIX.
Inteso ch'ebbe Bradamante il tutto,
Verso Parigi punse il suo destrero,
E come ben Ranaldo avea condutto
Il suo disegno, disse al franco Ugiero;
A cui, poi che l'udì, non parve brutto
Del buon Ranaldo l'ordine e il pensiero,
Anci per darli cum prestezza effetti
Ebbe dui capi cum lor squadre elletti.
[36]
XC.
L'uno fu Namo, e l'altro Ricciardetto,
La sesta schiera ha quel, questo la nona.
Et ad ambi narrò tutto l'effetto,
Perch'esso andar non vi volse in persona;
Che un capitanio generale elletto,
Raro o non mai l'esercito abbandona;
E però a quelli revelò il secreto,
Di che ciascun di lor funne assai lieto.
XCI.
Così per via dove non fusser visti
Cum le lor schier li capi se avioro
Per ritrovare i sarracin sprovisti,
E contro essi adoprar le spade loro;
Spera ciascun di far solenni acquisti,
Poi che del tutto bene instrutti foro:
Ma vadan quelli, io tornerò al Danese,
Che ove è Carlo rimase, e ad altro attese.
XCII.
Per impedir che quei ch'erano in fatti
Tenessero ivi il lor combatter saldo,
Nè adietro fusser dal rumor retratti,
Quando l'assalto arà fatto Rainaldo,
Cum stratageme e ingeniosi tratti,
Di che esser debbe sempre un capo caldo,
Gano mandò cum la settima schiera,
Dove la prima pugna in gran colmo era.
[37]
XCIII.
Cum trenta milia di sue genti pronte,
E cum molti di suoi conti malvagi,
Entrò in battaglia il Magazense conte,
E secco avea Beltramo e Bertolagi,
Falcon, Sanguino, Spinardo e Lifonte,
Anselmo, Pinabello et Aldrovagi,
Cum altri molti che ridir non stimo,
Ma Gano fu cum l'asta al ferir primo.
XCIV.
Rupe la lanza proprio a mezzo il scudo
Di Medonte di Dacia cavaliero,
Che li cacciò fuor della schena il nudo
Ferro dell'asta, sì fu il colpo fiero;
Poi trasse il brando e nequitoso e crudo
Il capo fesse a Corifonte arciero;
Di Dacia fu costui, a Odrido caro,
Ma non gli fu a quel colpo allor riparo.
XCV.
Ma Balugante dello assalto accorto,
Mandò nella battaglia Ardubalasso,
Qual percosse Dudone, e come morto
In terra lo gittò cum gran fracasso;
E pria che fusse quel baron risorto,
Fu preso, ancor pel colpo afflitto e lasso;
Nè puote esser soccorso allor Dudone,
Che a Balugante fu dato pregione.
[38]
XCVI.
Per il nuovo soccorso, e la gran forza
Di Ardubalasso li cristian fugiro,
E la furia schifar ciascun si sforza,
E li più forti allora si smarriro;
L'ardir di molti quello assalto amorza,
E qual Bufardo fuge, e quale Artiro,
Chi Odrido schifa, e chi Bravante fuge,
Dove salvarsi spera, ognun rifuge.
XCVII.
Grida Olivier cum voce minacciante,
E grida Gano: ove fugite voi?
Seguitene cristiani, andiamo avante,
Volete abbandonar re Carlo e nuoi?
Re Carlo anch'esso pure ha genti tante,
Che a tempo manderà soccorso ai suoi:
Non dubitate, ognun torni a ferire,
Che la gloria de un forte è un bel morire.
XCVIII.
Ardubalasso intanto ed Oliviero
Cum furia estrema si affrontaro insieme;
Ferì questo il pagan sopra il cimiero
Cum furia tanta e cum tal forze estreme,
Che poco men che nol cacciò al sentiero;
Ma pur di doglia esterminata il preme,
E se non era allor l'elmo sì forte
Condutto era Olivier pel colpo a morte.
[39]
XCIX.
Ma buona pezza stette strangosciato
Per quel gran colpo il paladin marchese,
E pregione era, se non era aitato
Da Ganelon che a forza lo difese;
Prese una lanza, e nel sinistro lato
Percosse Ardubalasso e a terra il stese,
Chè contra lui sì inopinato venne,
Che 'l sarracino in sella non si tenne.
C.
Resorse intanto il gran signor di Vienna,
E forte combattea col brando in mano;
Così fa Gan che tocca e non accenna,
E questo occide e quel riversa al piano;
Ma non val lor cum brando e cum antenna
Ferir, che sol sono Oliviero e Gano
Or capi tra' cristiani in tal tenzone,
Preso è Dudone, Astolfo e Salomone.
CI.
E Bradamante col suo Ricciardetto
Si pose in schiera come fu ordinato,
Per far col sir di Montalban l'effetto,
Che di sopra poco anzi io vi ho narrato;
Però il Danese che avea tal respetto,
Vuol che sia aiuto ai combattenti dato,
E in battaglia Turpin presto mandava
Cum la sua schiera di ordine la ottava.
[40]
CII.
E subito parlò del fatto ordito
Contra' pagani al sacro imperatore,
Et ordinosse allor che Carlo uscito
Cum la sua schiera de ordinanza fuore,
L'inimico da un canto abbia assalito;
Sentendo in quella parte il gran rumore,
E inteso di Ranaldo il duro assalto,
In quella parte allor debbia far alto.
CIII.
Turpino intanto tanti fatti fece
Ch'io non ricordo e cum brando e cum lanza,
Che parve un fuoco entrato nella pece,
Che Dio li accrebbe il lustro e la possanza;
Tutte le schiere de' Cristian refece,
Tal che ciascun di lor prese speranza;
E in questo assalto de' forti cristiani
Gran danno e occision fu fra' pagani.
CIV.
Ma Balugante manda Marcaluro
A soccorrer pagan già posti in fuga,
Qual nequitoso e di superbia duro,
Dove entra li cristiani atterra e fuga;
Ma Ranaldo che vede il caso oscuro
Delli occisi cristiani, il fronte ruga,
E tratto il brando, se n'andò dove era
Non distante Califa e la sua schiera.
[41]
CV.
Ranaldo avendo l'abito pagano
A Califa accostossi cum buon modo,
E dielli sopra il capo un colpo strano,
A guisa che si caccia in legno il chiodo;
Trovol sprovisto, e riversollo al piano,
Benchè fusse quel re gagliardo e sodo;
Nè allora ebbe altro mal, ma il buon Ranaldo
Mostrossi allora di gran furia caldo.
CVI.
E cum il brando mena gran tempesta,
E facea colpi fuor d'ogni misura;
A chi braccia tagliava, a chi la testa,
E chi fendeva insino alla centura;
E tanto l'occhio aveva e la man presta
Che facea a un tempo il danno e la paura;
Sempre gridando: adosso alla canaglia,
Che vincitor serem della battaglia.
CVII.
Vedendo questo i sarracin smarriti,
Che non scian ciò che questo dir si voglia,
E vedendo li morti e li feriti
Da sì gran colpi, tremano qual foglia;
E se vi erano alcun delli più arditi,
Che de offender Ranaldo avesser voglia,
Egli col brando sì li acconcia e sbatte,
Che tutti o occide, o cum gran furia abbatte.
[42]
CVIII.
Intanto Bradamante si scoperse
Cum li fratelli e la sua ardita schiera,
E le cristiane insegne al vento aperse
E entrò per fianco dove Ranaldo era;
Questo quel stormo allor tutto disperse,
Vedendosi assalito a tal mainera:
Restò all'assalto ognun da se diviso,
Che assai spaventa uno empito improviso.
CIX.
In altra parte poco a quei distante
Mossessi Namo e tutta la sua gente,
E ove è Tricardo allor si trasse avante
Cum la schiera serrata arditamente;
Non vi fu sarracin tanto constante
A cui non vacillasse allor la mente,
Vedendossi così desordinare,
Nè più si scianno in qual parte guardare.
CX.
Mosso non si è Doranio ancora contra
A' sarracin, ma tempo e luoco espetta,
Che se peggio a' cristiani non incontra,
Senza scoprirse spera la vendetta;
Vede che quanti il buon Ranaldo scontra,
Tutti col brando li investisse e affetta,
Onde in lui spera, e ancor riposa alquanto:
Però posando anch'io fo fine al canto.
[43]