Il teatro contemporaneo

(Divagazioni di un critico)

Un onesto ciarlatano, il quale, ottenuto il permesso dalle autorità competenti, si disponga ad aprire un suo baraccone nella grande fiera delle vanità, di cui tutti, più o meno, siamo spettatori ed attori, parte convenuta e parte... lesa, deve, se pur non desideri assomigliare al melanconico saltimbanco, visto da Baudelaire e fissato con meraviglioso bulino in un suo «poemetto in prosa», conoscere l’abici della professione, volontariamente o per fame abbracciata: e deve, sovra ogni cosa, sapere che non virtù abbagliante di lumi elettrici o modesta di candelotti, nè civetteria di ampi specchi, nè profusione di colori su tele da imballaggio, elevate a dignità di quadri quasi viventi, bastano, da sole, a far accorrere il pubblico in folla e a donare ai volti della moltitudine quell’apparenza di mascheroni tragi-comici, ondulanti in cima a dei pali, che James Ensor con così mostruosa caricatura e profonda verità riprodusse nei suoi disegni «L’entrata di Gesù a Bruxelles» e «La cattedrale». Non bastano, dico; poichè, voglia il degno ciarlatano mostrar statue di cera o fenomeni umani, silfidi folleggianti nell’aere o belve chiuse tra spranghe di ferro e debitamente, per maggior precauzione, impagliate, voglia esporre le opere di altri o le proprie, le idee che non ebbe mai o quelle, che s’illude di avere, non un soldo vedrà piovere nel suo vorace e lagrimoso cassetto se, prima, non avrà con robusti polmoni ed esuberanza di gesti richiamato dai quattro punti cardinali la gente, di un tratto resa avida di ascoltare il suo imbonimento. Oh supremo valore della parola, che dài ad un presuntuoso e petulante omiciattolo rapida fama di grande e, mancando, lasci morire, fra il silenzio indifferente dei più e la venerazione attonita dei meno, un veramente grandissimo: e il recente esempio del prodigioso autore dei «Poemi conviviali» e della «Mirabil visione» insegni agli increduli.

Ma a che questa lunga introduzione? E dove si trova il promesso teatro contemporaneo? Ecco: l’introduzione è proprio l’imbonimento, o discorso da ciarlatano che dir si voglia. E dovrebbe servire appunto ad allettare il pubblico, a dirgli, con parole povere: «Ohè, galantuomini, badate che qui dentro, nel padiglione da me drizzato, potrete contemplare drammaturghi e commediografi; ma non troppi; se no, c’è il pericolo di una indigestione. E poi, mi rincresce, ma qualche nicchia rimarrà vuota, a qualche statua mancherà il naso, quel benedetto naso che tanto più manca agli autori o tanto più cresce agli spettatori. Oggi, il ciarlatano non esporrà tutta la sua merce: gli basterà accennarvi, così, di sfuggita, tanto per aver appiglio ad esporre qualche idea, a sdipanare un poco il filo di Arianna, che guidi chi avrà voglia attraverso il labirinto del teatro contemporaneo. E peggio per chi ha creduto di potere, in una volta sola e in un solo boccone, far precisamente il contrario del famigerato Giona, ossia divorarsi una balena.

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S’io avvicino un qualsiasi bipede implume e, pur rassicurandolo sulla sorte del suo portafogli, urlo facendo gli occhiacci un nome di romanziere, per esempio «Dickens», son certo che egli penserà subito: «Ah, sì, Dickens, quello che fabbricava scatole da ragazzo e le rompeva da grande, e che ha scritto una valanga di roba; un letterato coi fiocchi!» Se, poi, senza concedergli il tempo di darsela a gambe, griderò di nuovo sotto il suo muso un altro nome, per esempio «Conan Doyle», c’è da scommettere ch’egli esclamerà: «Sicuro! L’autore di Sherlock Holmes! Piacevole; ma, si capisce, cosettine!» Dunque, Dickens «letterato coi fiocchi» e Conan Doyle «cosettine». Questo giudizio di popolo, che è veramente giudizio di Dio, ed ed è impulsivo, spontaneo, e si può esperimentare ad ogni momento, nel campo della letteratura da libri non esita, non erra: colpisce sempre esatto nel segno. L’uomo più incolto sa che un abisso separa i creatori da quelli, che Benedetto Croce chiama giustamente semplici produttori: e, anche non avendo mai visto, se non nelle vetrine dei librai, le opere di Leconte De Lisle, e avendo, invece, divorato con gusto indicibile quelle di Béranger, non oserebbe, neppure davanti al proprio portinaio, nominarli l’uno a fianco dell’altro.

Nel campo teatrale, invece, troviamo il caos: il caos nella produzione, il caos nel giudizio degli spettatori, il caos nel giudizio della signora Critica, il caos, perfino, nella rinomanza post mortem. Supponiamo che un brav’uomo, si sia egli goduto lo spettacolo senza spendere il becco di un quattrino, in qualità di Eaco o Minosse o Radamanto di uno degli infiniti fogli, quotidiani o settimanali o mensili, pullulanti sulla faccia della terra ed in barba alle leggi sull’istruzione obbligatoria, od abbia dovuto sborsare la propria quota come umilissimo ricercatore di una buona digestione e di un godimento spirituale non troppo esagerato, esca dal tempio dell’arte drammatica, ove gli fu offerta in pasto, per esempio, «Monna Vanna» di Maeterlinck: e supponiamo ancora che questo brav’uomo, la sera addietro, abbia assistito a «Papà Lebonnard» dell’Aicard. Costui, ammesso pure che sia rimasto ugualmente soddisfatto di entrambe le produzioni, non farà distinzioni fra esse, non cercherà di classificarle e tanto meno di fissarne la divergenza essenziale; ma, pago delle proprio serate, formulerà le sue impressioni complessive con una frase: «Oh! Oh! Come sanno toccare il cuore, questi furbacchioni di drammaturghi!». Come si vede, siamo ben lontani dalla «letteratura coi fiocchi» e da «cosettine». La causa del fenomeno è riposta nel carattere essenzialmente speculativo del teatro moderno e nel conseguente inconscio raziocinio del pubblico, il quale giudica, e talvolta con ragione, un’opera teatrale, come giudicherebbe un nuovo negozio di abiti: ossia domandandosi semplicemente se questi sono tagliati secondo i figurini di moda, se la stoffa è resistente, se il prezzo è conveniente e, magari, se l’eccellentissimo sarto fa credito. Vediamo noi, adesso, se e fino a qual punto abbia veramente ragione il degno uomo, che evocammo più addietro.

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Un esame superficiale della letteratura drammatica contemporanea ci indurrebbe, tanto essa è ibrida e zeppa di connubi tra la volgarità e l’arte, a dichiarare che, per la formulazione di un giudizio, potesse soltanto valere, non il lavorio di un cervello umano più o meno ricco di materia grigia, ma un qualche strattagemma divino, che servisse da pietra d’assaggio, come il berretto della verità, descritto da Gaspare Gozzi, o la statua, messa in scena da Carlo Gozzi nel bellissimo «Re Cervo», la quale statua con un sogghigno o un ridere sgangherato avvertiva il buon Deramo delle pecche nascoste, piccole o grandi, delle damigelle, aspiranti alla sua mano e al trono. Tuttavia, seguendo il metodo, adottato da qualche visitatore di galleria nazionale di quadri, il quale, per non cedere alla disperazione e alle velleità prepotenti di fuga dinanzi al confusionismo, imperante in quei luoghi, siede nel entro d’ogni sala e lì, sonnecchiando, procura di dare all’occhio quello stato di grazia, necessario per distinguere il bello dal mediocre, riusciremo facilmente, con un poco di buona volontà, a procedere a una classificazione sommaria, che ci aiuti nella nostra indagine.

Come al visitatore di museo, così a noi appariranno, innanzi tutto, ben chiare davanti allo sguardo le cose peggiori, poichè per una maledettissima abitudine umana il laido e il deforme sono assai più presto osservati e distinti del bello e dell’aggraziato. Qui, siamo nei regni bui dalla commercialità ad oltranza, dell’ambizione stitica e verdognola, della miseria di cenci e di piaghe, ostentata per richiamar l’elemosina di un plauso, o meglio di una percentuale sui diritti d’autore; come i mendichi victorughiani della corte dei miracoli, tetri e ragionatori, o come quelli, più furbi e più gai, alla «Quevedo», ostentavan le loro piaghe e cenci: con l’orgoglio di monarchi del fango. È, infine, l’Inferno dantesco, con tutti i suoi vizi e le sue pene, visto attraverso un binocolo rovesciato, con una Francesca da Rimini camuffata in «Zazà» e un Lucifero rimpicciolito in «Marchese di Priola». Ma in che consiste, infine, la deformità di questi autori? Essa consiste, per dirla con una frase sola, nella povertà di sentimento. E mi spiego. Benedetto Croce credette, nella sua «Estetica», di scoprire il gran segreto dell’arte designando questa come il risultato di un’intuizione-espressione. Un fenomeno, dunque, di recettività e in pari tempo di irradiabilità, una forza centripeta-centrifuga che si esplichi nella creazione. Ma il valente filosofo meridionale dovette, a un certo punto della sua analisi, sostare innanzi a una formidabile lacuna. Intuizione-espressione, sta bene. Ma tutto, allora, in questo modo è arte; anche, e lo stesso Croce con un certo suo risolino lo ammette, il discorso da caffè o la lettera del caporale all’innamorata. Qual’è, dunque, il fulcro che, offrendo il suo appoggio o negandolo, dà luogo a un capolavoro o a un aborto? In che consiste la facoltà, che di una confidenza da casa allegra o di un pettegolezzo da strada popolare fa un dialogo dei «Ragionamenti» di Pietro Aretino o una scenadelle «Baruffe chiozzotte» di Carlo Goldoni? A mio parere questo fulcro e questa facoltà risiedono, per dirla con parola povera, in una accessibilità all’entusiasmo, in una possibilità di simpatizzare sia con le idee che con gli uomini. Per l’arte la realtà non esiste; la realtà è quella tal piccola cosa, che noi vediamo di continuo e che non ci turba nè ci esalta: è una chioma d’albero, che sporga da un muro, è una comare, che, la pezzuola in testa, litighi con l’erbivendola per un soldo di prezzemolo colto da poco, è una nebbia mattutina, che si diradi lenta sotto il raggiare del sole e lasci a grado a grado allo scoperto un lembo di spiaggia, una vela spiegata, l’oceano. Se noi riproducessimo tutto ciò come la maggior parte dei mortali lo scorge, faremmo non dell’arte, ma della fotografia. Dunque? Eh, dunque, occorre il vaglio di un’anima, di uno spirito vibrante di continuo sotto le impressioni, occorre un’energia di sentimento, che alla chioma d’albero dia la propria tristezza, alla comare rubi il segreto di un’esistenza, intessuta di piccoli astii o di piccole lotte per il prezzemolo troppo caro o per il marito troppo ubriacone, alla nebbia, infine, doni virtù di velario, che, lentamente alzandosi, lasci luogo al sogno fatto lembo di spiaggia o candida vela e tranquilla distesa d’acque. Nei «Ragionamenti» dell’Aretino e nelle «Baruffe chiozzotte» del Goldoni c’è la realtà, certo: ma se l’Aretino non avesse sentito una profonda simpatia, pace all’anima sua, per le femmine bordelliere, e se il Goldoni non si fosse aggirato con spirito teso e pronto per i vicoletti veneziani, dalle lor penne sarebbe uscita una sbadigliante e sbadigliata realtà uso John Cleland o Eugenio Sue, non una mirabile opera d’arte. E allora? E allora l’arte è, o almeno può essere la realtà (e dico «può essere» benchè, in fondo, anche il sogno sia vita) ma abbellita per virtù simpatetica, per quella virtù del dolce stil nuovo, che ribellandosi contro i belati a freddo dei provenzaleggianti non scriveva se non quando amor dentro dettava.

Tutto ciò esposi per venire a una conclusione, che riflette il teatro. E la conclusione è questa: che la pietra d’assaggio di un lavoro drammatico si ha nella vitalità dei suoi personaggi. Il Prometeo di Eschilo è vitale al pari dell’Amleto di Shakespeare, benchè l’uno non abbia alcuna rispondenza nella realtà e l’altro possa ricordare un volgarissimo caso di lipemania. Ma in entrambi la vita è vibrazione entusiastica degli autori, è la conseguenza di una specie di appassionata maternità che, malgrado i dolori atroci della creazione, anela a creare di nuovo.

Un drammaturgo povero d’anima potrà illudere il pubblico con un’appariscenza di sogno o di verismo; ma non ingannerà a lungo uno sguardo e un cervello veramente scrutatori. E mi sia permesso, qui, di citare, come esempio, un’opera, che gode assai ingiustamente il largo favore del pubblico.

Accenno al dramma «Al telefono» di De Lorde e Folley. Chi non ne conosce, ormai, l’argomento? Un quieto ambiente famigliare: c’è un bimbo, che piange o ride, a seconda dei casi o dello stato dei visceri, e c’è una moglie, che sa baciare ed amare. Tanto meglio; pel marito, s’intende. E poi c’è anche la servotta, ch’è una paurosa di prima forza, anzi debolezza. Il marito, poveretto, è obbligato ad abbandonare per una notte il talamo nuziale. Deve recarsi a settanta chilometri di distanza, in casa di amici. Anche il servo, poichè c’è un servo, deve allontanarsi, chiamato improvvisamente al letto della madre malata.

Al secondo atto, che, sia lode al cielo, è pure l’ultimo, vediamo il sullodato marito, il quale prende il caffè e anche il cognac (un cognac vecchissimo) in casa degli amici. A un tratto suona il telefono. È la moglie, che chiama, perchè vuole augurare la buona notte (e come buona, lontana da lui?) allo sposino. Fin qui nulla di male. Il brav’uomo ringrazia commosso e fa una predica alla serva. Poi, torna a sorbire il caffè. Un’altra chiamata del telefono. La situazione si complica. La mogliettina ha sentito qualche rumore sospetto intorno alla casa solitaria; il bimbo piange con tutta la forza dei suoi polmoni tenorili; la serva s’è rimpiattata, chi sa, forse sotto un tavolo, insieme al gatto, e dal suo nascondiglio numera i passi, che s’odono nel giardino, e i colpi, dati alla porta. «Prendi la rivoltella e spara in aria, a costo anche di uccidere il povero Ciccio, il canarino ingabbiato, ch’è l’angelo custode, ahi quanto poco, della casa», urla il marito. Ma sì. La rivoltella è lì, che cova. I malfattori l’hanno presa senza chiedere il preventivo e relativo permesso. E allora? Il buon uomo è commosso, non sa più che consigliare alla moglie. Se avesse spirito e presenza del medesimo, le direbbe di trangugiare un ferro china Bisleri. Egli pensa, invece, a farla fuggire, col bambino, che a furia di urli penserà dal suo canto indubbiamente a rivelare la fuga. I malfattori abbattono la porta, sono già in casa. Il telefono riproduce i loro passi e le loro minacce. «Coraggio», urla l’uomo alla moglie. Ma gli risponde un grido straziante. Il dramma venta nella piccola abitazione lontana. Non c’è nulla da fare! II coltello è già alla gola delle vittime. «Me li scannano, me li scannano!», è l’ultima imprecazione del marito, che abbandona l’apparecchio telefonico per precipitarsi fuori, all’aria libera, quasi sperando follemente di poter giungere in tempo, con una corsa sfrenata, di poter ancora salvare i suoi cari.

Ecco. Basta ch’io racconti tutto ciò con voce modulata secondo l’azione, con voce tranquilla e lenta in principio, affrettata e lugubre alla fine, perchè sia raggiunto il mio scopo. E non c’è proprio che dire. L’impressione è forte. Chi ascolta quelle parole, strozzate dall’emozione, urlate contro un innocuo apparecchio telefonico, chi vede gli occhi sbarrati, le mani convulse di quello sposo, inetto a soccorrere i suoi amati, lontano da loro, spaventevole testimone, diremmo auricolare, di un dramma sanguinoso, chi ode e vede tutto ciò, ripeto, sente la vertigine della paura invadergli il cervello, il sangue batter convulsamente nei polsi e la gola serrarsi spasmodicamente sotto un incubo di terrore. Ma poi, uscito di teatro, sfuggito da quell’ambiente chiuso e da quell’impressione momentanea del palcoscenico, lo spettatore, sferzato in viso dal vento, reso alla sua ragione, un istante offuscata, dall’aria fredda e pura della notte, s’interroga. E si chiede: Era arte? E se questa è arte, non hanno diritto del pari di chiamarsi «arte» la sedia ipnotica della «Dame de chez Maxim» e le pareti mobili di «Coralie e C.»? Non rappresentano esse egualmente, nel campo comico, la «ficelle» trappolesca, il paradosso voluto, l’effetto cercato con studio?

Ed eccoci al problema e all’esempio. L’intuizione è il fatto, la sostanza del fenomeno artistico; l’espressione ne è la veste, l’apparenza. In «Al telefono» il fatto c’è: è il momento drammatico, reso più atroce dalla lontananze e dall’impotenza di chi ne ha notizia. E c’è anche la veste: il passaggio dalla calma all’orrore, dal bicchierino di cognac allo spasimo, che incanutisce. Che cosa manca, dunque? Eh, una grande e piccola cosa: manca l’arte. De Lorde e Folley hanno meditato, e forse anche scritto, il lor lavoro fra una sigaretta e una tazza di caffè, in un qualche solito loro ritrovo sui boulevards parigini. Entrambi hanno vista una realtà possibile, ma non han potuto renderla viva, perchè ad essi stessi mancava la vita interna, la luce che rende netti i contorni degli uomini e delle cose. Entrambi hanno gettato i tentacoli nel regno della fantasia; ma non son riusciti a pescare una visione d’arte, un sogno di terrore o d’amore, che non fosse un semplice e puro giocattolo per bambini lattanti. Il loro protagonista potrebbe essere, in ugual modo, Tizio o Caio, appunto perchè manca di una vita sua, di quel marchio indelebile, che solo il vero ingegno può imprimere; e il dramma lontano otterrebbe pari effetto se si basasse sovra una catastrofe alpina o sovra l’ultimo bollettino delle stragi perpetrate dai turchi, appunto perchè è cronaca e non elaborazione di fantasia, è trucco freddo e studiato e non sogno creato da una volontà animatrice.

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Mi fermai a lungo sul lavoro di De Lorde e Folley, poichè esso mi sembra racchiuda, molto in embrione, i due grandi elementi dell’arte: il regno della realtà e il regno del sogno, l’analisi e la sintesi, l’osservazione e la meditazione. Ma, prima di addentrarmi nel campo del teatro vero, di quel teatro che non è più mestiere ed è già letteratura e che raccoglie, come in un purgatorio dantesco, la maggior parte dei drammaturghi, debbo, una volta per sempre, fare una dichiarazione. E sarebbe che, quando parlerò di teatro contemporaneo, intenderò alludere più alle opere che agli autori, i quali ultimi potrebbero anche non appartenere più al numero dei viventi.

E mi spiego. Alcuni grandissimi capiscuola o solitari son morti: ma le loro opere han sempre diritto d’esser considerate come contemporanee, perchè rispondono alle presenti tendenze ed influiscono direttamente, senza l’aiuto della tradizione, sia sull’animo del pubblico sia, spesso, su quello dei più recenti autori. Le grandi ombre di Shakespeare e di Calderon de la Barca aleggiano anch’esse, è vero, sopra di noi: ed è solo per comodità di critica e ristrettezza di tempo che non potremmo parlarne. Ma «I Cenci» di Shelley, ma la vasta opera di Ibsen, ma i poderosi lavori di Björnson, ma le acute analisi di Strindberg e di Becque, benchè già tutti lontani da noi, sono in contatto continuo con le nostre anime: nè si potrebbe considerarli come teatro di ieri senza scavare un abisso profondissimo, che nessuna forza umana o virtù e numero di drammaturghi viventi riuscirebbe, anche in parte, a colmare. Anche noi italiani abbiamo perso un glorioso, Giuseppe Giacosa, e di recente abbiam dovuto piegare il capo innanzi al fato, che ci toglieva un nobile lavoratore, Enrico Annibale Butti. Ma chi discorresse del nostro teatro, farebbe cosa monca e quasi inutile tacendo del capo-scuola, che creò «Tristi Amori», e del solitario, che ideò l’«Utopia».

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Due sono le strade dell’arte drammatica: di esse, una si svolge attraverso il fervore dell’attività umana, l’altra fra la quiete di paesi, di cui unici abitatori sono le fantasime evanescenti del sogno. La prima è percorsa soltanto da osservatori provvisti di sguardo acuto ed armati con i sottili ordigni dell’analisi; la seconda, invece, si offre come guida verso il nebuloso regno delle chimere agli spiriti meditativi, che sfuggendo la realtà esterna chiedono al mondo, riposto e gelosamente custodito entro di loro, il segreto della poesia. E poichè ho già troppo teorizzato, chiederò ad esempi pratici di render limpide le diversità tra i due gruppi.

Una delle opere che, appunto per la semplicità quasi scheletrica, può meglio rappresentare il primo gruppo, è «Le due scuole» di Alfredo Capus. Esaminiamola rapidamente.

C’è mia novella d’Hoffmann, che s’intitola «La finestra d’angolo del cugino». Un paralitico, dotato dalla natura, malgrado i suoi malanni, di uno spirito, almeno in apparenza, faceto, cerca d’ingannare il tempo e i propri dolori interpretando agli occhi di un amico la vita della strada e del mercato, che egli domina dalla sua finestra. L’interpretazione è semplice, sincera, profonda: a volte grottesca e a volte anche crudele. Questo anche il metodo del Capus. L’abitudine dell’umorismo, che fece scrivere al dialogizzatore del «Figaro» lunghe colonne, ha guidata pure la mano del commediografo. La trama delle «Due scuole» è ingenua. Perdio! Venirci a raccontare che due divorziati, dopo qualche peripezia più o meno pornografica, si riconciliano e si sposano di nuovo! È audacia inaudita! Sissignori; ma è anche originalità. Prima del Capus, il grande Becque e, perchè non dirlo?, il prodigioso Balzac hanno dimostrata proprio un’originalità consimile. Tutti questi signori hanno voluto rendere la vita com’è, senza esagerazioni, semplicemente, naturalmente. In «Due scuole» vivono uomini e donne, quali li vediamo ogni giorno. E li sentiamo discorrere come soglion discorrere davvero, con frasi spezzate, spesso sciocche. Vediamo passare innanzi ai nostri occhi gli uomini onesti e imbecilli, gli sbarazzini malati di libidine, le madri che predicano esservi due scuole pel matrimonio, quella di chi non vuol sapere e quella di chi vuol saper troppo delle infedeltà coniugali. Cose semplici e note. Che importa? Sono la verità d’ogni giorno: ma non la realtà cruda, che non è arte; bensì, e per questo il Capus è già un letterato, una realtà vista attraverso l’anima di un ribelle, irritato dalle volgarità, dalle vigliaccherie, dal cinismo, dall’astuzia, spinto a un folle sogghigno, a una risata acuta e prolungata di umorista, che piange e ride ad un tempo, a una risata, che suoni come una vendetta di quanto è buono e forte e assuma la parvenza simbolica di uno sputo, lanciato contro la società degli imbecilli e dei caproni.

Ma questa scuola osservatrice, che dell’uomo qual’è, sebbene considerato attraverso un temperamento artistico, fa unico oggetto di studio, degenera spesso e, donando eccessivo sopravvento all’analisi, perde di vista la meta di qualsiasi forma letteraria: intendo dire il contatto simpatetico fra pubblico e autore. Maurizio Donnay con la sua «Bascule», o «Altalena» che dir si voglia, ne porge un esempio di ciò. Un marito qualsiasi, che si dice impulsivo e cerebrale e sembra piuttosto affetto da idiotismo cronico, e sottoposto dal suo stesso temperamento a una specie di altalenio, che ora lo porta alle tenerezze famigliari e al quieto tubare con la propria sposina, ora lo trascina alla passione, tanto più violenta in quanto è nutrita dalla sola fantasia, per una donna di teatro. Il lavoro non termina; è troncato di colpo dall’autore, che volle lasciar supporre al paziente pubblico un prolungamento all’infinito del gioco dell’altalena.

In fondo, con un poco di buona volontà, si riuscirebbe a trarre da questa intenzione una specie di simbolo, di astrazione del tipo maschio, sempre idiota e sempre sbalzato, per opera dei suoi desiderii, dalla tranquillità all’ardore, e anche un simbolo del tipo femmina, capriccioso, autoritario a scatti, facile alla dedizione come al rifiuto, a seconda dei nervi e del momento, buono, ma di una bontà di bestia mal domata o che non trovò il suo domatore.

Diciamo che si potrebbe supporre tutto questo con uno sforzo d’immaginazione. Ma il lavoro ha un difetto organico, essenziale, tremendo, il difetto al quale alludemmo poc’anzi: lo sperpero di analisi. I commediografi francesi moderni, seguendo le orme gloriose dell’autore dei «Corvi» e della «Parigina», si sforzarono sempre di attenersi alla semplice osservazione, alla riproduzione limpida ed esatta degli uomini e della vita. Questo metodo diede buoni frutti, e «Amanti» dello stesso Dounay insegnino; ma condusse talvolta inevitabilmente alla pesantezza e alla puerilità. Spieghiamoci: la vita qual’è, come l’osservazione costante ed esatta può darvela, è un complesso di atti meschini e di pensieri sciocchi. Per avere qualcosa di più elevato, occorre cercare l’eccezione di questa vita e in certi momenti speciali (ciò, che fanno ad esuberanza il teatro tedesco, russo e scandinavo). Ma chi si attiene al semplice controllo dell’esistenza quotidiana, del solito alto e basso dei sentimenti e dei pensieri, anche se proietta sulla scena personaggi improntati al suo temperamento artistico, perciò veramente vitali, facilmente scivola nello stucchevole, poichè riproduce ambienti e tipi troppo vicini a noi, troppo a nostro contatto per poterci riuscire graditi. Un simile metodo ricorda molto le proiezioni cinematografiche: e induce quasi inavvertitamente a lungaggini senza fine e a volgarità, che sembrano esagerate sulla scena appunto perchè troppo naturali nella vita.

Tuttavia, questo spirito d’osservazione e di schietta riproduzione della realtà imperò ed impera ancor oggi nel teatro: ed ha a sommi rappresentanti lo svedese Strindberg, il russo Gorki, il tedesco Sudermann, il francese Becque e, in Italia, Giacosa.

Ben più esiguo, in confronto, è il numero dei componenti il secondo gruppo, i quali, con intenzioni di poeti e di pensatori, vanno proiettando sulla scena le immagini del lor mondo interiore. Volgano essi gli sguardi ad Apollo Musagete o dalla filosofia e dalla meditazione traggano la scintilla creativa, sogghignino essi con Marsia e, in attesa d’essere a lor volta scorticati dai critici, scortichino a suon di nerbate la pelle degli altri, oppure melanconicamente scandiscano una lor sentimentale visione; tutti, pur donando ai sogni o alle idee, alla poesia o alla filosofia, veste di umanità, sia questa storica o contemporanea, considerano i personaggi dei loro lavori non come creature rispondenti a realtà, ma come simboli resi vivi. Nel primo gruppo, vedemmo che gli uomini con le loro azioni e passioni costituiscono il fine dei drammaturghi; in quest’ultimo, invece, gli uomini sono un semplice mezzo, uno strumento necessario, ma non principale, per l’esplicazione dell’arte.

Citerò, come esempio, il famosissimo Cyrano de Bergerac di Edmondo Rostand. Ricordo di aver letto un racconto del Buffa, intitolato «La scimmia del signor Giovanni». In esso, Cyrano de Bergerac era reso, certo, come un’evidenza storica e psicologica, che manca del tutto nel lavoro di Rostand. Il tipo di Cyrano, vivo e forte attraverso la sua stessa opera grottesca o sentimentale, fissato nella memoria con quei caratteri incisivi, che le cronache del tempo ci rivelano, sembra a noi che debba avvicinarsi più alla gloriosa, ma ahi quanto furfantesca schiera, dei poeti spadaccini, degli artisti tagliaborse, che non a quella degli eroi armati di brando puro e di lira ancora più candida, o dei cavalieri erranti e innamorati. Per chiarire il nostro pensiero aggiungiamo che, se dovessimo porre il nome del bizzarro autore del bizzarrissimo «Viaggio nella luna» fra quelli di altri, lo penseremmo più a lato di un Marot, di un Villon o di un Regnier, che non di un Rudel o, peggio, di un dumasiano D’Artagnan. Eppure Rostand, seguendo la sua individuale visione, concepì Cyrano poeta donchisciottesco, guascone ma gentiluomo; nè si curò di approfondire se sotto i versi del suo eroe si nascondeva la truffa e se nel gesto da maestro d’armi c’era la provocazione del bravaccio. Malgrado ciò e malgrado il vuoto, che circonda il tipo principale (poichè non si può parlare di personaggi rilevati con maestria innanzi a una Roxane preziosamente sciocca e a un Christian balbettante) noi sentiamo la bellezza di un lavoro, che s’impone alla nostra considerazione e più ancora alla nostra ammirazione, poichè risponde armonicamente a un inconscio sentimento, a un’aspirazione prepotente di noi tutti verso un regno ideale, situato al di là delle nubi e del mondo.

Tuttavia anche qui la virtù degenera assai facilmente in difetto: anche questi commediografi, come quelli del primo gruppo, a forza di ascoltare sè stessi non odono più le voci del pubblico. Restiamo nell’esempio di Rostand. Se si eccettui Cyrano, tutte le sue opere, pur potendo esser gustate, almeno in parte, da una limitatissima cerchia di poeti, esorbitano dal campo del teatro. A traverso l’apparato scenico, che può colpire una mente limitata nè, da solo, ha virtù di salvare un lavoro; sotto il flusso di eroiche frasi e di sentimenti tratteggiati con mano leggiera, non vi è spettatore, che non veda la falsità del dramma, l’inconsistenza dell’azione e del pensiero. Il successo non manca; ma è un successo determinato soltanto e semplicemente da quella tendenza, che già dissi, e che è in noi tutti, e che trattiene il bambino accanto al fuoco e gli fa spalancare gli occhioni, mentre il nonno racconta dell’orco o della bella dormiente, e obbliga l’uomo a fermare con compiacimento la fantasia sulle imprese di Orlando o sugli amori di Tristano, e fa piangere il vecchio sulle pagine del Tasso o di Ossian.

Ben altro erano le impressioni, che nel pubblico, divorato dalla fiamma d’arte animante l’opera, destava un titanico dramma del più grande romantico (se pur con questo nome si può chiamare l’autore del «Novantatrè»), ove si vedevano fusi insieme l’elemento scenico ed il poetico, l’ideale e la vita. Altre ancora eran quelle, che si impadronivano degli uditori, intenti a seguire il sottil ritmo della voce di Barberina o a cogliere la risata amara, che De Musset sapeva tanto velatamente unire al pianto delle sue eroine.

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Ed ecco, sfolgorante di luce, aprirsi dinanzi a noi l’orizzonte della grande arte, del grande teatro. Qui, non gruppi di uomini, affaccendati nel lor piccolo quotidiano travaglio di muscoli o di discorsi; qui, non nuvolette d’idee o di sogni rincorrentisi per un cielo sbiadito o di un azzurro cupissimo. Rammentate la figura di Socrate? Una testa di fauno sovra un corpo di vecchio. Intorno, un fitto crocchio di giovani, alcuni dalla freschissima forma apollinea, altri più in età, pensierosi. Egli apre la bocca. E subito si avvera il miracolo. È il miracolo dell’anima, del pensiero vivificatore, che trasforma, sottomette, aggioga al suo carro ogni fede, ogni dubbio, fondendoli in un unico amore, in un amore del vero, in un amore del bello, che è il vero, in un amore del buono, che è il vero. Questo il Socrate, quale imparammo ad ammirare dai meravigliosi dialoghi di Platone. Un uomo, nel senso più puro e più schietto della parola: non orgoglioso, perchè l’orgoglio è vanità dei deboli; non umile, perchè l’umiltà è incoscienza dei pigri: ma tranquillo, sempre attento scrutatore di sè e degli altri, sempre pronto ad adorare la verità, che è luce del pensiero, a schernire la menzogna, che è ombra e viltà. E questo anche è il Socrate di Giovanni Bovio: il Socrate antico, qui presentato a sbalzi, a enormi tratti di penna. Enormi, dissi. Bovio fu un artefice meraviglioso di figure titaniche. Aveva un blocco di marmo e sovr’esso lavorava a grandi colpi di scalpello, sbozzando una testa prodigiosa di forza, lasciando il resto nell’indefinito. Scultore, egli avrebbe rivaleggiato con Michelangelo; romanziere, sarebbe corso, come fratello a fratello, incontro a Vittore Hugo: filosofo e artista, posò lo mani sulla materia informe e ne trasse un’idea sua, un’anima sua e di tutte le energie, che si agitano sulla terra, la rivelò a sè stesso, si compiacque nel raffigurarla in mille guise, dal leonino Leviatano al Nazzareno, buono di una bontà forte e sicura. Così figurò Socrate. Ma vi è ancora qualcosa di più nel suo dramma, vi è un dialogo fatto di idee. Non una frase, che suoni a vuoto; non una scena, che imbottisca il lavoro. I personaggi sono uomini, donne e fanciulli veri e vivissimi. Eppure, dietro le umane sembianze esiste una coorte di altri esseri, in ogni volto, aspro o fidente, si racchiude una sintesi. Si può dire che ognuno proietti dietro di sè un’ombra gigantesca.

Volli dire l’esempio per spiegare il concetto. L’arte dei grandissimi, come Bovio, è una realtà fecondata dal sogno. Il contadino di Tolstoi, in «Potenza delle Tenebre», il giovane pittore di Hauptmann in «Michele Kramer», il vagabondo di Ibsen nella «Fattoria Rosmer», il pastore evangelico di Björnson in «Oltre le forze umane», il fanciullo di Maeterlinck in «Pélleas et Melisande», non vivono di una vita fittizia, ma rispondono a una realtà quotidiana: nè appaiono in alcuna cosa men veri dei personaggi di Gorki o di Suderman o di Becque o di Strindberg: autori, tutti questi, essenzialmente realisti.

Eppure, fra i due primi gruppi di drammaturghi e quello, di cui discorriamo, c’è una voragine: o meglio, c’è un infinito spazio di cielo, che soltanto le ali della grande poesia possono far varcare. In basso, il brulichio di un’umanità, che ride o piange sulla propria immagine, riflessa nel terso specchio di un lago; e l’incerto ondeggiamento di nebbie, rese iridescenti da obliqui sprazzi di luce solare. Ma lassù, nell’empireo dell’arte, la realtà ed il sogno, la vita e la poesia si fondono insieme, tra l’abbagliante gloria dell’astro di Febo: lassù, come in un divino crogiuolo, si uniscono con un meraviglioso atto d’amore i più disparati elementi per dar corpo ed anima ai capolavori dell’umano pensiero: per dare corpo ed anima ad inarrivabili ed insuperabili opere, come la «Devozione alla croce» di Pietro Calderon De la Barca e il «Sogno di una notte di mezza estate» di Guglielmo Shakespeare.

PIERANGELO BARATONO

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