LETTERA ALL'ABATE ANTONIO ROSMINI SERBATI

CARISSIMO ABATE MIO,

È un pezzo ch'io vi voglio un gran bene; e voi non ne dubitereste se la vostra modestia vi permettesse di misurare quanto bene vi deva necessariamente volere ogni persona che vi conosce. Ora, pensate me che ho avuto per la vostra cortesia la fortuna di star insieme con voi tanto tempo; e di vedere davvicino, quanto bene s'unisca in voi la gentilezza del tratto colla serietà della vita, la costanza e la rigidità dei principii colla pietà e l'amore degli uomini, e, insomma, tutta quella bontà d'animo che vi sta dipinta sul perpetuo sorriso delle labbra, con quella grandezza d'ingegno che scintilla sulla vostra fronte alta e spianata.

Ma già a voi parrà che lodandovi così, io vi mostri bensì il bene che vi voglio, ma però senza nessun rispetto alla vostra indole e a' vostri desideri. Fortuna per me, che ci ho una migliore maniera di chiarire a voi e agli altri quanto ossequio ed affetto vi porti. Sapete che questa traduzione d'Aristotile l'ho cominciata per vostra istigazione e consiglio. Ora, io ne son venuto a capo così di farla, come di pubblicarne un primo volume, senza che mi fosse venuta mai la tentazione d'adirarmi contro di voi. E c'era di che, vi so dire. Se un altro mi fosse stato cagione d'una fatica di questa natura, non so cosa gli avrei fatto. Ma il pensiero che eravate voi, mi rompeva ogni parola in bocca. E mi confortava quando qualcuno de' miei amici mi principiava a cantare, che la fatica non solo era grande come pur era, ma inutile affatto. L'animo mio pendeva a crederlo; ma mi soggiungevo poi: - Il Rosmini non m'ha detto così. E ripensando, trovavo che la ragione, com'è naturale, era dalla parte vostra. Di fatto, ne prendevo animo a rispondere poi alla mia volta io, e vedevo che chiudevo la bocca a que' miei provvidi amici. Inutile, dite voi, ma a che? Di certo, che la metafisica d'Aristotile non sarà buona ad accelerare nessuno de' progressi materiali della civiltà moderna: nè si pubblica per questo. Ma credete voi, - gl'incalzavo io, - credete voi, che siamo noi uomini diventati così da poco che dobbiamo prenderci maggior pena di trovare un modo più spiccio di accendere i zolfanelli che di capire tutta la storia e lo sviluppo del pensiero umano? Certo che i zolfanelli sono più vendibili; ma ci sarà niente di più degno e perciò di più utile che l'intenderci noi, noi in quello che siamo e in quello che fummo? E c'è libro - mi dicano - c'è libro che sotto questi due rispetti valga più e meglio della metafisica d'Aristotele? Della metafisica d'Aristotile, che dopo essere diventata una parte essenziale del pensiero greco, dopo aver formato il nocciolo della filosofia neoplatonica, dopo essere entrata insieme con questa nella filosofia de' Padri, è stata il pernio principale della deduzione della teologia cattolica al medio evo? Della metafisica d'Aristotile, che ha esercitati tanti ingegni, che ha dato cagione ed origine a tante speculazioni da Teofrasto fino a Hegel? Ma non vi fate sentire; è cosa da barbari il disprezzare tutto quello di cui l'utilità non è pratica e palpabile; sconoscere ogni effetto, che non si sperimenti nelle regioni basse, umili ed abiette della vita; e dire, che non serva a nulla quello la cui opera ed azione è bensì immediata solo nella parte più eterea, alta, spaziosa, sublime, riposta della mente umana; ma è però tale che discende per vie non visibili al volgo in questa vita quotidiana, e ne informa i giudizi, ne dirige i passi, le voglie ed i fini. Sursum corda, amici miei: e poi credete, che un libro difficile sia un così gran male? Volesse il Cielo che se ne leggessero di tratto in tratto. Io vi dico, che co' libri a cui ci avvezzano oggi, co' libri che si leggono come bere un uovo, si risica di temperarci così mollemente l'ingegno, che non si sarà più buoni a trovar nulla, neppure quella maniera più certa di accendere i zolfanelli. Sapete chi ha educati gl'ingegni moderni a quella potenza d'analisi, a quella costanza di ricerche, a quel vigore di logica di cui abbiamo fatta fin oggi una così felice e così feconda prova nelle applicazioni delle scienze fisiche? Ebbene, non mi gridate, perchè è il vero, e quando v'avrò detto che è un vero visto anche dal Condorcet, v'entrerà in grazia, di certo. Gli educatori sono appunto stati Aristotile e gli Scolastici. E vi so dire che di qui a qualche tempo - non determino gli anni - questa buona tempera dell'ingegno moderno avrà bisogno di essere affilata da capo; e tornerete, non ad Aristotile e agli Scolastici, ma a qualcosa di simile. E mettiamo che non ci tornaste per quel bisogno che dico io, ci tornereste per un'altra via. Ora, la civiltà nostra non pensa nè medita nè intende se stessa: va avanti difilato, aggiunge istrumenti ad istrumenti, mezzi a mezzi, scoperte a scoperte: ma bisognerà che si riassuma e si ripensi, e che l'uomo, ora come sbalordito di questo progresso d'ogni sorta di mezzi d'una miglior vita materiale, si ricordi daccapo di chi vive e di perchè viva; e che, ristucco d'andare avanti o costretto a fermarsi, si rivolga indietro, o intorno a sapere: cosa egli sia e dove vada? Allora, come s'è visto in Germania nel principio di questo secolo, gli studi speculativi torneranno in onore: e come colla speculazione dommatica è intimamente connessa la storica, quell'Aristotile rivorrà il suo posto. Sarà male allora che l'Italia sappia anch'essa o abbia un modo più facile di sapere, cosa fosse codesto Aristotile? Anzi, son troppo discreto a parlare in futuro; fin d'ora Aristotile ha un valore non pure storico, ma perfino dommatico in Italia come in Germania. Giacchè cosa mai è la filosofia del Gioberti tra noi, e quella dell'Hegel tra' Tedeschi, se non appunto le due forme diverse ed ultime del pensiero speculativo Aristotelico? Ah! fate viso di sbalorditi. Ebbene, sì ve lo ripeto. Il Gioberti e l'Hegel sono ancora Aristotile, e stanno per lui contro a Platone. La vi par nuova, la vi par curiosa? Ci ho gusto. Non sapete come sia. Sta bene. Studiate dunque Aristotile, e toccate con mano che è pure uno studio utile a qualcosa. Qui, i miei amici si tacevano, persuasi forse, per cortesia. Ed io ho voluto ripetere a voi tutto quello che dicevo a loro, perchè l'averglielo potuto dire è parte dell'obbligo che ho con voi.

Ma, come dicevo prima d'entrare in questo discorso, non vi posso negare che questo lavoro, intrapreso per vostro consiglio, non sia qualcosa da farvi rinnegare la filosofia. Alle difficoltà che son comuni a tutti gli scritti antichi, e ne rendono rara l'intelligenza e difficile l'interpretazione, Aristotile ne aggiunge di sue. Si principii dal dire che le sue opere, quantunque studiate molto, pure non sono state sottoposte a quel diligente studio critico del testo, che ha ridotta a così certa e spedita lezione la maggior parte de' classici greci. Il Bekker, davvero, col confronto de' manoscritti e colla sua edizione del testo, ci ha fatti avanzare di molto; ma c'è ancora un gran distanza dalla condizione in cui si trova il testo, per nominarne uno, di Platone, da quello in cui si trova l'aristotelico. Eppure bisognerebbe che fosse al contrario; giacchè e per quello che se ne vede, e per quello che se ne sa, il testa di Aristotile ha più bisogno di medicine e d'empiastri di qualunque altro. Dunque, le più volte, bisogna prima assicurarci delle parole che ha dovuto scriver l'autore, per tentarne poi una interpretazione esatta e precisa. Di quanto maggiore difficoltà sia questo nella metafisica, lo sa chiunque ha notizia del libro nel greco, o se non altro, delle relazioni intorno alla maniera in cui ci è stato trasmesso. Ed io vi dico in verità, che senza il Bonitz, il quale dopo pubblicate certe sue eccellenti osservazioni critiche nel 1842, ha poi stampato nel '49 un'ottima edizione della metafisica con un commentario lucidissima, non avrei potuto in questa parte fare la metà di quello che ho fatto o ci avrei dovuto spendere il doppio della fatica che ci ho spesa. A ogni modo, d'una parte di questo lavoro meramente filologico ho dovuto dare un attestato; giacchè ne' punti di maggiore rilievo, ne' quali m'ero determinato a una tale o tal'altra interpretazione per avere adottata una punteggiatura o una lezione diversa da quella del Bekker, ho dovuto pure dire i miei motivi e le mie ragioni: e, come si indirizzano a un numero di lettori davvero minimo, soprattutto in Italia, gli ho detti ed esposti non in note a piè di pagina, ma in note alla fine di ciascun libro; dove chi le vuole, le andrà a cercare: e chi non ne senta il bisogno, potrà saltarle via senza esserne disturbato nella lettura del testo.

Spero che anche a voi paia che alla maggiorità de' pochissimi lettori del libro d'Aristotile, basteranno le note a piè di pagina; colle quali ho procacciato d'ovviare a un altro genere di difficoltà, non meno serie e gravi. Appunto quello che fa che si legga e si traduca oggi, ha fatto che si leggesse e si traducesse e commentasse prima; e tutta questa serie di lettori, traduttori e commentatori ha generata una moltitudine d'interpretazioni varie, diverse, le quali vogliono essere considerate tutte o la più parte, e tra le quali s'ha a scegliere, o al di là delle quali s'ha a proporre un'interpretazione. Cosa molto più difficile qui, che nei libri logici e fisici d'Aristotile: perchè qui la materia è più ardua, e non ha riscontri certi o riprove evidenti. Aggiungete che un libro scientifico non resta in autorità tra gli uomini per parecchie generazioni se non a un patto; ed è, che sia scritto di maniera che quantunque abbia un senso fisso e determinato, pure questo senso non ci sia espresso con tal certezza e particolarità, che non ci possano i varii pensieri de' filosofi trovare una immagine, ciascuno, del propio. Codesto è appunto succeduto alla metafisica. Tutti quanti i sistemi fino a Cartesio ci si sono specchiati dentro; e ci hanno più o meno riconosciuto il proprio viso. E per Aristotile, oltre di questa ragion naturale dell'effetto che dico, ce n'è stata una onorevole per lui, ma faticosa per noi. Le sue dottrine sono state tenute per assolutamente vere durante un lungo spazio di tempo; e da gente che pure aveva per vere e a miglior diritto tutto un altro ordine di dommi, che non erano punto scaturiti dalla filosofia aristotelica. Erano, dunque, obbligati, quando non potevano dedurre quelli con questa, di accomodare questa a quelli. Per loro, le conclusioni dommatiche d'Aristotile avevano un'importanza grandissima per se stesse, e non come l'hanno per noi, in quanto sono indizi e momenti storici della scienza speculativa. Di maniera che tutte quelle parti della metafisica che contenevano informazioni e discussioni storiche parevan loro come dice lo Scoto (Conclus. p. 465) minus utiles et amplius toediosae ; appunto il contrario di quello che paiono a noi, i quali riserveremmo, in un caso, quelle due qualificazioni alle parti dommatiche, se anch'esse non ci diventassero storia.

Ora, a cosa serve tutto questo? A dirvi quello che di già sapete; che nell'interpretare Aristotile la luce del sistema proprio dell'autore dev'essere distinta da tutti i riverberi de' sistemi altrui. Il che equivale a dire che non basta di conoscere tutte quelle interpretazioni varie, ma bisogna anche giudicare quali portino il segno d'un pregiudizio dell'interprete attinto d'altronde: e che perciò di tutto quel lavoro che s'è fatto di leggere i commentari, una gran parte dev'essere persa e trascurata. Ma quale? Qui giace Nocco , direbbe il vostro padre Cesari. Il criterio, non c'è altra maniera di formarselo se non con Aristotile stesso: e bisogna portarlo già formato nella lettura de' commentari e servirsene per saggiarli. E per formarlo, c'è, mi pare, in genere un solo mezzo; l'uso continuo e meditato dell'autore che s'interpreta: così si contrae una certa parentela di mente per la quale si acquista l'abito d'intendere l'autore per il suo verso, di non diminuire nè ingrossare il valore della sua frase, di capire i nessi e gli sviluppi del suo pensiero. S'acquista come un senso intimo, del quale potete mostrare e persuadere gli effetti, ma del cui processo se si possono scoprir poi le ragioni, non s'indovina prima la via. Ma c'è qualcosa se non di meglio, certo di più sicuro per gli altri in quanto alle interpretazioni de' luoghi singoli. Il nesso che un periodo, inteso d'una tale o tal'altra maniera, acquista con un intero ordine di nozioni e con tutto il sistema, e la riprova e il confronto de' luoghi paralleli sono il miglior criterio d'una interpretazione. Ma guadagnato, davvero, con quanta pena! Giacchè vi bisogna un esame accurato di luoghi a grandissima distanza l'uno dall'altro, senza farvi strascinare da quello che hanno di simile, a sconoscere quello che hanno di dissimile. Questa difficoltà, che per uno scrittore moderno già è grandissima, per un antico, Rosmini mio, non ho bisogno di dire a voi quanta e quale sia. Invece, vi voglio confessare che come nella parte filologica il Bonitz m'ha risparmiato il più del lavoro, così, in quanto al raccogliere i luoghi paralleli, me n'ha risparmiato moltissimo il Waitz; il quale nel suo eccellente commentario dell'Organo nel 1844, ha messa grandissima cura in questo. Ma non voglio però col nominare solo il Waitz dar ragione di supporre che non deva nulla ad altri. Non sarebbe il vero; giacchè mi sono anche stati di grandissima utilità, così nel paragone de' luoghi come nell'intendergli, il Bonitz stesso col suo commentario; il Trendelenburg colla sua storia della dottrina delle Categorie (Berlin. 1846), e co' suoi Rudimenti di logica: il Brandis col primo volume del suo Aristotile (Berlin. 1853), e tanti altri, che ho citati puntualmente nelle note. D'Italiani, almeno moderni, ahimè, nessuno! E n'avrei avuta tanta voglia. Ma purtroppo, ora, in studi di qualunque sorte, ci si trova così di rado in compagnia della gente di casa. Ci bisogna correre quasi sempre oltre mare ed oltre Alpi. E pure, perchè in questi intervalli del fare, non ci occupiamo a pensare? Perchè non prendere intanto colla coltura quel posto, che vogliamo tenere tra' popoli? Forse il non averlo è cagione, che ogni sorte di studi sia piuttosto giù in Italia; e questo con tanti altri è effetto della stessa causa. Forse; ma a me pare, che ciascuno dovrebbe spronar sè medesimo e sforzarsi a vincere, almeno in questo, la dura condizion della patria. I forti studi di qualunque natura sono buon preludio di forti opere.

Questa digressioncina non poteva venire meno a proposito di quello che sia scrivendo a voi, il quale siete così operoso e potente sostegno della nostra gloria scadente, ed uno di que' pochissimi a chi ancora il ben piace nel bel paese. Ma sapete che le lettere non richiedono nè molta riflessione nè molto ordine: e perciò, poichè ho scritto, lascierò stare e pregherò voi di ridire coll'autorità vostra quello che ho detto io e che è pur vero. Intanto, mi basterà di tornare in via, e di continuare a dirvi tutto quello che ho fatto, per eseguire il meno male un'opera, principiata - mi piace di ripetervelo - a vostra istigazione.

Dunque, di tutta questa parte che concerne l'interpretazione, troverete un saggio continuo nelle note a piè di pagina. Ci ho voluto mettere tutto quello che bisognasse e servisse a intendere il testo. E se, non dico voi, perchè voi non avete che fare de' miei schiarimenti, ma chi si sia trovasse nel testo un periodo, che non gli fosse schiarito da mia nota, mi gridi e mi batta pure; che ci avrò gusto. Giacchè niente più mi dispiace che di non riuscire a quello che mi sono proposto; e mi sarebbe accaduto. Difatti, non c'è luogo buio che io non mi sia incaponito e scapato di far capire. Se qualche viluppo, qualche intoppo non l'ho visto e non l'ho perciò levato via, me ne duole.

Ecco poi, Rosmini carissimo, la maniera che ho seguito, e i limiti in cui mi sono tenuto nello scrivere queste note. Ci ho per lo più proposta e spiegata quella sola interpretazione che ho creduta migliore, dove m'è parso di non poter dire nè altro nè meglio, con parole altrui, dove altro e meglio, con mie. La varietà di interpretazione non l'ho notata se non ne' luoghi di rilievo; e oltre di que' moderni che già v'ho nominati, mi son servito, tra gli Scolastici molto di S. Tommaso, poco dello Scoto; tra quelli del secento, alcune volte del Nifo, parecchie volte dello Scaino, e di certi altri un po' più di rado. Non intendo di far qui una storia dell'interpretazione aristotelica; perciò mi basterà di soggiungere che di quanto l'Afrodisio, - fin dove è di certo lui, cioè dire fino al sesto libro - sta al di sopra ad Asclepio, di tanto S. Tommaso sopravanza lo Scoto. Davvero, lo Scoto m'è riuscito minore dell'aspettativa; non so delle altre sue opere; ma qui, nel suo commentario alla metafisica, dove non riassume S. Tommaso, ch'è quello che fa quasi sempre, aggiunge sottigliezze vuote, e che di rado stanno sul sodo. Gran cosa, davvero, quel S. Tommaso! Che ingegno acuto e solido! Quanta chiarezza e temperanza! Non ci ha difficoltà che lo scoraggisca, non ci ha quistione che lo rispinga, non ci ha intoppo che l'arresti. Il cercare di capire non è per lui una curiosità, ma un obbligo: e lo sforzo dell'intelligenza lo mostra, ma non l'annunzia. Mai un ghigno, una maledizione, una burla, un'ira, un rimprovero, un riso per i suoi avversari di qualunque sorte: pronto sempre a discutere, sicuro e non baldanzoso delle sue armi. Peccato, che nella tradizione delle scuole e de' teologi - scusate che ve lo dica - sia rimasta più la sua dottrina che la sua maniera di difenderla, più i risultati delle sue ricerche che la ricchezza, il vigore e l'ostinazione e l'ardire della sua vena inquisitiva. Nel commentario della metafisica sono molte più le volte che indovina, di quelle che sbaglia il che non potrà non parere meraviglioso, a chi sappia quali erano le traduzioni latine da cui attingeva la cognizione del testo, o quanto poca potess'essere, mettiamo che ci fosse pure, la sua cognizione del greco. Quello che m'ha fatto molto maravigliare, e di cui non mi son reso conto pienamente, è come s'accordi in tanti luoghi coll'Afrodisio, senza però citarlo mai. L'accordo è tale, che non può essere casuale. So che non ha potuto leggerlo: ma credo - e non mi pare che ci cada dubbio - che dovrebbe avere avuta cognizione non meno del contenuto de' suoi commentari che del suo nome, da Averroè. È un punto speciale, forse d'un qualche interesse storico, che non ho i mezzi di trattare ora; e fortunatamente, il luogo non sarebbe opportuno. Dirò invece qualcos'altro su que' commentatori di cui ho citato il nome. Se il Nifo segue, per lo più l'Afrodisio, e non ha davvero niente di nuovo, non è però così dello Scaino. Questo è stato davvero, il primo che si sia servito di un commento che ci resti, d'un metodo diverso dallo Scolastico nell'interpretazione Aristotelica. Il metodo Scolastico consiste nell'interpretazione solitaria di ciascun luogo mediante un criterio non prettamente Aristotelico, e non ha a fondamento - nè poteva - uno studio filosofico o filologico comparato del testo. La Scaino, quantunque abbia letti e studiati tutti quanti i commentari degli altri, pure non se ne contenta, e cerca il suo principale aiuto e sussidio, appunto come si fa oggi, in Aristotile stesso. Ma però badate che col dire che il suo commentario sia il primo in cui ci resti un esempio di questo metodo critico applicato alla metafisica, non voglio già intendere che sia stato davvero lui il primo a conoscerlo e praticarlo. Giacchè tutti i Peripatetici non Scolastici del cinquecento lodano un tal metodo e ne fanno vedere la necessità. Basterebbe, chi non ne fosse persuaso, leggere la prefazione d'Ermolao Barbaro al suo corso sopra Aristotile, che si trova tra le opere del Poliziano: non ve la trascrivo, perchè già di cose superflue per voi ne ho scritte parecchie; e vedo, a una certa smania che mi sento di cicalare, che ve ne dovrò dire parecchie altre prima di finire.

E per ora, di certo, vi devo continuare a dire cosa ho inteso fare colle mie note dichiarative. Prima, dunque, diminuire oscurità a testo, per quanto si poteva: poi, notare ne' luoghi di maggior rilievo la varietà dell'interpretazione: infine, dare una notizia, dal quarto libro in poi, delle questioni Scolastiche di maggior grido, suscitate dalla metafisica. La ragione della questione c'era, e il vederla suscitata è prova indubitabile, che il pensiero del testo non è abbastanza certo, concreto, compito e determinato. Se però le questioni mi pare che interessino, le soluzioni Scolastiche non sono di veruna utilità, e non le ho se non accennate e di rado: mai poi i ragionamenti co' quali ci arrivavano. Così nelle soluzioni come ne' ragionamenti, sopratutto per le questioni posteriori a S. Tommaso, c'è qualcosa di così sottile, di così evanescente, di tanto estrinseco alla materia di cui si tratta, di così spostato, di così discosto dal reale, di così meramente dialettico, che ci costa moltissima fatica il tenerci dietro e non se ne coglie poi nessun frutto. Di più, le soluzioni non si potrebbero capir bene scompagnate dagl'interi sistemi di quelli che le hanno difese ed adottate: il che equivale a dire, che in una nota ad un periodo di Aristotile sarebbero affatto fuori di luogo.

Voglio che osserviate - è una cosa di cui mi compiaccio - che nelle mie note non ho mai detta ingiuria a nessuno. Cosa tanto rara tra' commentatori, quanto tra gli uomini di lettere, e, dicono, tra' teologi. Ma per i commentatori, credo io, ha una ragione tutta speciale. Gli uomini - l'ho sempre visto - sono in un grandissimo e continuo sospetto per le qualità che credono siano lor negate dagli altri: perciò di quelle che loro accordano, non si danno pena, ma per le altre fanno di tutto, operando, parlando, scrivendo, per persuadere a sè e agli altri che proprio quelle qualità che non gli si vogliono riconoscere, le son quelle che loro hanno in supremo grado. Questa è la ragione per cui ogni commentatore è in una perpetua smania di mostrare a tutti che quella vena inventiva la quale appunto crede che gli sia negata, a' suoi confratelli forse manca, ma lui, di certo, per un caso strano, l'ha. E gli pare un mezzo, adatto a questo lo strepitare contro tutti i suoi predecessori, gridando a gola piena che non hanno visto niente, che hanno saltato a piè pari, che si sono affogati in un bicchier d'acqua; e cose simili. Ora, io dichiaro che per me non ce n'è nulla: non ho avuto bisogno d'una gran vena per fare un commento alla Metafisica: ho adoperato molto i miei predecessori, e se si vuole, sono uno sgobbone. Un lavoro di questo genere, se non esclude, certo non richiede originalità d'ingegno: ma profondità nel pensare, acutezza nel discernere, esattezza nel concepire, chiarezza nell'esprimerci, diligenza nel confrontare. Ora, come non s'è proprio obbligati in coscienza a poter scrivere i Promessi Sposi o il Nuovo Saggio , quelle qualità, chi le avesse, basterebbero alla riputazione d'un galantuomo.

Ma, dite voi, con tutte queste note d'ogni sorte non s'arriva a far capire Aristotile altro che ne' particolari: bisogna poi dare un concetto dell'intera sistema nella unità e totalità sua. Appunto, ci avevo pensato: e m'è parso che questo lavoro, fuori che per una parte, dovessi conservarlo per l'ultimo; e condensarla tutto in un intero volume, nel quale avrei non solo esposto tutto il contenuto della metafisica d'Aristotile, ma cercato anche di rilevarne il valore dommatico e il significato storico, connettendolo con la storia antecedente e successiva della scienza. Di certo, questo volume l'avrete, dopo avere però visti prima gli altri che conterranno i susseguenti libri della Metafisica annotati e discussi nella stessa maniera. Non mi pare che si possa dissentire che bisogni prima averla rovistata in ogni suo particolare, e poi cercare di ripigliarla e ripresentarla nella vita che l'anima. Da una parte in fuori, dicevo. Di fatto, c'è un tuttinsieme che s'ha pure a mostrare, se si vuole che le interpretazioni particolari sieno intese davvero: ed è quel tanto che serve a intendere il nesso e l'ordine de' libri metafisici. Questione necessaria anche per altre ragioni che voi sapete, e che non devo ripetere qui, per averle già dette a chi non le sapesse, nel mio proemio. Ora, fortunatamente, l'è questa una tal questione che non si può risolvere senza toccare del contenuto della Metafisica appunto quel tanto che può servire all'intelligenza de' particolari punti di dottrina.

Come poi, volendo unire in un volume solo a parte tutto quello che concerneva la storia della metafisica, non mi son data molta pena di commentare i giudizi storici d'Aristotile de' quali, chiari già da sè, non si poteva indicare tutto il valore ed il senso se non trattandogli uniti, m'è parso anche bene, perchè fin d'ora non mancasse a questi volumi nulla di ciò che si può desiderare per intenderne il contenuto, di aggiungere in fine di ciascun volume delle dissertazioni speciali sopra punti storici di maggior rilievo. M'ero proposto di farle io; ed avevo scelto per il primo volume l'esposizione aristotelica della dottrina platonica. Ora, per dirvela come sta, ho trovato il soggetto così bene e pienamente trattato dallo Zeller, che mi son persuaso facilmente di non sapere, nè potere far meglio. Perciò ho data tradotta la dissertazione dello Zeller; e a farlo ci ho poi visti, forse dopo d'essermici deciso, due vantaggi. L'uno di dare qualche notizia agli Italiani della maniera tedesca d'esposizione in queste materie: la quale mi pare eccellente, perchè vi fa quasi assistere all'origine e al processo della convinzione che s'è formata l'autore sul punto di cui tratta. L'altro taceam ne an praedicem ? Lo dirò pure, quantunque non vorrò più dire che sia un vantaggio, se prima non m'avrete detto voi d'esserci riuscito. Dunque, ho voluto provare se si potesse tradurre un libro tedesco in un italiano facile, chiaro, preciso e netto.

Ma tutte le difficoltà e tutti i lavori de' quali ho discorso finora non sono nulla al paragone di quello che vi devo dire. Giacchè l'impaccio maggiore è di tradurre in lingua italiana. Ora, come dice un grandissimo amico vostro, è la bellezza di cinquecento anni che si questiona cosa e dove sia: e la battaglia non è interrotta se non di tratto in tratto dalle grida di certuni i quali esclamano che si smetta pure una volta perchè loro non saprebbero cosa fare di quello che l'un partito o l'altro guadagnerebbe. Costoro, pretendono che quelli che questionano, sono de' pedanti, quasi la pedanteria non consista invece nell'ostinarsi a dir risoluta una questione che non lo è punto. Ma lasciamo stare la questione; qui sarebbe fuor di luogo davvero. Tra quelli che riducono la lingua una Babilonia e quelli che la fanno un cadavere; tra quelli che c'introducono una infinità di principii viventi e quelli che amettono che ci abbia abitato una volta un principio vitale, ma se ne sia ito via e la casa sia vota da un pezzo, ho scelto un partito di mezzo, ma con un criterio, come non sogliono averlo i partiti di mezzo, rigido, continuo e certo. E dico male - ho scelto; perchè l'ho accettato bello e formolato da quell'amicissimo vostro, che chiamerei mio maestro se lo scolaro non gli facesse vergogna; a me non ispetta, se non l'averlo adoperato e male. Io non ammetto, dunque, per frasi e parole buone da scrivere, se non quelle che sono attualmente nell'uso fiorentino; e non vorrei derogare alla regola se non ne' casi in cui quell'uso non m'offrisse davvero nulla d'adeguato al mio concetto: in questi casi, procurerei di trovar quella parola o quella frase che avesse, a ogni modo, maggiore probabilità d'entrare in quell'uso. Tutte le osservazioni che mi si faranno conformi al mio criterio, le accetto volentierissimo: perchè lo scriver bene, in quanto alla lingua, è un'osservanza d'infinite proprietà: e ci sono de' gradi; chi più ne osserva, scrive meglio. Le osservazioni d'altro genere son perse: giacchè, invece, dovrebbe chi volesse, discutere del criterio.

Ma la lingua, per la natura stessa del soggetto del libro, non è il maggior impaccio del traduttore; quello che m'è stato e mi par più difficile, è di fissarsi lo stile adattato a tradurre Aristotile. In tutte le lingue c'è la capacità di tutti gli stili: e il lavoro vero del traduttore, quello che gli dimanda non solo fatica e diligenza ma sentimento dell'arte e forse qualcosa di più, consiste appunto nel trovare nella lingua e nello spirito proprio quella vena di stile, che l'autore ch'egli traduce, ha trovata nella lingua e nello spirito suo. Giacchè una forma, un'idea di stile non adopra per concretarsi gli stessi mezzi, gli stessi espedienti, gli stessi sussidi in due lingue. C'è dove per essere simile, dovete variare; dovete seguire. Questo, in astratto, non si può dire più di così; la questione di fatto è risoluta dal fare e non per teorica, ma d'istinto. Ora, se si vuol tradurre un antico de' buoni, non si può mancare di stile; giacchè l'antico l'ha: e a levargliene, gli levate la vita; e non gli fate, traducendo, il ritratto, ma la maschera. E Aristotile ha stile quanto chi si sia; di maniera che per dirvi perchè io l'abbia tradotto come ho fatto, bisogna ch'io vi dica, quale mi è parsa la natura e la qualità del suo stile.

Gli Scoliasti distinguono con due caratteri lo stile d'Aristotile, la varietà e la concisione. E sono, a parer mio, i veri: ma come s'hanno a capire? Mi è parso, Rosmini mio, che il primo consista nell'aver spogliato lo stile d'ogni forma anticipata; o altrimenti, nell'avere rinunziato a sviluppare ogni pensiero in una forma prestabilita. Di fatto, è appunto questo il carattere più spiccante della prosa d'Aristotile paragonata con quella de' prosatori del secolo di Pericle, eccettuato Platone. Ne' quali una serie di nozioni è ordinata rilevando prima l'opposizione principale che la divide in due o più gruppi: e ciascheduno di questi gruppi, da capo organizzato alla stessa maniera. Si vede soprattutto in Tucidide: e mi basta accennarlo. In Aristotile, al contrario, non c'è nulla di tutta questa arte. Il pensiero è esposto come viene, in una serie continua e sopra una linea sola, con periodi, ora lunghi, ora brevi, concatenati, riguardo alla forma, solo esternamente, e senza costituire un organismo complesso ed unico. Perciò lo stile è vario, non fissato e gettato in un modello. Da questo carattere dipende quel difetto, che gli Scoliasti chiamano l' α κ ατάλληλον o la mancanza di corrispondenza nella frase. Giacchè parecchie volte Aristotile d'una serie che ha enunciata tutta, ritiene nel corso del ragionamento che segue, solo un membro, senza accennare grammaticalmente che abbandona per il momento e lascia stare gli altri; ovvero, annunzia nella forma grammaticale della frase che un pensiero che esprime, appartiene ad una serie e ne forma un membro o una divisione, ma non si dà pena di accennare le altre parti della serie. Talora, la dipendenza intima che ci è tra le varie parti d'una serie di nozioni, non l'esprime lui a quella maniera già detta degli altri prosatori greci; invece, non compie grammaticalmente l'espressione del pensiero principale, e lasciatolo così in sospeso, ci connette tutti i pensieri subordinati che dipendono dal primo e servono sia a schiarirlo, sia a dedurne il contenuto. Perciò sono così frequenti in lui gli anacoluti, e le costruzioni interrotte.

Cosa poi sia la concisione, è chiaro per sè; ma vi ricordate forse, ch'io vi ho detto parecchie volte - e voi m'approvaste - che la concisione in Aristotile non consista principalmente nella espressione di ciascun concetto, ma nella rapidità de' nessi, co' quali passa da un concetto all'altro. Da questo carattere deriva quell'altro vizio, che gli Scoliasti rimproveravano al suo stile: cioè dire l'oscurità. Voi, sapete però quanto poco questa ragione così semplice abbia soddisfatto i commentatori d'Aristotile: e come sono andati pescando i motivi più riposti, perchè l'abbia voluto essere. È uno sciupio di tempo - e il vostro è prezioso - il tener dietro a tanti arzigogoli che si son fatti; e perciò lascio stare. Aggiungo solamente, che quella rapidità di deduzione è una delle più gravi difficoltà di Aristotile: tanto che se s'arriva ad afferrare la dipendenza logica de' suoi concetti, s'è fatto poco meno che tutto. E non è facile; perchè quantunque in greco s'esprima con una particella ogni qualunque maniera di nesso logico, pure il significato della particella non è così certo e preciso, almeno in tutte le sue sfumature, che basti da sè a fissare la natura di quel nesso: e perciò bisogna tanto aiutarsi con l'intelligenza del nesso a capire la particella, quanto col significato delle particelle a capire il nesso.

Se non che concisione, varietà e simili caratteri, non m'è mai parso che per quanto si moltiplichino, si distinguano, si determinino, si riuscirebbe a dar un'idea vivente e concreta d'uno stile. Per farlo, bisogna lasciar da parte queste qualificazioni vote ed astratte, e afferrarle, se è possibile, nel principio che le muove e le determina. Ora, qui - ed è naturale per la natura della critica antica - gli Scoliasti ci lasciano. Io, per dirvela a un tratto e senza stenti, credo che codesto principio stia nella disposizione d'animo colla quale Aristotile si metteva a scrivere; ed era d'uno che non aveva pensato solitariamente e da sè, ma che discuteva co' suoi avversarii e comunicava di giorno in giorno co' suoi discepoli le sue difficoltà e le sue soluzioni. Perciò il suo pensiero non si esprimeva nè nella forma rettorica de' prosatori del tempo suo, nè nella forma ordinata, pacata e piena de' buoni o, altrimenti, de' pochi scrittori di scienza de' nostri giorni. Conservava, scrivendo, l'agitazione del discorso: e ne riteneva gli andamenti subitanei, rapidi, sforzati, violenti e disordinati. Lascia vedere lo sforzo d'un pensiero che si vuol fare intendere ed accettare; che è stato contrastato e difeso. Formola la soluzione con un sospetto perpetuo dell'obiezione; la quale perciò, interrompe l'esposizione, accenna e scansa. Gli basta quella unità che il suo pensiero acquista dallo scopo a cui mira; ed una unità meramente artistica la disprezza. Cerca una formola netta, chiara, precisa, che impedisca il cavillo di chi lo sente. Rigetta la metafora; perchè abbuia e complica; e difatti ne censura l'uso in Platone. Richiede la parola adeguata e che esprima reciso e crudo e ben limitato il concetto; e difatti, accusa Empedocle di balbutire, perchè concischia e non incide. Tra le parole presceglie le più comuni; evita gli astratti, ed esprime perfino le nozioni più scientifiche con parole e maniere volgari. Frizza talora, ma di rado e di corsa: e quando il frizzo fortius ac melius secat res , e riesce a mostrare d'un tratto quanto di leggiero e di non fondato ci sia nel discorso di un avversario, o in una opinione comune. Insomma, lo stile d'Aristotile, a dir tutto in una parola, è un dialogo, condensato e rapidamente accennato a cui mancano le persone; e in cui la discussione non prende una forma artistica al di fuori, ma intus alit totamque infusa per artus .... agitat molem .

E qui vi chiederei scusa e farei punto, se non credessi di dovervi rendere maggior conto di quello che ho detto più su, che Aristotile scansa gli astratti e le parole tecniche, e predilige le comuni. Ora, non solo a chi ha studiato Aristotile negli Scolastici, ma anche agli altri parrà forse che appunto il contrario sia il vero. Per isbrigarmela, potrei dire che l'osservazione è del Leibnizio nella prefazione al Nizoglio. Aristotile, nota lui, non suol dire la quantità , la qualità , la relazione ; ma il quanto , il quale , l' a qualcosa : e ne lo loda, ed aggiunge - non si crederebbe - che i vocaboli indicanti astratti, e i tecnici che chiama privati, sono perniziosissimi, e tanto meglio si scriverà sempre, quanto meno si saranno adoperati. Potrei anche aggiungere un fatto, ed è che la più parte di que' vocaboli astratti, che prevalsero poi nella filosofia greca, sono posteriori ad Aristotile. Ma ci ho una dichiarazione breve da fare alla formola la più apparente lontana dall'uso che si trovi in Aristotile; dietro la quale si vedrà come anch'essa confermi la mia opinione, e dia il bandolo, a fortiori, per ispiegare tutte le altre simili espressioni d'Aristotile. Quello che ora da noi si direbbe essenza ideale sostanziale , non è espresso da lui con una parola, ma bensì colla frase τί ἦν εἶναι; - che era essere? - ; e la costruzione col dativo, non col genitivo: dice, cioè: che era essere all'uomo? , non che era essere dell'uomo? - Ora, perchè quell'imperfetto e quale è la ragione di codesta formola? È questa, mi pare. Aristotile ha elevata ad espressione scientifica la maniera più immediata e comune d'intendere l'essenza ideale: che è di capirla come preesistente d'un'anteriorità non solo logica, ma di tempo alla sussistenza reale della cosa. Questa maniera volgare di concepirla doveva anch'essere prevalsa nelle scuole per via della filosofia platonica, che concepiva l'essenza appunto come qualche cosa di preesistente . Ha una simile ragione la formola cosa è, con cui si esprime non solo l'essenza ideale e sostanziale, ma ogni determinazione costitutiva d'un reale, e nelle parole categoria , accidente , specie e tante altre, che non sarebbe il tempo nè il luogo di esaminare e di noverare qui. Ed era naturale: il carattere d'un linguaggio scientifico formato in compagnia e discutendo, è appunto questo, di discostarsi il meno possibile dalla lingua comune: invece, un linguaggio scientifico formato da uno solo o in una consorteria piccola e dissociata dal resto del mondo, è appunto il contrario: arbitrariamente tecnico e affatto convenzionale. I pericoli di questa seconda maniera di linguaggio sono grandissimi: e gli hanno sperimentati gli Scolastici a' giorni loro, e gli Hegeliani a' nostri. Si finisce col non intendersi: perchè si chiede troppo alla memoria, e più e più ogni giorno. Sia come si sia - giacchè anche questa discussione sarebbe fuori di luogo - gli Scolastici furono, per un caso strano, aiutati a cader nella fossa da Aristotile stesso, senza nessuna sua colpa. Giacchè le frasi sue vicine al linguaggio comune e attinte ad esso, voltate in latino diventarono barbare: e parecchie parole, mantenute co' radicali greci, riuscirono aliene dalla lingua parlata. Di lì due sorgenti non povere di tecnicismo. Aggiungete che le frasi talora erano tradotte a sproposito; e perciò senz'altro fuor di quello che gli si appiccicava per forza di memoria e per una convenzione non esplicita, nè netta. Così il τί ἦν εἶνα tradussero quod quid erat esse : due spropositi; giacchè il τὸ o l'articolo del quale è preceduto ordinariamente nè fa parte della frase nè equivale a quod . Fu perciò fortuna, che prevalesse per indicare la nozione del quodquiderat esse una parola astratta d'invenzione scolastica e delle più felici - quiditas - : parola della quale mi son servito; giacchè adoperando che era essere , quantunque avrei resa a parola la formola greca, pure mi sarei allontanato dal genio della lingua mia: il che Aristotile non avrebbe fatto nella sua. Invece, tutte le altre formole l'ho volgarizzate alla lettera: ed ho detto il che è, l'a qualcosa , giacchè non ci ho trovato nulla di molto difforme dal carattere e da' mezzi della lingua italiana. In tutto il resto ho tentato di ritrarre tutte le altre qualità dello stile d'Aristotile, dopo essermene fatto succo e sangue e contratta una certa conformità di animo e di mente. Ho usata, come un grammatico in un frammento pubblicato dal Kopp (Rhein. Mus - III. 1 ) dice che faccia Aristotile, una lingua pura com'è però al tempo mio e quale m'è parsa correre oggi nel solo luogo nel quale è parlata tutta. Mi son servito di parole precise e volgari; punto metafore e contorcimenti; nessuno odore di poesia. Sono stato conciso fin dove la chiarezza me lo permetteva in italiano, che è un po' meno di quello che lo permetta nel greco. In somma, ho procurato di rendermi conto sempre di quello che Aristotile vuol dire e della maniera con cui lo dice.

Son riuscito? Lo spero, di certo, ma non oso crederlo. Tutto questo ve l'ho scritto, perchè vi costi minor tempo il farmi il processo; giacchè dopo avervi spiegato partitamente tutto quello che intendevo di fare, vi sarà facile, se vi pare, di dirmi, ricominciate da capo, giacchè non vi si può lodare se non della buono intenzione. E mi basta; perchè non s'è obbligati ad altro: quantunque, per dirvela, non ricomincierei. Vi prego poi, a ogni modo, di dirmelo il parer vostro; perchè se non me lo dite voi, forse non saprà mai cosa io m'abbia saputo fare: giacchè in Italia a chi si incaponisse in questa specie di studi, gli accade di esserci seppellito sotto da' suoi compaesani e di non sentirne mai, in vita sua, una parola nè di biasimo nè di conforto. Pazienza! Mi consolerò pensando, che col fare questo lavoro ho seguito il vostro consiglio e che per parte mia non ho mancato a nulla di quello che credevo necessario per fare il meno male.

A rivederci, tra giorni, a Stresa. Intanto vogliatemi bene e credetemi

Tutto Vostro

Torino, 22 luglio 1854.

RUGGIERO BONGHI.

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