La valle d'Antiochia – latakiè le donne di Siria

Quattro ore di marcia separano il palazzo del principe Mustuk dalla cittadina di Alessandretta. Il viaggiatore che da Alessandretta si reca a Beirut comincia a percorrere le montagne fino ai dintorni di Latakiè: di là segue le coste del Mediterraneo fino a Beirut. La regione che quest'itinerario mi fece attraversare è una delle più [134] pittoresche della Siria, ed il tratto da Alessandretta a Beirut segna un periodo distinto nel viaggio di cui vado raccogliendo i ricordi. Non ebbi mai un'occasione migliore per constatare come siano esagerate le apprensioni che sembrano inseparabili da una marcia in talune parti del Levante. Si temono le fatiche e le privazioni quando ci si avvia verso solitudini di apparenza molto inospite. Se tali timori sono a volte giustificati, non bisogna dimenticare che i nostri viaggi in Europa hanno pure le loro noie e le loro fatiche, e che le gioie di una corsa avventurosa, come quella di cui voglio rievocare le vicissitudini, non vengono sempre a riscattarne i pesi.

Per non prolungare troppo questo saggio di riabilitazione della vita alquanto laboriosa che s'impone nel Levante ad ogni viaggiatore, mi contenterò di dire: Non visitate la Siria nel mese di luglio, nè l'Asia Minore in inverno; dovreste temere l'apoplessia o la congelazione. Scegliete un'epoca favorevole, prendete un buon cavallo di cui regolerete il passo a modo vostro, buttatevi attraverso le montagne o sulle spiaggie bagnate dal Mediterraneo, e venite poi a dirmi se la corsa di otto ore al giorno, fatta in simili condizioni, non valga mille volte le lunghe giornate del viaggiatore trascinato da una comoda berlina, sulle migliori strade d'Europa. Certo il pericolo, accanto alla stanchezza, deve esser calcolato nelle previsioni di chiunque voglia visitare l'Oriente, ma il miglior modo di affrontarlo consiste nel liberarsi dai timori puerili, alimentati da vecchi pregiudizii, e di cui si vantano volontieri le donne. Lasciando che altri collochi una sorta di pusillanimità pretenziosa e finta fra le grazie femminili, per conto mio faticherò [135] sempre a comprenderla, e non riuscirò mai a scusarla. La paura, più o meno sincera, è uno dei nemici più temibili nel viaggiatore e, sovratutto nel Levante, chi non sa trionfare di un così triste sentimento, deve condannarsi alla vita sedentaria.

Veniamo alla città di Alessandretta ed alle avventure del mio pellegrinaggio verso Beirut. A dispetto dei geografi, devo negare che Alessandretta sia una città. Potrò ammettere, se si vuole, che lo sia stata parecchi secoli or sono, sebbene non vi siano rovine ad attestarlo; ma non vado più in là; e non potrò mai considerare Alessandretta che come un punto di partenza. Il paesaggio è bello; il littorale poi magnifico. Il vasto anfiteatro di montagne colleganti il monte del Giaurro col Libano è meraviglioso. Nulla di più ridente della verde pianura limitata per tre lati da queste montagne, e per l'altro lato dal mare, la pianura sulla quale sorge Alessandretta. Ma che si può dire delle case che rappresentano la città, case in pessimo stato, anche se sono nuove, costruite senz'ordine nè disegno e che lasciano fra di esse, invece di strade, piccoli spazi tagliati in tutti i sensi? Di Alessandretta si può solo dire che la temperatura vi è eccessiva sia in estate che in inverno, che il caldo vi è intollerabile ed il freddo rigorosissimo, che le infiltrazioni del mare vi provocano febbri periodiche, che il bazar vi è poverissimo e la maggior parte delle mercanzie spedite da Aleppo scompaiono quasi immediatamente nelle mani di otto o dieci abitanti privilegiati. La città di Alessandretta, lo ripeto, non vale che quando la si abbandona.

Vi passai nondimeno circa 48 ore. Pochi momenti dopo la nostra partenza dal palazzo di Mustuk [136] bey, eravamo stati sorpresi da un orribile temporale che ci forzò a rifugiarci in una capanna di doganieri, posta in riva al mare. Lo spazio troppo stretto non ci aveva permesso di ricoverare le nostre cavalcature e, quando arrivammo ad Alessandretta, ci accorgemmo che uno dei nostri cavalli, un bel turcomano color isabella, col muso e la criniera neri, era come reumatizzato in tutta la faccia. Non si poteva pensare a condurlo più lontano, e ci piangeva il cuore all'idea di abbandonarlo così al suo triste destino. Decidemmo dunque di consacrargli un'intera giornata, durante la quale avremmo potuto prendere disposizioni necessarie per farlo ben curare.

Non si trattava più che di allogarci per un giorno e per due notti ad Alessandretta. Eravamo scesi in casa del console di Sardegna, che ci aveva ricevuti con tutta la cordialità alla quale i viaggiatori sono così sensibili, ma egli viveva da celibe nella sua triste residenza, e la sua casa, sebbene abbastanza grande, non era adatta per ricevere la nostra numerosa carovana. Il console comunicò il suo imbarazzo ad un collega, agente consolare della Gran Bretagna, ed il risultato della conferenza fu di mettere a nostra disposizione la dimora del console inglese, allora in congedo, e tutto ciò che essa conteneva. Accolsi questa decisione con una gioia quasi infantile. Avevo osservato, nella casa del console d'Inghilterra, certi particolari di griglie verdi, di balconi coperti che mi riportavano come d'incanto in mezzo alle simpatiche dimore di Cheltenham e di Brighton. Passare un giorno e due notti in uno di quegli eden in miniatura, che mi appariva inaspettatamente, sulle rive del mare di Siria, dopo esser rimasta digiuna, durante degli [137] anni, di ogni lusso e di ogni eleganza, ciò somigliava ad un sogno, ad un sogno d'Europa.

Ma nulla è al mondo in c'uom s'affida

ha detto il Petrarca e mi ricordavo questo verso entrando nel mio piccolo eden; il sogno si era dileguato lasciando solo rammarichi dietro di sè. Il console era assente da parecchi mesi ed una squadra di servitori arabi si era insediata in tutte le stanze e le traccie del loro soggiorno erano troppo evidenti. Dovetti strapparmi alle belle visioni che mi avevano un momento arriso, poi ordinare e sorvegliare le purificazioni senza le quali non è possibile abitare in una casa araba. Scelsi una stanza esposta al nord, per non disturbare gli esseri microscopici che preferiscono le camere esposte a mezzogiorno. Misi in azione durante il resto della giornata parecchie scope ed altrettante spazzole; feci del mio meglio per moltiplicare le correnti d'aria favorite dagli assiti mal connessi e dalle mura screpolate; m'impadronii d'un letto in ferro verniciato che mi parve d'aspetto rassicurante, e terminati questi preparativi potei prendere un po' di riposo. Si capisce nondimeno che cercai tutti i modi per star lontana da un simile alloggio e le ore della mia sosta ad Alessandretta furono sovratutto occupate da passeggiate in riva al mare. Come dovetti rimpiangere allora la mia ignoranza in storia naturale! Camminavo su un mosaico di marmi preziosi e di pietre rilucenti. Il mare, che li aveva gettati sulla spiaggia con una quantità di graziose conchiglie, dava pure ad essi il riflesso del suo umido scintillio su cui i raggi del sole di Siria si rifrangevano in colori mutevoli ed indefinibili, splendendo come diamanti. Mi chinai [138] a raccogliere manciate di quelle pietre e di quelle conchiglie andando e venendo dalla riva alla mia camera per deporvi la mia raccolta, ma finii per gettarla tutta dalla finestra dopo aver riflesso che quelle pietre che mi erano parse così preziose non potevano avere alcun valore per uno scienziato. Un altro spettacolo destò la mia sorpresa ad Alessandretta, quello di una piccola mandra di maiali domestici che annusavano dibattendosi a loro agio in un recinto accanto al consolato, giacchè quelle bestie appartenevano al console. Non ho potuto dimenticare quest'incontro perchè un armeno di Diarbekir, che avevo al mio servizio, scambiò quegli animali per cani di una razza di gran pregio e non riescii a convincerlo del suo errore. Se ben compresi, egli si era imaginato che i maiali fossero degli elefanti con una tromba più piccola.

All'escire da Alessandretta, la strada penetra quasi subito nelle montagne che sono a sud-est e si aggira per ben quattro ore in un labirinto di lauri e di mirti. La cittadina di Beinam, ove pernottammo appunto a quattro ore di distanza da Alessandretta, ha sparpagliato le sue case tra il fondo del vallone e l'alto del pendio, in modo da occupare uno spazio più ampio di quello che convenga alle sue piccole dimensioni. La casa di campagna del console inglese, ove dovevamo scendere, era una delle ultime della città. Da quell'altura si scopre un bellissimo panorama. Le montagne, o meglio le colline, in mezzo alle quali avevamo camminato a partire da Alessandretta giacevano ai nostri piedi, ed i nostri sguardi si fermavano al di là, sul mare scuro e turchino che dal lato della Siria incorniciavano capricciosamente le [139] cime ritagliate a festoni dei monti e le masse verdi delle foreste. Quanto al nostro alloggio dirò solo che lo raggiungemmo inerpicandoci su per la montagna come le mosche si arrampicano sui muri e che, dopo aver ben considerato il locale offertomi, feci un interrogatorio al mio cavass per scoprire quali reconditi motivi lo avessero determinato a condurmi in quel Purgatorio e perchè non avesse subito cercato di collocarmi altrove. Egli mi squadrò tutto sorpreso ed attribuì la stranezza delle mie domande e delle mie valutazioni dei beni di questa terra ad un'imperfetta conoscenza delle usanze turche. Finì per giurarmi, su quanto può avere di più sacro un buon mussulmano, che la casa in cui mi trovavo era senza confronto la più bella di Beinam. Senza insistere più oltre avrei desiderato sapere, non foss'altro per mia istruzione, come fosse fatta la più brutta.

Da Beinam ad Antiochia la tappa è molto lunga, qualcosa come dieci o dodici ore secondo le previsioni. A tale riguardo devo dire che è difficilissimo stabilire nella Siria un calcolo esatto delle ore e delle distanze. Siccome non si è ancor pensato a misurare il terreno ed a suddividerlo in leghe, miglia o metri, non si valutano le distanze che dal tempo impiegato a percorrerle. Non basta, v'è di peggio; perchè non tutti camminano collo stesso passo e non è stato scelto un passo qualsiasi che serva come unità di misura. Se per esempio vi dicono che occorrono dieci ore da Beinam ad Antiochia e vi appagate di tale indicazione potreste pentirvene, perchè può darsi che voi superiate la distanza in cinque ore e fors'anche in quindici, senza poterlo rinfacciare a chi vi ha dato l'informazione. La colpa sarà tutta vostra [140] per non aver soggiunto: quali ore? di pedone, di cammello, di mulo? Di cavallo d'affitto o di cavallo di posta? In alcuni cantoni si conta sempre ad ore di cammello, in altre ad ore di mulo e così via. Quando sbucammo dalle montagne eravamo circa a mezza strada e scendemmo in una valle che ha nel centro un lago ed il lato verso occidente limitato da una catena di montagne basse lungo le quali serpeggia la strada. A breve distanza dal lago una vecchia locanda quasi interamente diroccata faceva ancora una certa figura. La grandezza e la magnificenza con cui furono costruiti quei monumenti dell'ospitalità orientale sono proprio straordinarie. A prima vista si direbbero palazzi reali o templi consacrati a qualche Dio ignoto. Porte simili ad archi di trionfo, enormi pilastri che sostengono volte alte cento piedi, vastissime corti aperte su altre ancor più immense e selciate a pietroni, tutto ciò non contiene che scuderie e tettoie per le merci. Per ciò che concerne i viaggiatori, non vi è ostacolo a che si stabiliscano per la notte fra le gambe dei cavalli, oppure sotto la loro testa, cioè su un rialzo che fiancheggia le mangiatoie. I dintorni di Antiochia armonizzano coll'antica grandezza di quella città in decadenza. Sul vertice di una delle montagne che chiudono la valle in mezzo alla quale sorge l'antica capitale della Siria, si possono ancora scorgere rovine di fortificazioni. L'Oronte bagna la valle e, prima di entrare nella città, si suddivide in parecchie braccia che formano degli isolotti sui quali sono stati eretti dei mulini. Le conche, scaglionate di tratto in tratto, regolano il corso delle acque che servono ad irrigare deliziosi giardini. Il riposo ci era offerto ad Antiochia dall'agente consolare [141] d'Inghilterra, ricco mercante armeno, che con una cordialità perfetta aveva messo a mia disposizione tutta la sua casa. Mi sarebbe stato pur dolce di fermarmi ad Antiochia! Tutto mi vi invitava, le rovine ed i giardini, i boschetti dei lauri rosa e le fontane sacre; ma bisognava proseguire senza guardare oppure rinunciare a raggiungere Gerusalemme prima delle feste di Pasqua. Non tardai a decidermi ed allorchè, dopo la prima notte passata ad Antiochia, il mio ospite venne a domandarmi qual monumento doveva farmi visitare, rimase male all'udire come avessi rinunciato a vedere le rarità di Antiochia e contassi partire il giorno stesso.

Lasciavamo dunque Antiochia senza aver nulla veduto di quanto essa racchiude; ma la Provvidenza dei viaggiatori che doveva conoscere ed apprezzare i motivi della mia condotta ci riservava un compenso, conducendoci verso uno dei luoghi più celebri e, ciò che vale assai meglio, più belli dei dintorni della città. Era la fontana di Dafne, ove si ergeva una volta, a pochi passi da una sorgente limpida e copiosa, un tempio che credo fosse dedicato a Venere. Il sole già alto sull'orizzonte bruciava il nostro capo e cercavamo cogli occhi fin da lungi un poco di ombra, quando scorgemmo un boschetto di gelsi che coronava il vertice di una collina. Attraverso a quel fogliame scuro si indovinavano masse biancastre di varie forme e misure. Erano colonne di marmo bianco; talune giacevano al suolo, altre, sebbene tronche, si reggevano tuttora in piedi; il suolo era ingombro di moltissimi frammenti. In mezzo sorgevano alberi di ogni età, dal lauro e dall'olivo il cui tronco nodoso era annerito dal tempo al gelso [142] giovane e flessibile che levava al cielo i suoi rami snelli come le dita di una mano supplichevole. Le mura del tempio erano crollate, le colonne rovesciate, e quelle che rimanevano in piedi non reggevano più nè volte nè frontoni. Ma gli alberi portavano tuttora le loro foglie, i fiori ed i frutti. E, se i succhi di alcuni si erano disseccati, ciò non era accaduto prima d'aver affidato alla terra, custode e tutrice fedele, i germi fecondi destinati alla riproduzione. La vanità umana non ha ancor imparato la lezione che la natura le ripete sin dall'inizio della creazione. L'uomo crede innalzare edifici che dureranno quanto il marmo e gli stessi metalli. Ahimè! Quei fragili steli, quei fiori e quelle foglie così delicati, che proiettavano un tempo la loro ombra sui gradini del santuario decantato come perenne, non ombreggiano oggi che le sue rovine. Anche la più gracile creazione della natura è immortale ed il lavoro più solido dell'uomo non dura al di là di un certo tempo.

Non avrebbe dipeso che da noi di partire da Antiochia in una carovana numerosa. Il Giaur-Daghda non è la sola montagna dell'impero ottomano che ripari fra le sue roccie sudditi ribelli. La grande tribù araba degli Ansariati, che occupa una parte notevole del Libano e dell'Antilibano, da Latakiè fino ai dintorni di Damasco, si era appena rivoltata ed il pascià d'Aleppo mandava truppe contro quegli indomiti montanari che pretendevano di sottrarsi alla coscrizione. Vi fu chi ci consigliò di accompagnarci ai soldati per porci al riparo dai briganti. Ritenni invece che il viaggiare colle truppe voleva dire affrontare il nemico; preferii dunque di viaggiare per conto mio e di non pormi sotto la protezione di alcuno. [143] Durante tutta la mia lunga spedizione non mi sono allontanata una sol volta da questa regola di condotta e, quando mi è stato impossibile di rifiutare una scorta, ho avuto cura di non ammettervi che dei «basci-bozuk» (ciò che si potrebbe tradurre: capi scarichi), specie di guardia urbana o comunale che deve avere un gran potere di seduzione poichè è così ben vista dai briganti come dai suoi propri capi. Non so quali sarebbero state le conseguenze del sistema opposto, ma non devo preoccuparmene se il mio non ha dato cattivi risultati. Ho attraversato paesi assai pericolosi, a giudicare da quanto mi si diceva, e non ho mai subito gravi noie.

La mia decisione di non unirmi alle truppe del pascià era più facile da prendere che da eseguire. Quando si parte dallo stesso posto, si cammina nella stessa direzione e presso a poco collo stesso passo, non si può rimanere distanti uno dall'altro. Potevamo rimanere indietro di una o due giornate, ma sarebbe stato tempo perso e non ne avevamo da gettar via. Ci esponevamo inoltre, in tal guisa, a non trovare nei villaggi che magazzeni vuoti ed alloggi infestati d'insetti. Ci rassegnammo dunque ad oltrepassare i soldati ed a lasciarci oltrepassare ad ogni tratto, talora fino dieci volte in un giorno, ripromettendoci bene di non trascurar nulla per convincere gli indigeni che i nostri incontri colle truppe non erano che fortuiti e passaggeri. Ogni volta che noi eravamo raggiunti dai soldati questi ci inviavano una salva di maledizioni turche che mettevano a dura prova la mia pazienza. Un corpo d'armata che insulta una ventina di viaggiatori! Converrà ammettere che è spingere un po' lontano l'abuso della forza; solo [144] a gran fatica mi rassegnai a non rendere a quegli insolenti armati anatema per anatema. Il mio cavallo diede prova il primo giorno di quella marcia da Antiochia a Latakiè di un grado di intelligenza e di sensibilità che mi sorprese. La tappa era lunga, il tempo piovoso e la strada, scavata dalla pioggia, serpeggiava attraverso alla vallata o sul fianco dei monti. La giornata era sul finire e la stanchezza aveva rotte le nostre fila: i cavalli più deboli si erano lasciati distanziare dai più forti e coraggiosi e, quando le curve della strada nascondevano alcuni cavalieri agli sguardi dei loro compagni, quelli che erano in testa si fermavano e chiamavano ad alte grida i ritardatarii, non rimettendosi in cammino che dopo aver udito la voce o scorto la figura di ciascuno dei viaggiatori. «Kur», che non conosce nè pigrizia nè stanchezza, era come sempre il primo della fila. «Kur» è il nome del mio cavallo bianco perchè kur significa bianco in turco e quel cavallo non ha un pelo che non sia del più puro candore. Osservo di passaggio che nè turchi nè arabi fanno grandi sforzi d'imaginazione per dar nome ai loro cavalli ed ai loro cani. Quasi sempre il nome della bestia è dato dal colore del manto. Possiedo per altro un bel stallone arabo il cui nome vale: «Cavallo verde» per quanto sia grigio pomellato. È del resto un nome di razza, di famiglia e non un nome proprio. Eravamo giunti ai piedi di una montagna ripida su cui la strada tracciata colla più primitiva semplicità si lanciava verticalmente dalla base alla cima. Kur fece esattamente come la strada, per quanto lo invitassi colla voce e colla briglia a temperare i suoi ardori. Egli non mi ascoltava: ritto il capo e le orecchie, le narici dilatate, sembrava [145] ch'egli aspirasse avidamente l'emanazione inebbriante recatagli dall'aria dei monti; ai miei richiami rispondeva con un nitrito sordo, a sbalzi, fremente, ed accelerava maggiormente il passo. Quasi sulla vetta la strada aveva una piccola svolta che Kur nella sua impazienza si guardò bene dal seguire. Mirando dritto dinanzi a sè, egli raggiunse la cresta che dominava a picco l'opposto versante o piuttosto una specie di voragine incorniciata dalle grandi roccie strapiombanti all'ingiro. Con un movimento naturale ed involontario tirai la briglia, ma prima che avessi l'agio di riflettere che forse io faceva in quel momento l'ultima galoppata della mia vita, eravamo ai piedi di quelle roccie precipitando dal monte con altrettanta foga quanta ne avevamo messa a salire. Soddisfatta di questo esito scorgevo con gioia sullo stesso pendio pel quale scendevamo a precipizio il villaggio dove dovevamo pernottare ed ammiravo la forza e l'elasticità dei garretti del mio cavallo preoccupandomi solo del suo stato morale, giacchè non è necessario d'essere arabo per affezionarsi a quelle bestie così eroiche quanto miti e così miti quanto belle. Il mio povero Kur, dicevo fra di me, è divenuto pazzo; quand'ecco scorsi in mezzo alla strada che conduceva al villaggio un arabo su un bel cavallo riccamente equipaggiato, che aveva l'aria di aspettarci. Mi affrettai a balzare a terra avendo constatato che non vi era più alcuna speranza di far partire Kur in qualsiasi direzione. I due cavalli uniti da una misteriosa amicizia, che dava la spiegazione della corsa sfrenata di Kur, nitrivano, scalpitavano, facevano i salti più straordinari e si rizzavano sulle gambe posteriori agitando le anteriori come se avessero [146] accarezzato l'ambizioso disegno di stringersi la mano. Il cavaliere arabo, che era stato mandato dal capo di quella località per offrirmi la sua casa, pose termine al mio stupore narrandomi che i nostri due cavalli erano compatriotti e, fors'anche un po' consanguinei, che un pascià li aveva comprati entrambi nello stesso villaggio, ch'egli stesso aveva acquistato il suo da quel pascià e che i due amici, riconosciutisi da lontano, esprimevano a modo loro il piacere che provavano a rivedersi. Aggiunse che nulla era più normale dell'attaccamento che i cavalli arabi sentono per esseri della loro specie e che i loro sensi sono così raffinati da rivelar loro a grande distanza l'avvicinarsi di un essere amato od anche di un luogo famigliare. Pregai l'arabo di far chiudere i due cavalli nella stessa scuderia per procurare loro qualche ora di gradevole convivenza, ed egli mi promise di esaudire la mia domanda. La riunione dei due amici si prolungò più che non avessi supposto dapprima, giacchè il cattivo tempo ci obbligò a passare il giorno seguente nel villaggio e le truppe giunte qualche ora dopo di noi imitarono in ciò il nostro esempio. Passai la giornata a visitare malati. Il governatore locale, bellissimo uomo, molto ricco ed affarista poco scrupoloso, mi confessò bonariamente che riscoteva le imposte, ma non le versava al fisco. Ed alzava le spalle dicendo: «Come potrei pagarle? Non mi rimarrebbe abbastanza denaro per la mia famiglia e per me». Egli era inquieto per la sua salute soffrendo di attacchi di nervi, di una vista molto indebolita e talora anche di un tremito alle gambe. Mi condusse nel suo harem e mi presentò alle sue due spose, che mi parvero due delle più belle persone [147] ch'io avessi veduto in Asia. Erano però spudorate quanto belle e le manifestazioni erotiche che esse prodigavano al loro signore e padrone in mia presenza erano sorprendenti. Egli stesso ne parve sconcertato; ma le due signore dal viso di bronzo non erano di quelle che si turbino così facilmente. In un altro harem dello stesso villaggio potei assistere ad una scena intima molto più di mio gusto. Due giovani donne sposate da qualche anno ad un vecchio Effendi non avevano mai avuto figli, ma la terza sposa dell'Effendi era morta mettendo al mondo un piccolo infermo che passava la sua triste vita a gemere ed a piangere. Nulla di più commovente delle tenere cure colle quali le due giovani madri addottive circondavano il gracile orfanello figlio della loro rivale. Rimasi con esse qualche tempo studiando quel quadretto interessante di vita famigliare mussulmana. Il bimbo mancava di grazia e di bellezza, la sua testa troppo pesante per il suo corpo ricadeva talora sul petto e tal'altra si rigettava indietro come se dovesse scivolare lungo la sua schiena; le sue gambette gracili ed arcuate non sembravano destinate a poterlo mai reggere; eppure vi era nella sollecitudine di quelle due giovani donne per il povero orfano un misto di ingenuo e di grazioso, di pietà, d'ammirazione e di rispetto; un certo imbarazzo nel loro modo di curare quel malatino mostrava esaurientemente che esse non avevano mai dedicato tali cure ad un figlio delle proprie viscere. Così, assorte in un compito nuovo e delicato, quelle donne erano certo felici, più felici che molte gran signore di Costantinopoli.

Partimmo all'indomani, sfidando le minaccie del tempo e le truppe turche fecero altrettanto. La [148] strada si allontanava sempre più dalla riva del mare ed errava traverso a valli, gole e montagne. Il paese era magnifico, tutto fresco e verde e scorgevo ad ogni tratto deliziosi rifugi sotto i folti pergolati formati dagli arrampicanti. Come erano pure le acque che zampillavano a quelle ombre, e scorrevano con un dolce mormorio in mezzo ai prati in fiore! Come si disegnavano armoniose le linee delle montagne che si profilavano da lungi su un azzurro immacolato! Suppongo che durante l'estate infuocata della Siria questi luoghi perdono molto del loro fascino, mi figuro che questo spettacolo incantevole di freschezza, di forza e di opulenza, che questa calma serenità della natura scompaia presto e duri appena qualche tempo; ma fu appunto durante quei giorni privilegiati che attraversammo il paese e non potrò mai dimenticare le impressioni che suscitò in me.

La scena non aveva mutato l'indomani. Ci avvicinavamo a Latakiè ed al mare, che scorgevamo talora da lungi, dall'alto dei monti. Il tempo era capriccioso; a delle pioggie torrenziali di breve durata, succedevano intervalli di pace luminosa nei quali si potevano vedere le goccioline d'acqua sospese alle foglie riflettere i raggi del sole. L'arcobaleno si lanciava spesso da un monte all'altro quasi fosse un ponte gettato dagli spiriti dell'aria. Durante una di quelle brevi burrasche ci dirigevamo verso un villaggetto che sembrava invitante e dove speravamo di potere asciugare le nostre vesti e prendere un po' di cibo. Si può giudicare quale fu la nostra sorpresa quando, avvicinatici al villaggio, ci scontrammo nelle donne, nei bimbi, negli stessi uomini che escivano dalle case carichi di tutto ciò che potevano trasportare, sacchi [149] di grano e di farina, provviste di ogni genere, materassa, coperte, spingendo pure innanzi a sè mucche, capre, galline e tacchini. Quella popolazione terrorizzata correva verso il monte con tutti i sintomi dello spavento e del dolore. Accelerammo il passo colla speranza di raggiungerli, ma man mano che noi ci affrettavamo essi facevano altrettanto sicchè presto li ebbimo perduti di vista. Al nostro arrivo nel villaggio abbandonato, non trovammo che una vecchia donna e due ragazzetti che, non so per qual motivo, non avevano seguito gli altri. Domandammo loro latte e uova offrendo di pagare ciò che avremmo consumato ed essi ne parvero stupitissimi. Si guardavano in faccia e talora parevano pronti a concederci fiduciosi i viveri richiesti; ma poi si voltavano a guardare dal lato donde eravamo giunti e riprendevano a gemere e tremare. Uno dei due fanciulli si fece coraggio sino a chiederci se gli «altri» fossero ancora lontani ed incoraggiato dalla nostra risposta ci additò la causa di quel misterioso spavento. Eravamo stati scambiati per l'avanguardia del corpo d'esercito che seguiva la medesima nostra strada e gli abitanti si erano affrettati a porre ciò che possedessero al riparo dal saccheggio. Ecco qual simpatia esiste in certe provincie turche fra le truppe nazionali, cioè i difensori armati dello stato e della legge, e le popolazioni delle campagne! Ne fui tanto più confermata nel mio proposito di rimanere durante tutta la durata del mio viaggio all'infuori dalle autorità regolari e dai loro rappresentanti armati. Cominciai già quel giorno a raccogliere i frutti della mia saggezza. Quella buona gente era così contenta di non aver a che fare se non con stranieri col denaro alla mano [150] che frugò nei nascondigli e ci offerse tutto quello che i fuggiaschi non avevano potuto portar via... Poi, mentre uno dei ragazzi andava ad avvertire i suoi amici che non dovevano temer nulla dai loro ospiti, l'altro giovanetto e la vecchia ci raccontarono la triste storia di tutti i saccheggi di cui erano stati vittime quegli abitanti. Questa parte della Siria è stata il teatro di molte battaglie fra turchi ed egiziani, e dopo che è ritornata in potere della Porta perdura la guerra civile fra i turchi e le tribù bellicose delle montagne. I poveri contadini che lavorano i campi, senza parteggiare nè per gli uni nè per gli altri, sono malmenati da tutti. Nessuno li teme nè ha interesse a risparmiarli, o per lo meno quest'interesse che non è diretto ed immediato non potrebbe essere valutato in Asia. La stessa loro povertà non li mette al riparo dal saccheggio perchè fin che uno vive evidentemente possiede qualche cosa che può essergli tolta. La schiera dei fuggiaschi rientrava nel villaggio quando noi ne uscivamo e tutti ci salutarono augurandoci buon viaggio con cordialità e buon umore. Se ci fossimo imbrancati colle truppe turche, quel giorno non avremmo fatto colazione.

Era destino per altro che dovessimo finire tristemente la giornata. I nostri bagagli ed una parte della nostra gente, la cui marcia era meno rapida della nostra, ci avevano preceduti, dandoci convegno per la notte in un piccolo villaggio turcomano a quattro ore da Latakiè. Il nome di questo villaggio mi sfugge; ma il guajo fu che non ce ne ricordammo più appunto quel giorno. La strada si stendeva allora lungo la linea delle colline sabbiose che fiancheggiano il mare, e noi scorgevamo [151] da tutte le parti villaggi ed accampamenti fra i quali dovevamo scegliere. Cadeva la sera e, nella nostra incertezza, continuavamo a camminare. Finimmo per renderci conto che avevamo oltrepassato la nostra meta. Ci convenne di ritornare sui nostri passi e, avendo scorto a breve distanza un accampamento di turcomani, lo raggiungemmo per cercare di scoprire che fosse accaduto dei nostri bagagli e della loro scorta.

Un bimbo che rincasava col suo gregge ci assicurò di aver inteso dire che in un dato villaggio si erano alloggiati mulattieri spettanti ad una carovana di viaggiatori. A stento consentì con una mancia anticipata a farci da guida. Lo seguimmo per più di un'ora, ormai in piena notte, mentre la stanchezza mi opprimeva. D'un tratto il fanciullo fuggì dopo averci additato alcuni fuochi lontani che annunciavano un villaggio ove, asseriva, avremmo trovato quanto cercavamo. Sebbene questi presagi non fossero favorevoli, ad un'ora così avanzata della notte non ci rimaneva altro da fare che di recarci là ove ci aveva indirizzato il ragazzo e doveva evidentemente sorgere un villaggio, per aspettarvi l'alba anche senza bagagli. Ci toccò infatti di trascorrere in tali condizioni quelle ore notturne.

Le notti passate così sono orribili. Viaggiando in Oriente, non si porta con sè nulla di superfluo, un materasso, qualche oggetto per ripulirsi, un po' di zucchero, di riso e di caffè, non altro; ci si riduce allo stretto necessario e si riesce a contentarsi. Ma più sono semplici questi preparativi tanto più gravoso è il rinunciare anche ad essi. E cosa vi si offre in aggiunta, supponendo che i vostri ospiti sieno buona gente disposta ad offrirvi [152] qualcosa? Come materassa avete una coperta imbottita che si piega in due e nell'interno della quale siete invitata a stendervi come tra i fogli di un libro. Il pasto consiste di solito in un piatto di riso cotto nell'acqua e condito con un burro Dio sa di quale data. Nelle case ben montate vi servono dei cucchiaj di legno utilissimi per mangiare; nelle piccole case vi si lascia la scelta o di prendere il riso colle dita o di fabbricarvi voi stessi sul posto dei piccoli recipienti con un pezzo di pane. E bisogna ancora spiegare che il pane d'Asia non assomiglia affatto a quello d'Europa. Si mescola della farina d'orzo coll'acqua senza impastarla, poi con un cilindro la si stende su di un asse lasciandole lo spessore di un grosso quaderno di carta; si posa quindi la miscela su un largo coperchio di casseruola o di marmitta che si avvicina al fuoco. Quando vi è rimasta due o tre minuti, il pane è fatto. Questo pane che è molle come il cotone deve servirvi da tovaglia, anzi da piatto, da tovagliolo per asciugarvi le dita e per involgervi le provviste dell'indomani; infine ne fate dei cornetti per riempirli di riso o di qualche altra miscela poco solida e portarti alla bocca nel modo più pulito possibile. Talora vi è servito anche un po' di latte agro e cagliato. Ormai mi ci sono avvezza, ma a quell'epoca del mio soggiorno nel Levante non lo potevo tollerare. Quanto al caffè, non solo è servito senza zucchero, ma è di regola che metà della tazza sia occupata dal fondo. Al momento di porgerlo è scosso in modo che il fondo sale alla superficie e si mescola a tutto il liquido.

Un'altra causa d'imbarazzo per il viaggiatore rimasto senza bagagli consiste in ciò che i pettini [153] e le spazzole sono oggetti completamente sconosciuti nelle campagne dell'Oriente. Fra i piccoli inconvenienti che chiedo scusa di enumerare aggiungo l'impossibilità di versare l'acqua in una catinella per lavarsi il viso e le mani. I catini orientali sono, per solito, in ferro smaltato od in rame ed il fondo ne è composto da un leggero reticolato attraverso al quale l'acqua scorre man mano che è versata, in un secondo sudicissimo bacino dello stesso metallo. Gli orientali tengono le loro mani sopra i fori del primo catino mentre un servo versa loro l'acqua che si raccoglie poi nel catino inferiore. Mentre hanno le mani bagnate in tal guisa se le passano sul viso e sulla barba e le loro abluzioni sono terminate. Imperfette come sono queste abluzioni sono però ripetute parecchie volte in un giorno. Vedete a quali noie si espone il viaggiatore europeo che faccia troppo a fidanza coi mezzi dell'ospitalità orientale; mi basta di averle indicate senza insistere troppo. Aggiungerò solo un particolare. Guai a chi visiti alcune parti del Levante senza aver provvisto all'illuminazione. Nei villaggi ed anche nelle piccole città, candele e candellieri sono sconosciuti. Vi si bruciano scheggie di un legno resinoso che dà una luce molto viva, ma ancor più fumo che luce. Si tengono in mano questi bastoncelli accesi a rischio di spargere la resina infiammata su tutti gli oggetti circonvicini e spesso sulle proprie dita, senza parlare del pericolo che possono correre la casa e gli ospiti.

Appena alzato il sole ci rimettemmo in cammino. Dovevamo arrivare prima della fine del giorno a Latakiè. Non era ancora mezzogiorno quando incontrammo, a poca distanza dalla città, [154] una cavalcata composta dei principali abitanti che veniva, secondo l'uso, a darci il benvenuto e ad accompagnarci alla casa del console inglese dal quale eravamo attesi ed ove ritrovammo bagagli e scorta. La casa e la famiglia del console inglese di Latakiè dovrebbero essere additate a tutti gli stranieri come il tipo più attraente delle case e delle famiglie arabe. Ogni cosa vi è assolutamente nazionale, vale a dire propria dell'Oriente, e nondimeno è difficile l'immaginare alcunchè di più elegante che questa casa e di più rispettabile e grazioso della famiglia che vi abita.

L'uso di far comunicare gli appartamenti gli uni cogli altri è sconosciuto nell'Oriente arabo; la corte ricollega fra loro tutte le stanze di una casa che bastano a loro stesse. Quante sono le camere del primo piano, altrettante le scale che terminano tutte nella corte. Non si economizza certo così nè lo spazio nè i materiali nè la mano d'opera, tutte cose che non costano care nel Levante, e del resto così si usa. Si entra nella casa del console inglese di Latakiè da una piccola porta bassa che si apre da un lato sulla strada e dall'altro su un andito stretto e scuro che conduce alla corte. Questa ha un pavimento di lastroni di marmo ed è circondata dai vari corpi di fabbrica. Quello in fondo contiene la sala comune, ove si giunge da una scala esterna in due rami come le scalinate d'accesso alle nostre case di campagna. Il salotto è grande, rischiarato da sette finestre che danno sui giardini e mobiliato da un divano che si stende lungo tutte le pareti sotto le finestre; parecchi altri sofà più piccoli sono addossati al muro. Tutti i mobili sono coperti di seta verde, le tende delle finestre sono della stessa stoffa, il pavimento di [155] legno è risplendente di nettezza, un lampadario sospeso in mezzo alla stanza ne completa l'addobbo. In faccia a questo corpo di fabbrica sorge la sala da pranzo, vasto locale a pianterreno che non ha aperture fuor che sulla corte e che ha in giro un rialzo riempito da file di piastrelle e da divani. I due fabbricati laterali contengono le camere da letto, gli uffici, la credenza ecc. La mia camera era collocata in alto d'una scala scoperta che dava sui giardini, trovandosi allo stesso livello delle terrazze che costituiscono i tetti delle case orientali e sulle quali, nella stagione calda, si trasportano i letti. Il console era un giovane arabo di Latakiè che parlava benissimo l'italiano ed aveva tutte le belle maniere di un vero gentiluomo inglese. Mite, intelligente ed attivo, egli esercitava un'influenza abbastanza grande sui Drusi come pure sui Fellah e gli Ansariati dei dintorni e non adoperava questa influenza che per calmare le passioni violente di quelle schiatte, per mantenere o ricondurre la pace fra esse ed il governo. Il giorno stesso del mio arrivo - non precedevo che di alcune ore le truppe ottomane - egli aveva ricevuto una lettera del capo della tribù ribelle, che si diceva pronto a trattare coll'amministrazione imperiale sulla base delle condizioni che il console avesse giudicato opportuno di proporgli. Il giovine mediatore era felice del suo successo nell'interesse del paese e della pace in primo luogo, e poi anche perchè sperava di acquistare un merito a Costantinopoli.

Sebbene molto giovane, il console era marito in seconde nozze di una vedova che sembrava escita allora dall'infanzia. Questa bella giovane indossava il grazioso costume delle donne della Siria che fa davvero onore al loro gusto squisito. Una [156] veste di seta di color chiaro, rosa, celeste, viola, verde tenero, all'incirca del taglio d'una veste da camera per uomo, aperta sul davanti ed ai lati, lascia il petto quasi completamente scoperto. Questo abito scende fino alla caviglia ed ha una coda che però quelle signore rialzano generalmente attaccandola con una spilla; poi esse risvoltano i due pezzi anteriori e li attaccano parimenti con spille sulla parte già rialzata. Larghi pantaloni rigonfi stretti alla caviglia mostrano le loro pieghe di seta attraverso l'abito aperto in vari punti. Una larga sciarpa di stoffa indiana o di broccato ricinge la vita al disotto del seno che è appena velato da una camiciola di garza di seta con lunghe maniche pendenti. Una bustina molto attillata ricamata con oro e perle e aperta sul petto come la veste da camera completa l'acconciatura. Le treccie scendono tanto in basso quanto lo consentono la natura o l'arte. La testa è coperta da un fez adorno di perle. Ecco per l'insieme del costume, ma che dire degli accessori? Chi ha mai fatto il conto delle migliaja di bottoncini, dei metri di passamanteria e di cordoncino che ornano la veste da camera, i pantaloni e la camiciola? Delle catene, delle spille, dei fermagli e dei braccialetti accumulati su quelle braccia, sul petto e sul collo di cigno di quelle signore? Anche il fez che serve da copricapo è ornato in cento modi curiosi. Il fazzoletto di seta di Damasco o d'Aleppo annodato intorno al fez ricade senza pretesa sulla spalla sinistra; molti nastri si intrecciano sul fazzoletto frammisti a pizzi. Fez, fazzoletto, nastri e merletti non costituiscono del resto che la simpatica intelaiatura di quell'opera d'arte: su di essa si colloca tutta un'aiuola di fiori naturali, che occorre rinnovare ad ogni momento. Un [157] mazzo di rose ricade sull'orecchio, un ramo di fior d'arancio accarezza la guancia, gelsomini, garofani, fiori di melagrano si stendono come un diadema sulla fronte e ciascuno di questi fiori è fissato sul fazzoletto da spilloni di diamanti di stile orientale che arieggiano pure del fiori e delle farfalle. Le signore Siriane sembrano aver accolto il principio che non si ha mai troppo delle cose buone e che i giojelli sono una cosa ottima. Immaginate ora, sotto una simile acconciatura, delle donne di statura alta e slanciata sebbene di curve perfette, con grandi occhi neri straordinariamente scintillanti, un colorito che avrebbe destato l'ammirazione del Tiziano, lineamenti fini, delicati e regolari e un'espressione sempre atteggiata al più grazioso sorriso: avrete allora un'immagine esatta della bellezza siriaca. Dal canto mio ho veduto tipi di bellezza più notevoli, ma ben raramente di più seducenti. Per dir tutto nondimeno soggiungerò che le usanze europee, così poco note e così mal viste nel Levante, minacciano di farvi breccia colla moda femminile che è forse il solo lato del mondo mussulmano che converrebbe rispettare. Le signore d'Aleppo cominciano ad abbandonare la veste da camera e la coda per adottare la gonna rotonda dell'Occidente, i broccati ed i rasi d'Aleppo e di Damasco per le stoffe di Lione e, ciò è molto peggio, i tessuti dell'India, della Persia e del Thibet per il cachemir imitato in Francia.

Latakiè è una cittadina fabbricata meglio delle città dell'Asia Minore; l'architettura esteriore delle abitazioni non ha nulla di degno di nota; ma le case vi hanno l'aria di case e non di capanne rovinate. I marciapiedi sono così alti e le strade così sporche nel mezzo che il solo modo di traversarle [158] senza infangarsi fino al ginocchio, consiste nel saltare da un marciapiede all'altro, ciò che rende il passeggiare nella città di Latakiè alquanto faticoso. Mi recai a visitare un arco di trionfo antico attribuito a Vespasiano; ma questo monumento assai degradato non era forse di una grande bellezza anche quando era intatto. Ne fui poco soddisfatta. Preferivo a quelle rovine insignificanti i boschi di aranci, di ulivi e di fichi che circondano la città ed i palmizi solitari che sorgono qua e là nella campagna impregnandola a distanza del loro profumo.

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