INTRODUZIONE

«Il matrimonio non deriva punto dalla natura. – La famiglia orientale differisce intieramente dalla famiglia occidentale. L’uomo è il ministro della natura, e la società s’innesta sovr’essa. Le leggi sono fatte per i costumi, e i costumi variano.»

Il matrimonio può dunque subire il perfezionamento graduale, a cui tutte le umane cose pajono sottomesse.

Queste parole pronunziate davanti al consiglio di Stato da Napoleone, al momento della discussione del Codice civile, colpirono vivamente l’autore di questo libro; e forse a sua insaputa, posero in lui il germe del lavoro che egli offre oggi al pubblico. Infatti all’epoca in cui, molto più giovine, studiò il Diritto francese, la parola Adulterio, gli causò singolari impressioni. Immensa nel codice, giammai questa parola non appariva alla sua immaginazione senza trascinarsi dietro un lugubre corteggio. Le lagrime, la vergogna, l’odio, il terrore i delitti segreti, le sanguinose guerre, le famiglie senza capo, e la sciagura personificavansi dinanzi a lui e drizzavansi improvvisamente quando leggeva questa parola sacramentale: Adulterio!

Più tardi approdando alle spiagge meglio coltivate della società, l’autore si accorse che la severità delle leggi conjugali, vi era in generale assai temperata dall’adulterio. Egli trovò la somma dei cattivi matrimoni, superiore di molto a quella dei matrimonii felici. Insomma credè notare pel primo, che di tutte le umane cognizioni, quella del matrimonio era la meno avanzata. Ma fu un’osservazione superficiale; e in lui, come in tanti altri, simile ad un sasso gettato nel lago, ella si perdè nell’abisso de’ suoi tumultuosi pensieri. Nondimeno, l’autore osservò suo malgrado, poi si formò lentamente nella sua immaginazione come uno sciame d’idee, più o meno giuste sulla natura delle cose conjugali. Le opere si formano forse nelle anime tanto misteriosamente, quanto i tartufi nascenti in mezzo alle profumate pianure del Périgord. Dalla primitiva e santa paura che gli causò l’adulterio, e dalla osservazione, che vi aveva straordinariamente fatta, nacque una mattina un minimo pensiero, dove le sue idee si formularono. Era una satira sul matrimonio; due sposi si amavano per la prima volta, dopo ventisette anni di matrimonio.

Egli si compiacque di quell’opuscoletto conjugale e passò deliziosamente una intiera settimana ad aggruppare intorno a quell’innocente epigramma, la moltitudine d’idee che aveva acquistate a sua insaputa e che si stupì di trovare in sè. Questo cicaleccio cadde dinanzi ad una osservazione magistrale. Docile ai consigli, l’autore si rigettò nella noncuranza delle sue abitudini pigre. Nondimeno quel leggero principio di scienza e di sarcasmo si perfezionò da solo, nei campi del pensiero; ogni frase dell’opera condannata vi prese radice e vi si fortificò, rimanendo come un ramoscello d’albero, che abbandonato sulla sabbia in una sera d’inverno, si trova l’indomani coperto di quelle bianche e bizzarre cristallizzazioni disegnate dalle capricciose brine notturne. Così l’ambizione visse e divenne il punto di partenza d’una moltitudine di ramificazioni morali. Fu come un polipo che si generò da sè stesso. Le sensazioni della sua giovinezza, le osservazioni che una potenza opportuna gli faceva fare, trovarono dei punti d’appoggio nei menomi avvenimenti. Inoltre quella massa d’idee s’armonizzò, s’animò, si personificò quasi, e camminò pei paesi fantastici, ne’ quali l’anima si compiace mandar vagabonde le sue folli progeniture. – Attraverso le preoccupazioni del mondo e della vita, vi era sempre nell’autore una voce che gli faceva le rivelazioni più schernevoli, al momento in cui esaminava col maggior piacere una donna che ballava, sorrideva o parlava. Al modo stesso che Mefistofele mostra col dito a Fausto, nella spaventevole assemblea del Brocken, figure sinistre, l’autore sentiva un demone che, in mezzo ad un ballo, veniva a battergli famigliarmente sulla spalla e a dirgli: Vedi tu quel sorriso incantatore? È un sorriso d’odio, Ora il demone si pavoneggiava come un capitano delle antiche commedie di Hardy. Egli scuoteva la porpora d’un mantello ricamato, e si sforzava di rimettere a nuovo i vecchi tintinnabuli e gli orpelli della gloria. Ora usciva alla maniera di Rabelais, in una franca e larga risata, e scriveva sul muro d’una strada, una parola che poteva servire di pajo a quella: – Bevi! solo oracolo ottenuto dalla diva bottiglia.

Spesso questo Trilby letterario si lasciava veder seduto sopra una montagna di libri; e, con le sue dita uncinate, indicava maliziosamente due volumi gialli, il cui titolo fiammeggiava agli sguardi. Poi, quando vedeva l’autore attento, gridava con voce stridente come le note d’un organetto: Fisiologia del matrimonio. – Ma quasi sempre appariva di sera, all’ora dei sogni. Carezzante come una fata, egli tentava d’addomesticare con dolci parole l’anima che s’era sottomessa. Tanto beffardo quanto seducente, flessibile come una donna e crudele come una tigre, la sua amicizia era più terribile dell’odio suo, perchè non sapeva fare una carezza senza sgraffiare. Una notte fra le altre, egli esperimentò la potenza di tutti i suoi sortilegi, e li coronò con un ultimo sforzo. Egli venne, si sedè sulle sponde del mio letto, come una giovinetta ebbra d’amore, che dapprima sta muta, ma i cui occhi brillano, ed alla quale il suo segreto finisce per isfuggire.

— Questo – egli disse – è il prospetto d’un vestito da palombaro, per mezzo del quale si potrà passeggiare a piede asciutto sulla Senna. – Quest’altro volume è il rapporto dell’Istituto sopra un vestiario adatto a farci traversar le fiamme senza bruciare. – Non proporrai tu dunque nulla che possa preservare il matrimonio dalle disgrazie del freddo e del caldo? Ma, ascolta! Ecco l’arte di conservare le sostanze alimentari; l’arte d’impedire ai camini di fumare; l’arte di far de’ buoni mortai; l’arte di mettersi la cravatta, e l’arte di tagliar le carni.

Nominò in un minuto un numero tanto prodigioso di libri, che l’autore ne ebbe come un abbagliamento.

— Queste miriadi di libri, sono state divorate – diceva – e nondimeno tutti non fabbricano e non mangiano, mentre che tutti si uniscono in matrimonio!... Ma, guarda!

La sua mano fece allora un gesto, e parve scoprir lontan lontano un oceano, in cui tutti i libri del secolo si agitavano con movimenti ondulatorii. Gli in diciottesimo rimbalzavano; gli in ottavo che si buttavano, producevano un suono grave, andavano al fondo e non tornavano a galla che molto penosamente, impediti dagli in dodicesimo, e dagli in trentaduesimo che abbondavano, e si risolvevano in leggera spuma. I cavalloni furiosi erano carichi di giornalisti, di poeti, di cartai, d’apprendisti e di commessi di stampatori, de’ quali non si vedevano che le teste frammiste a’ libri. Migliaja di voci gridavano, come quelle degli scolari al bagno. Andavano e venivano nei loro canotti, alcuni uomini occupati a pescare i libri e a recarli davanti a un grand’uomo arcigno, vestito di nero, secco e freddo: erano i librai e il pubblico. Col dito, il demone, accennò uno schifo pavesato a festa, che andava a piene vele e che portava un manifesto a mo’ di bandiera; poi, facendo udire un riso sardonico, lesse con voce acuta: Fisiologia del matrimonio.

L’autore divenne innamorato, e il diavolo lo lasciò tranquillo; perchè si sarebbe trovato dinanzi ad un ostacolo troppo forte se fosse tornato in una casa abitata da una donna. Alcuni anni trascorsero senz’altri tormenti che quelli dell’amore, e l’autore potè credersi guarito da una infermità per mezzo d’un’altra.

Ma una sera si trovò in una sala di Parigi, dove uno degli uomini che facevano parte del circolo descritto davanti al caminetto da alcune persone, prese la parola e raccontò con voce sepolcrale l’aneddoto seguente:

— È accaduto un fatto a Gand, mentre v’ero. Una signora, vedova da dieci anni, colpita da mortal malattia, giaceva in letto. Il suo ultimo sospiro era aspettato da tre eredi collaterali che non l’abbandonavano un istante, per paura ch’ella non facesse un testamento a pro delle beghine della città. La malata rimaneva silenziosa, pareva assopita, e la morte sembrava impadronirsi lentamente del suo volto muto e livido. Li vedete, in mezzo ad una notte d’inverno, i tre parenti silenziosamente seduti davanti al letto? Una vecchia infermiera è là, che scuote la testa, e il medico, vedendo con ansietà la malata arrivata al suo ultimo periodo, passa il suo cappello da una mano all’altra, e fa un gesto, come per dir loro: Non ho altre visite da farvi. Un silenzio solenne permetteva di sentire i sibili attutiti d’una pioggia di neve che batteva sui vetri delle finestre. Per paura che gli occhi della morente non fossero feriti dalla luce, il più giovane degli eredi aveva posto un paralume alla candela collocata vicino al letto, in modo che il circolo luminoso della face giungesse appena al capezzale, su cui la faccia ingiallita dell’ammalata si staccava come un Cristo mal dorato, sopra una croce d’argento appannato. I bagliori ondeggianti gettati dalle fiamme azzurre d’uno scoppiettante focolare, rischiaravano perciò, soli, quella camera cupa, dove stava per isciogliersi un dramma. Infatti, un tizzone, ad un tratto rotolò dal focolare sul pavimento, come per presagire un avvenimento. A quel rumore la malata si drizza bruscamente e rimane seduta; apre un pajo d’occhi chiari come quelli d’un gatto, e tutti stupefatti la contemplano. Ella guarda il tizzone rotolante; e prima che alcuno avesse pensato ad opporsi al moto inatteso prodotto da una specie di delirio, salta fuori dal letto, afferra le molle, e rigetta il carbone nel caminetto. L’infermiera, il medico, i parenti si lanciano; prendono la morente nelle loro braccia: ella è rimessa in letto; ella posa la testa sul capezzale; e pochi minuti appena sono passati, che muore, mantenendo ancora dopo la sua morte, lo sguardo conficcato sullo scompartimento del piantito sul quale era rotolato il tizzone. Non appena la contessa Van Oströem fu spirata, i tre coeredi si gettarono un’occhiata di diffidenza, e non pensando già più alla loro zia, si mostrarono il misterioso pavimento. E siccome erano belgi, il calcolo fu fra loro tanto pronto quanto lo erano stati i loro sguardi. Fu convenuto, con tre parole pronunziate a bassa voce, che nessuno di essi lascerebbe la camera. Un servo andò a cercare un operajo. Quelle anime collaterali palpitarono vivamente, quando, riunite intorno a quel ricco piantito, videro un garzoncello dare il primo colpo di scalpello. Il legno era tagliato — «La zia ha fatto un gesto!» disse il più giovane degli eredi. — «No; è un effetto delle ondulazioni della luce,» rispose il più anziano, che teneva al tempo stesso l’occhio sul tesoro e sulla morta.

I parenti afflitti, trovarono precisamente nel punto su cui il tizzone era ruzzolato, una massa artisticamente avviluppata d’uno strato di gesso — «Avanti!» disse il vecchio coerede. Lo scalpello del garzone fece allora saltare una testa umana, e non so qual rimasuglio di vestiario, fece loro riconoscere il conte, che tutta la città credeva morto a Giava, e la cui perdita era stata vivamente pianta da sua moglie.»

Il narratore di questa vecchia istoria, era un grande uomo secco, dall’occhio fulvo, dai capelli bruni, e l’autore credè scorrere vaghe rassomiglianze fra lui e il demonio che già lo aveva addormentato; ma lo straniero non aveva il piede forcuto. Ad un tratto la parola Adulterio, suonò alle orecchie dell’autore; e allora, quella specie di campana risvegliò nella sua immaginazione le più lugubri figure del corteggio che poco prima sfilavano dietro a quelle prestigiose sillabe.

A partir da quella sera, le persecuzioni fantasmagoriche di lavoro che non esisteva ricominciarono, e, in alcuna epoca della sua vita l’autore non fu assalito da tante idee fallaci sul fatale soggetto del libro. Ma egli resistè coraggiosamente allo spirito, quantunque questo riattaccasse i menomi avvenimenti della vita a tale opera incognita, e che simile ad un commesso di dogana, suggellasse tutto con la sua cifra schernitrice.

Qualche giorno dopo, l’autore si trovò in compagnia di due signore. La prima era stata una delle più umane e delle più spiritose della corte di Napoleone. Giunta in passato ad un’alta posizione sociale, la Restaurazione la sorprese, e ne la rovesciò. Ella si era fatta romita. La seconda, giovane e bella, sosteneva in quel momento a Parigi, la parte d’una donna alla moda. Esse erano amiche, perchè l’una avendo quarant’anni, e l’altra ventidue, le loro pretensioni ponevano raramente in presenza la loro vanità sul medesimo terreno. L’autore era senza conseguenza per una delle due signore; e l’altra avendolo indovinato, esse continuarono in sua presenza, una conversazione assai franca, che avevano incominciata sul loro mestiere di donna.

— Avete notato, mia cara, che le donne non amano in generale che gli sciocchi? — Che mai dite, duchessa? E come accordereste cotesta osservazione con l’avversione che esse hanno pei loro mariti? (Ma è una tirannia! disse l’autore. Ecco dunque il diavolo in sottana!) — No, mia cara, non ischerzo, riprese la duchessa ‒ e vi è di che far fremere per sè stessi, dopo che ho contemplato freddamente le persone che ho conosciuto tempo addietro. Lo spirito ha sempre un lato brillante che ci ferisce: l’uomo che ne ha molto ci spaventa, forse; e se è fiero, non sarà geloso. Non potrebbe dunque piacerci. Insomma noi amiamo forse più di elevare un uomo fino a noi, che montar fino a lui... Il talento ha molti successi a cui farci partecipare: ma lo sciocco procura dei godimenti; e noi preferiamo sempre sentir dire: Ecco un bell’uomo! al vedere il nostro amico scelto per far parte dell’Istituto. — Basta, duchessa; m’avete spaventata.

E la giovine civetta ponendosi a fare i ritratti degli amanti, pe’ quali spasimavano tutte le donne di sua conoscenza, non vi trovò un solo uomo di spirito — Ma in fede mia – diss’ella – i loro mariti valgono di più!

— Quelle persone sono i loro mariti – rispose gravemente la duchessa.

— Ma, dimandò l’autore – l’infortunio di cui è minacciato il marito in Francia, è dunque inevitabile?

— Sì, rispose ridendo la duchessa. – E l’accanimento di certe donne contro quelle che hanno la felice disgrazia d’avere una passione, prova quanto la castità pesa loro. Senza la paura del diavolo, l’una sarebbe Taide; l’altra deve la sua virtù all’aridità del suo cuore: quella alla stolta maniera con la quale si è comportato il suo primo amante, questa...

L’autore arrestò il torrente di queste rivelazioni facendo parte alle due signore del progetto di lavoro, pel quale si trovava perseguitato. Elle gli sorrisero, e promisero molti consigli. La più giovane fornì allegramente uno dei primi capitali dell’impresa, dicendo che ella s’incaricava di provare matematicamente, che le donne intieramente virtuose erano esseri ragionevoli.

Tornato a casa, l’autore disse al suo demone: Vieni; sono pronto! Firmiamo il patto! – Il demonio non tornò più.

Se l’autore scrive qui la biografia del suo libro, non è per alcuna ispirazione di vanagloria. Egli racconta fatti che potranno servire alla storia del pensiero umano, e che spiegheranno senza dubbio il lavoro stesso. Non è forse indifferente a certi notomisti del pensiero, il sapere che l’anima è donna. Quindi, mentre l’autore si proibiva di pensare al libro che doveva comporre, il libro si mostrava dappertutto. Egli ne trovava una pagina sul letto d’un malato, un’altra sul canapè d’uno spogliatojo. Gli sguardi delle donne, quando volteggiavano trascinate da un valzer, gli gettavano i pensieri; un gesto, una parola fecondavano il suo sdegnoso cervello. – Il giorno in cui egli ha detto: Quest’opera che mi perseguita si farà!.., tutto è fuggito, e, come i tre belgi, trovò uno scheletro, là dove si curvava per raccogliere un tesoro.

Una dolce e pallida figura successe al demone tentatore: ella aveva maniere obbliganti e molta bonomia: le sue rimostranze erano sguernite delle punte acute della critica; prodigava più parole che idee, e pareva avesse paura del rumore. Era forse il genio famigliare degli onorevoli deputati che siedono al centro della Camera.

— Non è meglio – essa diceva – lasciar le cose come stanno? Vanno dunque tanto male? Bisogna credere al matrimonio come all’immortalità dell’anima; e voi non fate certamente un libro per vantare la felicità conjugale. D’altronde, concluderete indubbiamente secondo ciò che avrete veduto in un migliajo di famiglie parigine, le quali non sono che eccezioni. Voi troverete forse dei mariti disposti ad abbandonarvi le loro mogli; ma nessun figlio vi abbandonerà sua madre... Qualche persona, ferita dalle opinioni che professerete, sospetterà i vostri costumi, calunnierà le vostre intenzioni. Finalmente, per giungere alle scrofole sociali, bisogna esser re, o per lo meno primo console.

Quantunque ella apparisse sotto la forma che poteva piacer di più all’autore, la ragione non fu punto ascoltata; perchè da lontano la follia agitava lo scettro di Panurgio, e voleva impadronirsene; ma quando tentò di prenderlo, trovò che era tanto peso quanto la clava d’Ercole; d’altronde il curato di Meudon, l’aveva guernito in modo che un giovinetto, che si cura meno di fare un buon libro, che d’esser bene inguantato, non poteva assolutamente toccarlo.

— La nostra opera è finita? dimandò la più giovine delle due complici dell’autore, — Ohimè! signora – mi ricompenserete voi di tutti gli odii che potrà sollevare contro di me? – Ella fece un gesto, e allora l’autore rispose alla sua indecisione, con una espressione di noncuranza. — Come? Esitereste? Pubblicatelo e non abbiate paura. Oggi, noi prendiamo un libro ben più per la forma che per la sostanza.

Quantunque l’autore non si dia qui che per l’umile segretario delle due signore, egli ha, coordinando le loro osservazioni, adempiuto più d’una mansione. Una sola forse era rimasta, in fatto di matrimonio: quella di raccogliere le cose che tutti pensano e che nessuno esprime. Ma anco il fare un nuovo studio con lo spirito di tutto il mondo, non è un esporsi a ciò, che non piaccia a nessuno? Nondimeno l’eclettismo di questo studio lo salverà forse. Pur motteggiando, l’autore ha tentato di popolarizzare alcune idee consolanti. Egli ha quasi sempre tentato di risvegliare molle incognite nell’anima umana. E prendendo la difesa dei più materiali interessi, giudicandoli o condannandoli, avrà forse fatto intravedere più d’un godimento intellettuale. Ma l’autore non ha la sciocca pretensione d’essere sempre riuscito a scoccar dei frizzi di buon gusto; egli ha soltanto calcolato sulla diversità degli spiriti, per ricever tanto biasimo quanta approvazione. La materia era tanto grave, che egli ha costantemente cercato, di aneddotarla, perchè oggi gli aneddoti, sono il passaporto di qualunque morale, e l’antinarcotico di tutti libri. In questo, dove tutto è analisi e osservazione, la fatica nel lettore e il me nell’autore, erano inevitabili. È una delle più grandi disgrazie che possano capitare ad un lavoro, e l’autore non se l’è punto dissimulato. Egli ha dunque disposto i rudimenti di questo lungo studio, in modo da preparar dei riposi al lettore. Questo sistema è stato consacrato da uno scrittore che faceva sul gusto un’opera molto simile a quella di cui egli si occupava sul matrimonio, e dalla quale si permetterà prendere in prestito alcune parole per esprimere un pensiero che è loro comune.

Sarà una specie di omaggio reso al suo predecessore la cui morte ha seguito tanto davvicino il suo successo:

«Quando scrivo e parlo di me al singolare, ciò suppone una confabulazione col lettore; egli può esaminare, discutere, dubitare ed anche ridere; ma quando mi armo del terribile Noi, io professo, e bisogna sottomettersi.» – (Brillat-Savarin, prefazione alla Fisiologia del Gusto).

5 dicembre 1829.

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