i missionari inglesi in Siria

Non lasciammo Latakiè e gli amabili nostri ospiti che l'indomani piuttosto tardi nel pomeriggio. Poco male, perchè ci aspettava solo una tappa di quattro ore. Dovevamo passare la notte a Gubletta, cittaduzza in riva al mare ove, da parecchi giorni, il fratello del console inglese era intento a sorvegliare il ricupero di una nave russa che aveva fatto naufragio in quei paraggi e di cui si sperava di ritrovare il rame.

Non so se Gubletta esista perchè non l'ho veduta. Il fratello del console inglese (che era a sua volta console di Russia) doveva aspettarci alle porte della città, ma non trovai nè porte, nè città, nè nulla che meritasse tal nome. Vidi soltanto una moschea ove il console ci aveva fatto preparare un alloggio. Fui ben lieta di venire a sapere pochi momenti più tardi ch'egli non aveva visitato quel locale e che si era accontentato di farne escire [159] i sotto-ufficiali della guarnigione di Gubletta che l'occupavano. Dico che ne fui lieta perchè avevo veduto a Latakiè la giovane moglie di quel console russo e mi sarebbe stato penoso di dovermi formare un'opinione sfavorevole sul suo conto. Ora, solo un selvaggio avrebbe potuto considerare come un alloggio il canile che mi era stato offerto.

Il console non ne era colpevole e lo vidi anzi arrossire quando gettò uno sguardo nell'interno del mio appartamento. Non posso dire cosa questo fosse, ma è certo che le tane degli animali più immondi sarebbero ricoveri preferibili alle camere dei sott'ufficiali della guarnigione di Gubletta. Nonostante la fama che ha l'aria di Gubletta dì procurare le febbri, e sebbene la sera fosse fresca e la notte promettesse di essere addirittura fredda, mi stabilii sulla terrazza che copre il tetto della moschea dove neppure l'aria libera valse a farmi dimenticare un istante solo come mi trovassi nelle vicinanze di un appartamento testè occupato dai sotto-ufficiali di Gubletta. Malgrado tutto ciò, che bell'edificio era la vecchia moschea di Gubletta! E come è commovente la leggenda collegata a quel monumento!

Seicent'anni or sono un sultano chiamato Ibrahim, stanco delle grandezze, si volle votare alla vita contemplativa. Una notte, dopo essersi procurato un abito da derviscio, escì solo dal suo palazzo e dalla sua capitale, ed errò lungamente a caso, vivendo d'elemosina, ma contento della sua indipendenza e della sua solitudine. Finalmente la sorte lo condusse sulle rive del ruscello che scorre a qualche passo dalla moschea. Se questo luogo era allora come è oggi, non mi meraviglio che il sultano siasi deciso a fissarvisi pel resto de' [160] suoi giorni. A breve distanza dalla spiaggia, dietro una siepe selvatica di arboscelli in fiore, un corso d'acqua abbastanza largo, ricco di acque chiare e limpide, si snoda tortuoso per una prateria di circa centocinquanta metri quadrati ch'esso abbraccia e quasi interamente racchiude. Verso il centro di questa prateria, in cui il fresco ed il verde durano in ogni stagione, grazie all'acqua del ruscello che filtra nel sottosuolo, un albero immenso, di cui non saprei dire il nome, stende i suoi rami ombrosi sopra la terrazza che corona la moschea. Se da un rifugio così calmo e verdeggiante voi levate gli occhi in giro, voi scorgete da un lato una serie interminabile di boschetti e dall'altra il mare, in riva al quale sono ancora ritti gli avanzi di un anfiteatro romano. Il sultano Ibrahim comprese la bellezza di quel luogo, risolse di stabilirvisi e di terminarvi i suoi giorni nella meditazione e nella preghiera. La sua vita fu corta e la leggenda non ci dice quale sia stata la causa della sua morte prematura. Cadde forse vittima sotto i colpi di qualche orda sanguinaria? Gli fecero difetto le cose indispensabili alla vita, anche a quella di un anacoreta? La sua costituzione formatasi fra gli agi ed i piaceri non resistette alle austere aspirazioni della sua anima? Non sappiamo nulla. La leggenda ci mostra soltanto la madre del giovine sovrano che lascia la Corte tosto dopo suo figlio, ne segue da lungi le orme, le perde oggi per ritrovarle domani e giunge finalmente sulle sponde di quel limpido ruscello dove io stavo seduta ad ascoltare questa storia narratami da un vecchio santone arabo. Non trovò di quel figlio così a lungo cercato che il cadavere ancora caldo. La leggenda descrive coll'enfasi dell'Oriente il [161] dolore di quella madre in lagrime. «È giunta dunque troppo tardi? Tanti giorni passati sulle strade deserte, fra i pericoli, tante sofferenze, tante privazioni non avranno nessun risultato? Non può essa più nulla per quel figlio ch'era venuta a cercare e di cui voleva dividere l'esistenza? No, non può esser così; le rimane qualcosa a fare per lui; essa gli innalzerà un monumento che perpetuerà il ricordo delle sue virtù e Dio saprà bene mostrare ai fedeli che il corpo sepolto sotto quelle volte è stato d'uno de' suoi eletti.» Qui finisce la leggenda, ma il santone soggiunse a modo di conclusione: «La validè (sultana madre) eseguì il suo progetto e Dio ricompensò la sua fede. Da seicento anni cioè, dacchè il corpo del sultano Ibrahim riposa in questa moschea, innumerevoli miracoli sono stati compiti sulla sua tomba e tutti i viaggiatori che passano da Gubletta vengono a farvi le loro preghiere ed a deporvi la loro offerta. Tu, che sei cristiana, non rivolgerai le tue preghiere al sultano Ibrahim, ma se vuoi sarai ammessa nell'interno di quel monumento e ricompenserai chi ti avrà procurato questo favore.»

Io non domandava di meglio che di ricompensare quel buon santone e lo seguii rispettosamente fino nella sala funeraria che racchiude l'immenso catafalco del sultano Ibrahim. Non vi trovai nulla di più di ciò che aveva visto in tutte le moschee che custodiscono ceneri illustri. Una cappella, o per dir meglio, una camera collocata nella parte più remota dell'edificio e separata dalla moschea propriamente detta contiene un cofano gigantesco posto su un piedestallo di legno che lo rialza ancora e che è coperto da tappeti, scialli indiani e piume. La luce del giorno non penetra che [162] debolmente in quel recinto e vi è sostituita da una moltitudine di lampadine ad olio che diffondono fumo piuttosto che raggi di luce. Tutt'intorno alla stanza sono sospese le offerte, come in alcune delle nostre chiese.

I nostri cavalli attendevano insellati ed imbrigliati alla porta della moschea, avevamo la prospettiva di una lunga marcia ed ero impaziente di trovarmi in aperta campagna; ma non fu facile l'escire. Ho detto che ero dispostissima ad esprimere la mia riconoscenza al santone che mi aveva narrato la leggenda; sgraziatamente quella leggenda era unica, i santoni erano parecchi ed i pretendenti alla mia gratitudine si assiepavano in una tal folla all'escita della moschea che arrischiai di rimanerne soffocata. Anche in Europa vi sono molti mendicanti, ma ricevono quello che voi date loro o si ritirano senza far rumore se voi non date loro nulla. I mendicanti arabi sono d'una specie molto diversa. Non havvi differenza fra essi e i briganti, salvo che questi cercano i luoghi solitari a teatro delle loro gesta, mentre quelli esercitano la loro professione in mezzo ad una popolazione che sta a vedere guardandosi bene dall'intervenire. Malgrado la protezione del console di Russia e delle mie guardie non so cosa sarebbe accaduto di me se avessi rifiutato l'elemosina a questi mendicanti. Non vi pensai neppure, ma la mia buona volontà fu inutile. È una massima generalmente ammessa e praticata nel Levante che non bisogna mai accontentarsi di ciò che vi si offre quand'anche vi si offrisse il doppio di ciò che vi proponevate di chiedere. Ho ritrovato traccie di questo sistema, a Venezia, ove certamente è stato introdotto da negozianti levantini. Un bottegaio delle Procuratie mi [163] domandava un prezzo stravagante di non so più quale oggetto. Non piacendomi di mercanteggiare, gli volsi le spalle; ma il mercante mi richiamò e mi disse:

- Diavolo! signora mia. Come scappate! Non si domanda il prezzo che si vuole avere!

Strano principio di cui non ho ben compreso tutto il valore che dopo il mio soggiorno in Oriente!

Fortunatamente i miei cavalli stavano alla porta della moschea. Il console frugò nelle sue tasche, ne trasse tutti i quattrini che aveva e li gettò in aria in modo da farli cadere un po' lontano da' miei persecutori. Appena il suono della moneta, che batteva sulle lastre del tempio, si fece udire, il cerchio che mi chiudeva si spezzò e mi trovai libera. Ne profittai per lanciarmi a cavallo e partire di galoppo, gettando uno sguardo pieno di rimpianto all'anfiteatro diroccato che avevo dovuto rinunciare a visitare. I miei compagni di viaggio, che non erano entrati nel sepolcreto del sultano Ibrahim, avevano percorso, in compenso, le rovine romane e ne ritornavano incantati. A parer loro, l'anfiteatro di Gubletta era un monumento del miglior stile ed in un raro stato di conservazione. Ci seguiva la numerosa scorta di «Basci-bozuk» che dovevano lasciarci quando avessimo oltrepassato un certo posto considerato molto pericoloso. Fu nondimeno in tal punto che ci fermammo a far colazione e vi avrei passato volentieri qualche giorno a dispetto di tutti i briganti dell'universo, tale era il fascino di quel luogo. Le rive del mare sono generalmente molto aride, in Siria più che in qualunque altro luogo; ma non so per quale segreta influenza le leggi fisiche sono [164] talora annullate in questa terra prodigiosa ed i paesaggi più meravigliosi si spiegano d'un tratto ai vostri occhi là dove non credevate di incontrare che sassi, roveti e sabbie. Talune oasi della Siria sfuggono a tutte le spiegazioni, a tutte le ipotesi e per la loro estensione e per la natura degli ostacoli che hanno vinto. L'aria salata del mare non dovrebbe agire allo stesso modo su tutti i terreni che costituiscono la spiaggia? Come accade che, dopo aver camminato intere giornate nel greto sabbioso, fra arbusti nani e rattrappiti, vi troviate d'un tratto alla soglia d'un giardino inglese? La sabbia cede il campo all'aiuola; i cespugli e le boscaglie sono sostituiti da alberi vigorosi di tutte le specie, ricoperti di fiori. Questi fiori smaglianti di colore, con ampie corolle, deliziano gli occhi e rendono balsamica l'aria; gli uccelli cantano a migliaia con un ardore ed un'energia che gli uccelli dei climi più temperati non potrebbero raggiungere. Per esempio, le nostre rondini gettano durante il volo un grido monotono e null'altro; ma quella d'Asia, più piccola delle nostre, con ali lunghe ed una coda allungata a forchetta di un bel turchino metallico, col petto ed il collo di color arancione, canta presso a poco come un usignuolo. Il timbro della voce è più profondo, ma il suo canto si scosta assai poco per ritmo e per melodia da quello del nostro grande concertista boschereccio. La natura orientale rivela qui la sua potenza e non ci era mai apparsa così meravigliosa come nell'oasi ove ci siamo fermati dopo aver lasciato Gubletta. Un vecchio castello, non so di quale epoca, dominava una piccola altura a pochi metri dal mare. Non era facile di distinguere a prima vista le rovine, coperte com'erano da una [165] tunica di edera e di altri arrampicanti. Ogni screpolatura di quei vecchi muri non sembrava aperta che per lasciar passare ciuffi di fiori. Tutt'intorno il paese aveva la medesima colorazione datagli da una ricca vegetazione e, sebbene il sole fosse già abbastanza alto sull'orizzonte, l'ombra di alberi immensi si disegnava sulla prateria con larghe chiazze scure. Impossibile d'imaginarsi in un tale paradiso nulla che non fosse dolce, ridente, soave. Occorre una cornice ad ogni quadro ed una scena di sangue e di violenza avrebbe spezzato in modo criminoso tanta armonia fra quel mare, quel cielo, quelle rovine coperte di fiori, quei prati e quei boschetti. Mi si narrava che quel vecchio castello era spesso riparo di briganti, ma io non lo potevo credere. Nondimeno le guardie che ci dovevano accompagnare fino a Tripoli (Tarabulus) ci facevano premura ricordandoci che mancavano ancora dieci ore di marcia di cammello per arrivare a Tortosa ove dovevamo pernottare. Convenne cedere alle loro insistenze e mi staccai molto di malumore dal vecchio castello, dal suo velario di fogliame e di fiori, dalla verde prateria e dall'ombra opaca. Quando si abbandonano di questi paesaggi siriani si finisce per dire: «Non vedrò mai più qualcosa di così bello!» È triste, perchè vi sono grandi probabilità che sia proprio così.

La giornata che seguì quella simpatica sosta fu molto gravosa. Dalle 11 del mattino alle 4 del pomeriggio il caldo divenne intollerabile. Ci fermammo qualche tempo sotto le mura di Baynas, città antica le cui fortificazioni rimontano all'epoca delle crociate e sono evidentemente un lavoro europeo. Lambivamo il mare e circa un'ora prima del cader del sole scorgemmo dinanzi a noi, all'estremità [166] di una lingua di terra che si avanza nel mare, una massa nerastra e frastagliata che ci fu detto essere Tortosa. Accanto al promontorio e quasi aderente alla terra è un'isola chiamata l'isola delle donne. Ha ricevuto questo nome perchè è quasi esclusivamente abitata da donne, madri, sorelle o figlie di pescatori e marinaj che trascorrono la loro vita sulle onde. Ci facemmo coraggio allo scorgere Tortosa. Una delle nostre guide osservò: Non vi siamo ancora! Se tale riflessione gettata in viso ad un povero viaggiatore sfinito dalla stanchezza è ben irritante, l'esperienza che avevo ormai acquistato delle delusioni solite dei viaggi nel Levante, mi sforzava purtroppo ad ammettere che la guida poteva aver ragione.

La notte scese rapidamente: la luna non compariva, ma le notti in Oriente non sono mai molto nere. Sembrano piuttosto un crepuscolo. Talora il paesaggio è così ben rischiarato verso mezzanotte come poteva esserlo un'ora dopo il tramonto, sebbene voi non scorgiate una stella perchè il cielo è completamente coperto di nubi. Checchè ne sia, la notte era scesa, una di quelle notti dubbie, in cui si è più esposti a perdere la strada che in mezzo alle più folte tenebre. Si scorgono gli oggetti circonvicini, ma se ne vedono anche altri che non sono vicini, anzi non esistono, e quelli reali vi appajono talora sotto forme interamente nuove e quasi irriconoscibili. Avevamo intravisto Tortosa quand'era ancor chiaro, credemmo riconoscerla a notte fatta. Era là, dinanzi a noi, ad una piccolissima distanza. Ecco, dicevamo, le sue antiche mura fortificate, ecco la sua vecchia torre; la città occupa una distesa di terreno molto notevole: dev'essere abbastanza importante. E così commentando, camminavamo [167] sempre verso la nostra città. Una svolta della strada ce la nascose un istante, ma, appena girata la punta che ci stava dinanzi, non potevamo esserne molto discosto. Svoltiamo e non vediamo nulla: il fantasma della città s'era dileguato nell'aria e dovemmo camminare ancora più di due ore prima di raggiungere le mura che avevamo creduto un momento di poter toccare.

Non ho visto a Tortosa che le strade che dovetti percorrere per arrivare al mio alloggio; ma ciò che ne ho veduto assomiglia ad una vecchia cittadina europea. Le case, fabbricate in pietra, si aprono sulla strada, mentre ovunque qui le vie consistono in una serie di muri di cinta, e le case sorgono al di là di quei muri, rimanendo nascoste agli sguardi dei passanti. La camera dove passai la notte era costruita a volta come lo sono in genere le case di Gerusalemme e di tutte le città della Siria nelle quali i Crociati hanno dimorato a lungo. Traversando la città, l'indomani, rilevai parecchi edifici costrutti all'europea, che mi ricordavano certi palazzi municipali della Normandia. Hanno un aspetto cupo, in fondo triste; ma havvi nulla di triste per l'esule in ciò che gli ricorda la patria lontana?

Da Tortosa a Tripoli vi è la stessa distanza che da Gubletta a Tortosa. La prima giornata ci aveva mal preparato alla seconda; alcuni dei nostri cavalli erano ancor peggio disposti di quello che non fossimo noi, e per completare la serie dei nostri guaj non ci si offriva un solo rifugio lungo la strada. Circa alla metà della giornata scorgemmo per altro in vetta ad un pendio un villaggio arabo, il primo della sua specie che abbia veduto, composto in tutto di una dozzina di tende in stoffa [168] bruna, tessuta in pelo di capra o di cammello. Non so dove fossero gli uomini; ma le donne custodivano le tende e pensammo che fosse possibile trovarvi del latte. Fu una cattiva idea. Avevamo creduto che quelle donne arabe fossero donne come le altre. Fummo sgradevolmente sorprese allo scorgere esseri bizzarri che si precipitavano fuor dalle tende al nostro arrivo: enormi cani le precedevano, abbajando, urlando, mostrando i denti e lanciandosi tra le gambe dei nostri cavalli. Ma quei furibondi mastini erano ancora cortesi in confronto alle donne. Esse erano vestite d'una tunica di tela turchina e uno straccio dello stesso colore avvolgeva la loro testa e ricadeva sulle loro spalle; una cintura in cuojo le stringeva alla vita; la loro pelle nera e grassa era coperta di tatuaggi neri e bleu; e in particolar modo le labbra scomparivano completamente sotto uno strato d'indaco e la punta del loro naso non era che un ricettacolo di girasoli non ancora sbocciati, di anelli d'oro e di rame oppure di fiorellini di filagrana. Fra queste donne ve ne dovevano essere di giovani, ma tutte sembravano avere la stessa età, cioè una molto rispettabile; tutte parevano ugualmente di umore intrattabile. Ci mostravano i pugni facendoci delle orribili smorfie con accompagnamento d'ingiurie e di maledizioni, tutto ciò perchè venivamo a domandar loro qualche tazza di latte. Così edificati sull'ospitalità delle signore dalle labbra turchine, non volevamo prolungare le trattative. Lanciammo i nostri cavalli al galoppo, cosa poco comoda, con tutti i calci che quelle povere bestie tiravano continuamente ai cani che mordevano loro le gambe e non rallentammo il passo che dopo esserci messi fuori del tiro delle loro grida e dei sassi che [169] facevano piovere su di noi. Mi ripromisi, mentre mi allontanavo, di non domandare mai più latte a donne arabe.

Quella sera non fu molto più gradevole della precedente. I nostri cavalli ci deposero, dopo una marcia faticosissima, e già a notte fatta, a Tripoli, innanzi alla casa del console d'Austria, cognato dei miei ospiti di Latakiè e di Gubletta. I due consoli avevano dovuto scrivere a quell'agente per annunciargli il mio arrivo e mi avevano incaricata di molti messaggi per la loro sorella. Era dunque colla maggiore fiducia che io battevo alla porta del console d'Austria a Tripoli, pregustando il piacere delle buone notizie che recavo alla sua famiglia e della gioja che stavo per procurarle. Mandai il mio dragomanno ad annunciare il mio arrivo, ed attesi il suo ritorno, a cavallo, nella strada, stentando a lottare contro la stanchezza ed il sonno che si erano impadroniti di me. Siccome il ritorno si faceva aspettare al di là del prevedibile, pregai uno de' miei compagni di viaggio di andare a riconoscere lo stato delle cose. Egli ritornò dopo qualche istante col viso acceso per informarmi tutto sconvolto che il console non sembrava affatto disposto a riceverci e faceva valere tutti i pretesti immaginabili per dispensarsi dall'aprirci la sua porta. Ero così bene avvezza all'accoglienza amabile degli orientali, poveri e ricchi, che il modo di agire di quell'agente consolare mi indignò davvero. La mia stanchezza scomparve come d'incanto, ed avrei volontieri passato la notte su un paracarro, se ve ne fossero stati a Tripoli, piuttosto che mettere i piedi in quella casa così poco ospitale. Doveva per altro esservi un mezzo termine fra il paracarro e il palazzo del [170] console d'Austria, e m'informai dai curiosi, che malgrado l'ora avanzata si erano riuniti intorno a noi, per sapere se conoscessero alcuno che potesse riceverci per buon cuore od in cambio di denaro. Vi era, è vero, un convento di Carmelitani, ma situato all'estremità opposta della città; le porte non erano più aperte dopo una certa ora ed era dubbio che le donne vi fossero ammesse. Mi avevano affidato una lettera per il medico della quarantena, ma era assente. L'opinione comune era che non avrei trovato in nessun luogo un alloggio così buono come in quel consolato; ed ognuno sembrava ritenere che la via più spiccia e più savia fosse quella di proseguire le trattative per ottenere di entrarvi. Quanto alla questione della mia dignità offesa, agli occhi dei cittadini di Tripoli era un particolare completamente impercettibile.

Ne eravamo a questo punto, e confesso che col nostro discutere non avevamo fatto un passo innanzi, quando il mio dragomanno e quello del consolato comparvero e mi annunciarono, coll'aria di gente che aveva appena terminato una lotta accanita, che il console mi attendeva e che potevo far scaricare i nostri bagagli. Esitavo ancora, ma come fare? Era quasi mezzanotte, non conoscevo nessuno a Tripoli nemmeno di nome; uomini e bestie erano al limite delle loro forze e della loro volontà. Seguii dunque i due dragomanni. Traversai una vasta corte lastricata in marmo, curata colla più squisita nettezza e circondata da vigne. Il primo vestibolo ben illuminato e le cui luci si riflettevano sulla superficie lucida dei marmi e dei rivestimenti in legno come su specchi di Venezia, mi abbagliò al primo mio entrare. Nella camera vicina, quasi altrettanto grande [171] che il vestibolo, ma meno rilucente e più ammobigliata, il terribile console stava steso sul divano con un berretto da notte in testa ed il corpo avviluppato in una veste da camera. Dal primo colpo d'occhio mi avvidi che non si era ancora riconciliato colla necessità alla quale si arrendeva, non so neppure se avrebbe potuto dominarsi abbastanza per negarsi la soddisfazione d'indirizzarmi un complimento di cattiva lega; ma non gliene lasciai il tempo. Egli era molto malcontento e quindi di cattivo umore; io non ero che in collera, ciò che è sempre molto meglio. Pertanto, camminando dritta verso di lui mentre egli si moveva sul suo sedile come per alzarsi, gli dissi con una voce molto chiara e scandendo le parole: «Vi prego di credere, signore, che non mi sarei presentata a casa vostra se la vostra famiglia non me ne avesse insistentemente pregata, ed in questo momento stesso io escirei da questa casa se potessi trovare un altro alloggio. Io non accetto quindi da voi che quello che non potete rifiutarmi, un asilo per questa notte. Il vostro vestibolo mi basterà e domattina all'alba proseguirò il mio viaggio.» Il console d'Austria non era punto un uomo cattivo e non aveva avuto l'intenzione di farmi una scortesia. Era semplicemente un uomo di cattiva salute, nervoso, ipocondriaco; quelli che hanno vissuto lungamente in Oriente hanno perduto l'abitudine di frenarsi, e quelli che non ne sono mai esciti non l'hanno mai imparata. Gli era stato annunciato che una ventina di persone reclamava la sua ospitalità alle undici di sera; ne era rimasto imbarazzato ed aveva mostrato il cattivo umore che gli era derivato dal trovarsi così in impiccio. Quando s'avvide di avere veramente [172] offeso i suoi ospiti, ne ebbe dispiacere e me lo manifestò colla stessa vivacità e la stessa schiettezza colla quale aveva prima dato sfogo al suo malcontento. La mia ira si dileguò subito come per incanto. La mia attenzione si era del resto riportata sopra un oggetto infinitamente più attraente che non fosse il console. Sua moglie, la sorella de' miei ospiti di Latakiè, era seduta nell'ombra quando io entrai. Essa non parlava e non capiva che l'arabo; ma indovinò facilmente che suo marito ed io non stavamo scambiandoci frasi troppo tenere. Si alzò, con grande dolcezza si accostò a me, mi prese la mano e mormorò a bassa voce qualche parola araba che non compresi, ma di cui intuii il significato.

La moglie del console d'Austria a Tripoli è forse la più bella donna che abbia veduto in Siria e la sua acconciatura era la più graziosa, la più carina di tutte quelle che avevo ammirato prima di allora. Fece segno al dragomanno del consolato di avvicinarsi e lo incaricò di dirmi tutto quello che il suo bel viso m'aveva già detto. La mia camera era già pronta, essa stessa andava a prepararmi la cena e voleva servirmela; suo marito si era messo di cattivo umore temendo ch'io non trovassi in casa sua tutti gli agi ai quali avevo diritto d'aspettarmi. Era malato e la menoma agitazione lo metteva fuori di sè; ma essa lo aveva rassicurato promettendogli che non mi sarebbe mancato nulla o che almeno essa otterrebbe il mio perdono per ciò che essa non riescirebbe a procurarmi. Mentre parlava così ed accompagnava le sue parole coi più graziosi sorrisi e con uno sguardo in cui una punta d'inquietudine si mescolava alla lieta dolcezza che sembrava essere nella sua natura, [173] io aveva bell'e dimenticata la mia ira e la causa che l'aveva procurata. Guardavo via via quella donna ancor così bella, così giovane ed attraente, un gruppo di bambini che giocavano in un canto serbando un silenzio che rivelava un certo timore, ed il padre di famiglia, il marito, il padrone, avvolto nella sua veste da camera e nel suo malumore. Mi venivano in mente altre coppie europee, viventi sulle stesse basi, offrenti lo stesso contrasto, e dicevo a me stessa che la natura umana è la medesima sotto tutte le latitudini e con tutte le usanze.

Bisognò seguire senza cerimonie la bella padrona di casa nella sala da pranzo, e ricevervi dalle sue bianche mani tutto ciò che le piacque offrirmi. Qualche momento più tardi, io gustavo il riposo più assoluto in una camera confortevolmente ammobigliata. L'indomani il nostro console si rivelò d'eccellente umore. Mentre io dormivo ancora, egli aveva ricevuto la lettera de' suoi cognati che annunciava il mio arrivo e che aveva avuta in ritardo per un incidente inatteso. Partii dunque da Tripoli soddisfattissima del breve soggiorno che vi avevo fatto, e perfettamente riconciliata coll'ottimo console che, dopo tutto, era semplicemente un galantuomo, d'umore un po' vario e molto malato. Quattro sole ore di marcia ci separavano da Badun; il tempo era bello e caldo, i nostri bagagli ci avevano preceduto, secondo il solito, ed eravamo liberi da ogni noia; ma è precisamente in mezzo ad una sicurezza completa che quasi sempre ci accadono guai.

Ci era impossibile di smarrirci durante la prima parte del nostro viaggio verso Badun, poichè non dovevamo lasciare la spiaggia del mare, ma [174] fatalità volle che noi raggiungessimo un promontorio che segna il punto dal quale la strada si stacca dal mare proprio quando la notte spegneva gli ultimi bagliori del crepuscolo. Un'altra circostanza molto disgraziata, di cui risentii gli effetti durante tutto il tempo del mio viaggio, fu di avere per dragomanno un uomo altrettanto vano quanto sciocco ed ignorante. Piccolo di statura e molto brutto, questo personaggio, alternatamente ossequioso ed arrogante, era di origine europea, perchè era nato a bordo di una nave danese che recava sua madre nel Levante. Questo bastimento era tutto ciò che avesse mai conosciuto dell'Europa, e la sola lingua occidentale che fosse riescito a balbettare era l'italiana. Stabilitosi a Costantinopoli egli era riescito, non so come, ad occupare una discreta posizione. Durante il primo anno del mio soggiorno in Asia, lo avevo impiegato per qualche mese nella fattoria, poi avendolo incontrato al mio passaggio da Angora avevo acconsentito ad ammetterlo di nuovo nella mia scorta. Dacchè ero entrata nella Siria, mi ero però accorta che l'arabo non gli era meno straniero degli altri idiomi orientali ed occidentali e rimpiansi, ma troppo tardi, di avere ingrossato il mio seguito con quell'importuno. Ai suoi occhi, il titolo d'interprete e quello di primo ministro si equivalevano: pertanto egli profittava di ogni occasione per mandare innanzi il grosso della carovana e darsi la soddisfazione di pavoneggiarsi al mio fianco, col fucile in ispalla, sul più alto de' miei cavalli e ostentando un'immensa sciarpa rossa guarnita di pugnali e di pistole. Se questo bizzarro dragomanno non fosse stato che inutile non avrei preso al tragico l'impiccio della sua presenza; [175] sgraziatamente, non meno ignorante in geografia che in linguistica, egli aveva la pretesa di possedere nei menomi particolari la carta dei paesi che percorrevamo. Il giorno della nostra marcia su Badun riconoscemmo a nostre spese quanto questa pretesa fosse infondata.

Guidati dal personaggio testè descritto, seguimmo dapprima la costa fino al promontorio che taglia la strada di Badun. A partire da quel promontorio, la via fa una svolta a sinistra, attraversa alcuni avvallamenti e poi ritorna a sboccare sulla riva a breve distanza da Badun. Il nostro dragomanno, giunto al promontorio, ci avviò verso le alture; ma, invece di seguire la strada tracciata, ci gettò dietro a lui nel letto di un torrente che, non solo ci allontanava dalla nostra direzione, ma opponeva ai nostri cavalli numerosi ostacoli. All'escire dal torrente ci trovammo sul declivio di un'alta montagna faccia a faccia con un cumulo di roccie che chiudevano da ogni lato l'orizzonte. Era evidente, dall'aspetto desolato di quel paesaggio, illuminato dalla luna, che la nostra guida si era ingannata e questa volta anche la sua fiducia sembrava scossa. Avremmo dovuto passare la notte all'aria aperta? Dovevamo proseguire, tornare indietro o fermarci? Dibattevamo melanconicamente queste varie soluzioni, quando uno di noi credette di riconoscere un sentiero che doveva condurre ad un villaggio. Non c'era da esitare: non era più Badun, ma un rifugio qualsiasi che avevamo premura di raggiungere. Prendemmo dunque la direzione indicata da alcune traccie, che fortunatamente non ci ingannarono, perchè ci condussero sulla spianata di una montagna donde scoprimmo un villaggio abbastanza [176] vicino. Non fu difficile arrivare alle prime case, ma il penetrarvi, giacchè le strade silenziose in cui eravamo assomigliavano ai viali di una necropoli e le case non avevano all'esterno nè porte nè finestre. Era evidente che i pacifici abitanti di quel villaggio avevano adottato tutto un sistema di precauzioni notturne contro le tribù erranti, di cui avevano certamente dovuto subire più di una volta le incursioni. Due o tre dei nostri erano andati frattanto in una capanna che sorgeva all'ingresso del paese e che sembrava meno barricata e meno inaccessibile delle case vicine. In fatti la porta che seppero scovare cedette ai loro colpi ed essi ricomparvero ben tosto spingendosi innanzi un uomo mezzo svestito, mentre lamenti di donne cominciarono a levarsi da tutte le abitazioni finitime, come un segnale d'allarme. Dovemmo penar molto per convincere il nostro prigioniero che non esigevamo da lui alcun prezzo di riscatto, anzi che eravamo disposti a pagarlo abbondantemente se avesse voluto condurci a Badun. Il mariuolo pretendeva d'essere cieco e gli risposimo che toccava a lui di guidarci seguendo quello de' suoi sensi che l'aiutava per solito a raccapezzarsi. Non eravamo del resto malcontenti di mortificare il nostro dragomanno, col sostituire una guida cieca ad una ignorante. Sgraziatamente il contadino che avevamo catturato era cieco fino ad un certo punto, e, dopo aver camminato un bel pezzo dietro a lui, ci accorgemmo che per scroccarci un po' di denaro si limitava a farci gironzare intorno al suo villaggio. Occorse che uno della nostra scorta accostasse all'orecchio di quell'individuo la canna della sua carabina minacciandolo di tirare se avesse continuato a burlarsi [177] di noi. Da quel momento il sedicente cieco smise d'incespicare e di andare a tastoni, camminò dritto e svelto davanti a noi fino a Badun, che era lontano due ore di marcia dal villaggio in cui eravamo penetrati.

Non temo d'insistere su simili avventure. Quei ritardi, quelle delusioni, quelle dispute fra viaggiatori e dragomanni, quel ricorrere alla forza di fronte a popolazioni malevole o perverse, tutto ciò caratterizza un viaggio in Oriente e deve trovar posto nelle narrazioni di chiunque voglia far comprendere costumi così nuovi ad un europeo. Posso ormai raccontare più rapidamente le due giornate di viaggio che mi separavano ancora da Beyrut. Non ho nulla da dire di Badun, salvo che vi trovai con una soddisfazione ben comprensibile una buona camera ed una buona cena. Da Badun a Beyrut la strada costeggia il mare. Camminavamo per un tratto nella rena della spiaggia ed i nostri cavalli bagnavano i piedi nelle onde salse; oppure seguivamo le traccie di antiche strade elevate dall'epoca romana sui pendii rocciosi dei monti che si ergono a picco fuor dalle onde. Passammo davanti alla vetusta città di Biblos, le cui fortificazioni sono opera dei Crociati e che ora ha il nome di Gibel. Durante questo tratto di strada, per la prima volta dopo il mio arrivo nella Siria, incontrammo viaggiatori europei, un ministro della Chiesa Anglicana colla moglie. Il marito era vestito interamente di nero, come fosse sul punto di salire sul pulpito, con una cravatta bianca e stretta, un cappello di feltro candido accompagnato da un crespo nero. La moglie era vestita come per una passeggiata in un parco inglese, salvo che portava sopra il suo cappello [178] una specie di cappuccio molto complicato fabbricato con cartone, tela ed ossi di balena e destinato a garantirla dai raggi del sole. Con tutto ciò l'ombrellino conservava i suoi privilegi ed ondeggiava sopra il cappuccio. Questa coppia così poco orientale nelle sue abitudini e nella sua apparenza era in missione. Non parlava altra lingua che l'inglese e, munita di un certo numero di Bibbie, di una grammatica e di un dizionario arabo, percorreva le città e le campagne, i monti e le pianure, il deserto e i luoghi abitati, convertendo, o cercando di convertire al protestantesimo tutti in un fascio turchi ed arabi, mussulmani, idolatri, ebrei e cattolici.

La Siria è invasa, percorsa in tutti i sensi dai missionarii inglesi ed americani, il cui candore e la cui buona fede sono incontestabilmente superiori al tatto ed all'intelligenza. La conversione è divenuta, per gli orientali, una specie di situazione sociale molto remunerativa ed il convertito, che ha rappresentato questa parte due o tre volte, diventa un uomo molto solvibile; possiede beni, si mette nel commercio e fa fortuna. Ecco come le cose vanno in quasi tutte le sette e religioni di quel paese; ma principalmente fra gli ebrei, che sono del resto, non so perchè, i favoriti della propaganda protestante. Uno di questi assiste più o meno a qualche conferenza tenuta dai missionarii, per rispondere alle obbiezioni che gli infedeli potrebbero elevare contro le dottrine di Lutero o di Calvino. Non ho mai assistito ad alcuna di queste conferenze, ma confesso che vi sarei andata colla maggiore premura se avessi potuto farlo in incognito per udire quei curiosi dibattiti fra uomini educati e nutriti in tutte le sottigliezze della [179] dialettica religiosa ed i figli degeneri d'Israele o di Giuda pei quali intelligenza e morale sono parole senza senso. Qualunque sia la presumibile singolarità di queste conferenze, l'ebreo che abbraccia il protestantesimo riceve una gratificazione od una pensione che è però passeggera, cioè gli è pagata solo finchè non ottenga un onesto impiego. Perde allora la pensione e si spegne l'ardore della sua fede: parte, passa in una provincia poco frequentata dagli europei e sovratutto dai missionarii, rientra nella sua comunione, se non trova più proficuo d'abbracciare l'islamismo: ciò dipende da circostanze assolutamente estranee alla fede. I suoi nuovi correligionari, particolarmente se sono stati ben scelti, rivaleggiano in generosità, se non in candore coi missionarii protestanti: non accordano pensioni alla pecorella rintracciata, perchè le pensioni sono un uso occidentale, non gli affidano lavoro da compiere trattandosi di un genere d'incoraggiamento che è ritenuto poco adatto per attirare proseliti; ma tutte le case gli sono aperte ed il penitente va a dormire dall'uno, a mangiare dall'altro e si fa vestire dal terzo. Ciò dura qualche mese, poi il ricordo della sua conversione si perde e la pecorella negletta ritorna allora a mettersi a portata di qualche pio missionario evangelico, badando solo ad evitare il teatro delle sue prime gesta e l'incontro del suo precedente benefattore. Vi sono parecchi mascalzoni che hanno passato così la loro gioventù a vagare di chiesa in chiesa senz'altro scopo che di alimentare una vita di ozio nè altro risultato che di gettare il discredito, e qualche volta anche il ridicolo, sugli sforzi, del resto onorevolissimi, del clero protestante.

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Beyrut, ove giungemmo un giorno e mezzo dopo aver lasciato Badun, segnava il termine della marcia faticosa che aveva avuto Alessandretta per punto di partenza ed i cui incidenti mi parvero atti a mostrare l'ospitalità orientale in qualcuno de' suoi tratti caratteristici. A Beyrut cominciava per me un'altra serie di spettacoli. Non era più verso l'Oriente mussulmano, ma su quello cristiano che la mia attenzione si sarebbe ormai rivolta.

I paesaggi ed i monumenti dovevano ormai avere la loro parte nell'interesse svegliato in me fino allora quasi unicamente dai costumi. Mi attendevano numerose sorprese ed anche qualche delusione. Non era senza fatica che calpestando luoghi celebri dovevo vedermi forzata a scordare i miei sogni per contemplare una realtà meno severa o meno graziosa a mio gusto. Già al mio arrivo a Beyrut, riconobbi che la mia immaginazione stava per essere esposta a qualche disinganno. Scorgevo l'arida catena del Libano e cercavo invano cogli occhi le foreste di cedri di cui parla la Sacra Scrittura. Questi cedri esistono in realtà, ma non occupano più di mille o milleduecento pertiche quadrate, mentre il Libano copre un'intera regione. Da questo genere di sorprese è minacciato ogni viaggiatore che visiti le terre bibliche recandovi il ricordo troppo vivo dei sacri testi. Fui messa così sull'avviso e, tra le impressioni che si collegano per me al soggiorno di Beyrut, questa è la sola che mi abbia lasciato serie traccie. Quanto alla città in se stessa, si può definirla con una parola: fra le città dell'Asia è la meno asiatica; fra le città dell'Oriente è la più europea.

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