LIBRO SESTO

SOMMARIO

Pratiche per la pace tenute in Basilea. Sono infruttuose, e perchè. Si prepara da ambe le parti la guerra d'Italia. Beaulieu surrogato a Devins nel comando dei confederati, e perchè. Instanze del Direttorio di Francia presso ai Veneziani, perchè facciano uscire dai loro stati il conte di Lilla: debolezza del senato Veneziano. Nobile condotta del conte in sì doloroso accidente. Buonaparte surrogato a Scherer nel comando dei repubblicani, e perchè: sue qualità. Situazioni delle sue genti. Sono giunti i tempi fatali, e s'incominciano le ostilità. Battaglia di Montenotte seguìta addì dieci, undici, e dodici aprile del 1796. Buonaparte separa gli Austriaci dai Piemontesi. Fatto di Cosserìa. Furiosissima battaglia di Magliani, che i Francesi chiamano di Millesimo e che fu combattuta il dì tredici aprile. Bellissimo fatto d'armi del colonnello austriaco Wukassovich al Dego. Generosi lamenti di alcuni generali, e capi di truppa Francese sugli eccessi commessi dai loro soldati. Buonaparte si volta contro i Piemontesi. Varj fatti d'arme, specialmente quello di Mondovì. Il generale repubblicano stimola i novatori del Piemonte: sommossa d'Alba. Buonaparte arriva a Cherasco: Colli, generale del re, si ritira a Carignano. Discussioni nel consiglio regio. Tregua di Cherasco. Bando grandiloquo di Buonaparte a' suoi soldati. Pace tra il re di Sardegna, e la repubblica di Francia, conclusa a Parigi il dì quindici maggio del 1796. Buonaparte perseguita Beaulieu, lo inganna, e passa il Po a Piacenza. Battaglie di Fombio e di Codogno. Battaglia sanguinosissima del ponte di Lodi, accaduta addì dieci di maggio. Beaulieu si ritira al Mincio. L'arciduca lascia Milano. Qualità dei Milanesi. Massena entra il primo in Milano, poi Buonaparte. Umori diversi di detta città. Discorsi di Buonaparte. Suo secondo bando grandiloquo ai soldati. Terrori d'Italia.

A questo tempo avendo i collegati pruovato con molto danno loro qual dura impresa fosse l'affrontarsi con quegli audaci repubblicani di Francia, si consigliarono di voler dimostrare inclinazione alla concordia, e porre avanti alcune proposizioni d'accordo, sì per avere più giustificata cagione di continuar a combattere, se i repubblicani ricusassero, e sì per aver comodità di respirare e di aspettare il benefizio del tempo, se accettassero; e poichè la guerra era divenuta tanto pericolosa, si risolvettero a sperimentare, se la pace apportasse condizioni di maggior sicurezza. Per la qual cosa pensarono a tentare la disposizione del Direttorio di Francia con introdurre qualche negoziato a Basilea, città neutrale, e già famosa per le due paci di Prussia e di Spagna. Siccome poi l'Inghilterra era l'anima di tutta la mole, così da questa, ed a nome di tutti procedettero le profferte. Scriveva il dì 8 marzo Wickam, ministro d'Inghilterra appresso ai Cantoni Svizzeri, a Barthelemi ministro di Francia, ch'egli aveva comandamento di fargli a sapere, che la sua corte desiderava di restare informata, se la Francia aveva inclinazione a negoziare con Sua Maestà e co' suoi alleati, a fine di venirne ad una pace generale stipulata con giusti e convenienti termini: se a ciò si risolvesse la Francia mandasse ministri ad un congresso da convocarsi in quel luogo, che più sarebbe stimato conveniente da ambe le parti. Desiderava altresì sapere, quali fossero i generali fondamenti della concordia che piacesse al Direttorio di proporre, affinchè si potesse esaminare, se fossero accettabili, o finalmente, se i mezzi proposti non fossero accettati, quali altri avesse a proporre per trovare qualche modo d'onesta composizione. Questa proposta, la qual'era del tutto conforme ai modi soliti a usarsi fra i principi, e che non avea in se cosa, che potesse offendere l'animo del Direttorio fu molto risentitamente udita da lui, e diede principio a quel costume dottorale e loquace di quei governi repubblicani ed imperiali di Francia, di voler insegnare in casa altrui, come se meglio non conoscesse i fatti proprj chi gli governa, di chi non gli governa. Quindi nacque altresì quell'uso affatto insolito di dar consigli, o ad un amico, o ad un nemico e di convertire in cagione di guerra il rifiuto di seguitarli; uso veramente enorme, perchè fa giudice della causa una sola delle parti, rende dubbiosa la giustizia, mette la parte contraria nella necessità di vincere o di perire, ed opera che la guerra dipenda in tutto dal capriccio, e dall'ambizione di un solo. Il Direttorio comandava a Barthelemi, che rispondesse, desiderare lui la pace, ma desiderarla giusta, onorevole e ferma; avrebbe udito volentieri le proposte, se quel dire di Wickam di non aver autorità di negoziare non desse sospetto intorno alla sincerità Inglese. Infatti, se incominciasse l'Inghilterra, quest'erano le parole dottorali del Direttorio, a conoscere i veri interessi suoi, se bramasse aprirsi di nuovo la strada all'abbondanza ed alla prosperità, se con buona fede richiedesse di pace, a che fine, con quale consiglio proporre un congresso, mezzo non mai terminabile d'accordo? Perchè con termini tanto generali e sì poco definiti, domandare alla Francia, proponesse ella un altro modo per arrivare alla concordia? Non mostrar con questo, voler solo il governo Inglese con queste prime offerte, acquistar per se quel favore, che sempre accompagna chi primo mette fuori quelle gioconde parole di pace? La speranza che abbiano ad essere senza frutto, non vedersi forse mescolata con loro? Ma quale di questo fosse la verità, convenirsi alla sincerità del Direttorio il palesare apertamente, a' quali patti ei potrebbe consentire agli accordi; vietare la constituzione della repubblica, che niun paese di quelli, che erano stati incorporati al suo territorio, da lui si scorporasse; delle altre conquiste si negozierebbe. Quì parimente ebbe principio quel metodo veramente incomportabile, usato dai governi che per vent'anni l'uno all'altro succedettero in Francia, di volere, che una legge politica interna diventasse legge politica esterna, ed obbligatoria pei forestieri.

Rispose l'Inghilterra, anche a nome di tutti i confederati, non poter consentire ad una condizione tanto insolita, nè altro mezzo restare se non quello di continuare in una giusta e necessaria guerra. Così non si seguitò più questo ragionamento, e svanirono le speranze di pace concette dalle profferte di Basilea. Diedene l'Inghilterra avviso a tutte le potenze confederate, coi soliti conforti dei sussidj pecuniarj, e col far vedere che ove la pace era impossibile, si rendeva necessario l'usar la guerra, con tutti gli sforzi, che maggiori si potessero fare. Ognuno aveva gli occhi volti al re di Sardegna, il quale già perduto mezzo lo stato, e prostrate le difese del restante, si vedeva vicino ad esser prima condotto all'ultima rovina, che la guerra incominciasse pure a romoreggiare su i confini dei suoi alleati. Conoscevano questi la costanza del re, ma dubitavano che nel prossimo urto dell'armi, se le battaglie fossero riuscite infelicemente, ed i repubblicani si facessero strada nel cuore del Piemonte, si sarebbe forse alienato da loro, sperando di ricompensare con gli ajuti di Francia, a danno ed a pregiudizio di alcuno fra i confederati, quello che non ostante gli ajuti loro aveva perduto. Tentarono adunque il re ammonendolo, che si dichiarasse, quali sarebbero i suoi pensieri, se per un sinistro di guerra, i Francesi irrompessero nelle pianure Piemontesi. Ridotto a queste strette, rispose animosamente Vittorio, mandando anche in questo proposito lettere circolari a tutti i principi che correrebbe con loro la medesima fortuna, che persisterebbe nella fede, che non sarebbe per abbandonare la sua congiunzione; non dubitassero, che i fatti non fossero per corrispondere alla prontezza dell'animo.

L'Austria intanto, veduto che i tempi estremi erano giunti per lei in Italia, mandava a governare le genti, in vece del Devins più prudente che ardito capitano, ed anche scemato di reputazione per le recenti sconfitte, il generale Beaulieu, il quale quantunque già molt'oltre con gli anni, era animoso, vivace, ed abile per questo di stare a fronte a quella furia Francese, che meglio si può vincere col prevenirla, che coll'aspettarla. Nè mancava in lui la esperienza dei fatti di guerra, essendosi già molto esercitato, nè senza gloria, nelle guerre di Fiandra. Ma quantunque fossero in Beaulieu le qualità più necessarie in un buon capitano, mancava in lui la cognizione dei luoghi, non avendo mai guerreggiato in Italia, nè portò con se tante forze, quante gli erano state promesse; perchè i sussidj Austriaci in Piemonte, quando prima in quest'anno s'incominciò a menar le mani, ascendevano forse a trenta mila, ma certamente non passavano quaranta mila soldati, numero non sufficiente a difendere, non che ad offendere. Del qual fatto quale ne sia stata la cagione, o lentezza o necessità, certo è bene, che l'opera non fu eguale al pericolo. Oltre a ciò, sebbene a Beaulieu, quando fu chiamato generalissimo dei Tedeschi in Italia, fosse stato promesso che sarebbe rivocato Argenteau, che per difetto o d'animo o di mente, era stato cagione d'infelici eventi nella riviera di Genova, nondimeno l'aveva trovato ancora, non senza sdegno, non solo presente all'esercito, ma ancora rettore di una forte divisione di soldati: il che a lui, che era consideratore delle cose future, diede sinistro presagio, parendogli, che a volere che i soldati vincano, importi il prepor loro capitani vincitori. Nè Beaulieu medesimo era tale, che potesse convenientemente governare capitani, e genti di diverse lingue e di diverse nazioni, tenendo più del guerriero che del cortigiano, per guisa che più temuto che amato dai suoi e dai forestieri, era piuttosto obbedito per forza, che per volontà. Nè i nobili Piemontesi, che sentivano molto altamente di loro medesimi, lo avevano a grado. S'aggiunse a tutto questo, che sebbene si fosse ordinato che i Piemontesi dovessero in tutto accordarsi, e cooperare con gli Austriaci, e questi coi Piemontesi, tuttavia l'esercito regio non obbediva a Beaulieu, ma era retto sovranamente da Colli, al quale non mancava nè perizia, nè virtù militare, ma non viveva concorde col capitano Austriaco. Questo fu cagione, che, contuttochè i due generali operassero di concerto, nei partiti dubbj però, dove aveva gran parte la propria opinione, l'uno non secondava l'altro, nè l'altro l'uno, quanto la gravità del caso avrebbe richiesto. Con queste mancanze, mali umori, e semi di debole concordia, s'incominciò, dalla parte dei confederati, una guerra gravissima, nella quale si proponevano, deposte oramai le speranze di fare impressione in Francia, come falsamente si erano persuasi, di far di modo che almeno l'Italia si preservasse dalla inondazione Francese. Erano per tale guisa ordinati i confederati, che la loro ala sinistra, partendo dalla Scrivia nella vicinanza di Serravalle, si distendeva sino alla destra sponda della Bormida. Quivi incominciava ad aver le stanze il corno sinistro dei Piemontesi, che traversando quelle montagne, si sprolungava fino alla Stura, con assicurare Ceva e Mondovì con grossi presidj, e con appoggiarsi coll'estremità del corno destro alla forte città di Cuneo. Le genti più leggieri munivano i passi più alti delle montagne, ed un campo era stato fatto con forti trincee, ed in luogo eminente verso Lesegno per la sicurezza del forte di Ceva. Ma siccome quello di cui stavano in maggior gelosìa gli Austriaci, erano le possessioni loro in Lombardìa, così si erano molto ingrossati nei contorni di Alessandria e di Tortona, e verso l'estremo corno loro, occupando per tal modo con molte forze le due strade che da Genova accennano al Milanese, una per Novi, l'altra per Bobbio. Avrebbero desiderato per maggior sicurezza delle cose loro avere in mano la fortezza di Tortona, e ne fecero anche richiesta; ma ciò fu loro con la solita costanza dinegato dal re, il quale ancorchè posto nell'ultima necessità, volle non ostante, quanto potè, in propria balìa conservarsi. Tal era adunque la condizione dei tempi, che il re di Sardegna combatteva per la salute sua, e ne andava tutto lo stato, l'imperador d'Alemagna per le sue possessioni del Milanese e del Mantovano, il re di Napoli per la preservazione d'Italia, il papa per l'autorità della santa sede, e per l'incolumità della religione; Venezia sperava nella neutralità senz'armi, Genova nella neutralità con armi, Toscana nella consanguinità coll'Austria e nell'amicizia colla Francia, Parma e Modena nè in pace nè in guerra, dipendevano in tutto dagli accidenti.

Risoluzione principalissima dei reggitori Francesi era di far potente impresa per invadere l'Italia, ed a questo fine indirizzavano tutti i pensieri loro. A questo si muovevano non solo pel desiderio di pascere l'esercito in un paese ricco, ed ancora intatto, ma eziandio per la speranza, che alla fama di un tanto fatto, e per lo scompiglio che ne sarebbe nato tanto in Italia quanto in Germania, si sarebbero manifestati a favor loro in tutte, od in alcune corti d'Europa cambiamenti d'importanza. Più special fine loro in tutto questo era di costringere l'imperatore alla pace, per facilitar la quale speravano di trovare in Italia per la forza dell'armi compensi ad offerire a quel principe in iscambio dei Paesi Bassi, che ad ogni modo volevano conservare incorporati alla Francia; imperciocchè si avvedevano, che, ove fosse la casa d'Austria, tanto nobile e tanto potente, sforzata alla pace con la repubblica, non solo i potentati minori, ma anche i più grossi sarebbero facilmente venuti ancor essi agli accordi. A questo primario disegno subordinavano tutti i pensieri e tutte le risoluzioni loro: del modo o fosse di forza o fosse di fraude, non si curavano. Al che se avessero posto mente le repubbliche di Genova e di Venezia, non avrebbero aspettato gli estremi casi per fare risoluzioni forti in salute loro. Venezia particolarmente pericolava, siccome contigua agli stati dell'imperatore; perchè, se si voleva dar il Milanese al re di Sardegna per farlo correre contro l'Austria, si volevano anche dare tutti o parte degli stati Veneziani all'imperatore per farlo risolvere agli accordi. Di ciò non dubbj segni ebbero, molto innanzi che la cosa si manifestasse coll'ultimo precipizio, i ministri di Venezia in Basilea, in Vienna ed in Parigi, e ne avvisarono il governo. Parlava per verità il governo Francese, parlavano i suoi agenti per ambagi, e con parole tronche, ma non sì che la volontà nemica non vi comparisse dentro chiaramente, e molto ancora più chiaramente il medesimo disegno si vedeva spiegato nelle gazzette Parigine, che più dipendevano dal governo. Siccome poi, quando si vuol perdere qualcheduno, e' s'incomincia a fargli proposte disonorevoli, per la speranza di rifiuto, pretesto di ostilità, così uscirono con richiedere Venezia, che scacciasse da' suoi stati il conte di Lilla, il quale sotto tutela del diritto delle genti, e sotto quella ancor più sacra dell'infortunio, se ne riposava solitariamente a Verona. Poco importava al governo repubblicano di Francia, che il conte se ne stesse negli stati Veneziani, che anzi gl'importava che vi stesse piuttosto che altrove; perchè se era pericoloso per quel governo che dimorasse in paese non solamente neutrale, ma ancora alieno dal tentar novità in favore di lui, assai più pericoloso sarebbe stato, se si fosse condotto od all'esercito del principe di Condè, o negli stati delle potenze in guerra con la Francia. Ma la domanda di farlo uscire era appicco di querela, non testimonio di timore. Quantunque il conte di Lilla, dopo la morte di Luigi decimosettimo, avesse assunto la dignità reale, e fosse in grado di re tenuto dai fuorusciti Francesi, dal ministro di Spagna Lascasas, dal ministro di Russia Mardinof, e dal ministro d'Inghilterra Macarteney, che appresso a lui era stato mandato appositamente dal re Giorgio, il senato Veneziano non l'aveva mai riconosciuto pubblicamente nè trattato da re. Che anzi interpose ogni diligenza, perchè, mentre sul territorio della repubblica dimorasse, non usasse apertamente atti, che l'autorità sovrana dinotassero. Al che il conte rispose con nobile condiscendenza, vivendosene assai ritiratamente in una villa del conte di Gazola: nel qual contegno tanto egli abbondava, che nè pubblicò con le stampe della Veneta repubblica, nè datò di Verona il manifesto che fece, nella sua esaltazione, alla nazione Francese; che se poi nelle sue azioni segrete, ed in privato teneva pratiche, che certo teneva, per ricuperare l'antico seggio de' suoi maggiori, non si vede come ciò si potesse imputare alla repubblica di Venezia.

Gran maraviglia farebbe in questo caso, se non si sapessero le cagioni, lo sdegno del direttorio di Francia; perchè mentre superbamente comandava al senato Veneziano, che allontanasse da' suoi dominj il conte di Lilla, sopportava molto pazientemente, che l'ambasciador di Spagna Lascasas riconoscesse il conte come re di Francia, e con lui come col re di Francia, di affari pubblici trattasse; il che era di ben altra importanza, che il dare ricovero ad un principe infelice e perseguitato. Ma la Spagna era più potente di Venezia, nè si poteva dar in preda a nissuno in compenso di stati rapiti. Scriveva il primo marzo in nome e per ordine del direttorio il ministro degli affari esteri Carlo Delacroix al nobile Querini in Parigi, che poichè Luigi Stanislao Saverio non aveva dubitato di operare in qualità di re di Francia sul territorio della repubblica di Venezia, si era reso indegno dell'asilo concedutogli dalla umanità del senato: richiedeva pertanto, e domandava, fossene privato, e gli si desse bando da tutti i territorj Veneziani; non esser questo, aggiungeva, caso di neutralità: la neutralità potersi osservare fra potenze reali ed armate, non fra un re immaginario ed una repubblica felicemente stabilita, che può, che sa, se ho a dirla con lo stilaccio di quei tempi, spiegare una energìa, e delle forze reali per farsi rispettare. Nel che si può notare, che non si vede, che cosa importasse l'avere energìa e forze grandi, al punto della quistione, di cui quì si trattava.

Ma tornando al nostro proposito, essendo posto in senato il partito, se dovesse la repubblica adempiere la richiesta del governo Francese, ancorachè il procurator Pesaro generosamente contrastasse, ricordando con parole gravissime alla repubblica la bruttezza del fatto, e l'antica generosità di Venezia, fu vinto con centocinquanta sei voti favorevoli, e quarantasette contrarj. Orarono in questo fatto contro la opinione del Pesaro i savj del consiglio Alessandro Marcello, Niccolò Foscarini, e Pietro Zeno, rappresentando, che la pietà verso un principe forestiero non doveva più operare negli animi dei padri, che la carità verso la patria. Brutta certamente e vituperosa deliberazione del senato fu questa, nè ad alcun modo scusabile, e tanto meno quanto si vedeva chiaramente, che il vituperio non avrebbe bastato a partorir salute; nè varrebbe a diminuire la vergogna l'esempio di Luigi decimoquinto re di Francia, il quale stretto di nissuna necessità, non abborrì dal bandire, a petizione dell'Inghilterra, da' suoi stati il principe Edoardo Pretendente; perchè i re possono bene dare col loro esempio maggior forza all'onesto, ma non onestare il disonesto; imperciocchè se gli uomini non sono fiere, ma uomini, havvi fra di loro una legge del giusto e dell'onesto, anteriore e divina, cui nè la forza, nè i capricci dei potenti possono invalidare; e se i contemporanei gli adulano, i posteri gli notano d'infamia. Tanto è forte nelle umane menti la impressione di quella divina legge.

Si commise al tribunale degl'inquisitori di stato l'esecuzione del partito preso dal senato. Delegossi a far l'ufficio il segretario Giuseppe Gradenigo, ed il marchese Carlotto. Introdotti nelle stanze del conte, che per uomo a posta era stato avvisato da Venezia dal conte d'Entraigues del successo delle cose, ed al cospetto suo venuti, eseguirono quello che dalla signorìa era stato loro comandato. A tale annunzio rispose gravemente, partirebbe, ma per forza; se gli portasse intanto il libro d'Oro; cancellerebbe di sua mano il nome dei Borboni; se gli restituisse l'armatura di Enrico quarto suo glorioso avolo, data in dono alla repubblica. Nè parendogli più dignità il dimorar più lungamente in un dominio, che per debolezza obbediva ai comandamenti degli uccisori del suo fratello, se ne partiva senza dilazione, e sotto nome di conte di Grosbois si condusse all'esercito dei Francesi fuorusciti a Friburgo in Brisgovia. Innanzi però che partisse, fece mandato al ministro di Russia appresso al senato, acciocchè in vece sua cancellasse sul libro d'Oro il nome dei Borboni, e l'armatura d'Enrico in deposito ricevesse. Al tempo medesimo gli rammentava, che per la fede e l'affezione che aveva posta in lui, gli affidava quanto di più caro e di più prezioso aveva, e quest'era il ritratto del re suo fratello. Gli ricordava infine, e gli raccomandava i suoi sudditi fedeli, particolarmente il conte d'Entraigues, che nel dominio dei Veneziani rimanevano. Così partiva con tanta dignità da Verona, con quanta modestia vi era vissuto, e partendo fece un pietoso ufficio verso il re suo fratello e verso coloro, che per affezione alla sua persona ed al nome reale si erano fatti partecipi del suo esilio.

Intanto per gli uffizj fatti per ordine del senato dai ministri Veneti presso le corti d'Europa, massimamente presso l'imperatrice delle Russie, che con più caldezza degli altri procedeva in favore del conte, si acquetò il negozio del libro d'Oro, e dell'armatura d'Enrico.

Oggimai si appropinquavano le calamità d'Italia. La tirannide sotto nome di libertà, la rapina sotto nome di generosità, un concitare i poveri, ed uno spogliare i ricchi, un gridare contro la nobiltà pubblicamente, ed un adularla privatamente, un far uso degli amatori della libertà, e disprezzargli, un incitargli contro i re, ed un perseguitargli per piacere ai re, il nome di libertà usato come mezzo di potenza non come mezzo di felicità, un lodarla con parole ed un vituperarla coi fatti, le più sante cose antiche stuprate per derisione, o per ladroneccio, le più sante cose moderne fatte vili da un'orribile accompagnatura, un rubar di monti di Pietà, uno spogliar di chiese, un guastar palazzi di ricchi, un incendere casolari di poveri, ciò che la licenza militare ha di più atroce, ciò che l'inganno ha di più perfido, ciò che la prepotenza ha di più insolente, un furor Tedesco chiamato da una furia Francese, una furia Francese chiamata da un furore Tedesco conculcata hanno, e desolata in fondo la miseranda Italia tutta. Nè più si vanti ella dell'esser bella, o il giardino d'Europa, o, come la chiamavano, la terra classica delle arti; poichè tali doti, se pur vere sono, che pur troppo sono, non la fecero segno di rispetto, ma sì di preda, e di derisione. E quel che più debb'essere di rammarico, e di dolore perpetuo cagione, si è, che spiriti alti e generosi quasi innumerabili, sì d'Italia che di Francia, reputando dono inestimabile la libertà, come ella è veramente, presi alle belle parole, e dominati continuamente da una dolce illusione fantastica, ajutarono coi detti, con le scritture e coi fatti quell'inganno, che altri tendeva di proposito deliberato, col fine di soddisfare ad immense cupidità. Così la libertà, la quale altro non è che l'esecuzione puntuale di leggi civili giuste, ed uguali per tutti, diventò odiosa agli uomini Italiani a cagione delle opere ree di coloro, che si vantavano di darla, e le parole degli uomini illibati sì Francesi che Italiani, i quali la predicavano, perdettero appresso ai popoli ogni autorità; perchè eglino offesi gravemente nelle sostanze e nelle persone, e soggetti ad un'inconsueta insolenza di soldati, non sapevano purgarla da quel scelerato connubio. Certamente i governi Italiani di quei tempi non erano perfetti, ma erano almeno sopportabili per la consuetudine, e il divenivano ogni giorno di vantaggio per le riforme, che per la forza del secolo vi si andavano dai reggitori dei popoli facendo. Ma che il dominio sregolato militare sia migliore di loro, chi potrà mantenere? Dicevano alcuni, e dicono tuttavia, che da quel male doveva nascere un bene; ma io so che gli uomini non hanno tanta pazienza, e fu puranco la pazienza lunga. Così perì non solo la libertà, ma contaminossi la fama stessa di lei; e se un benigno risguardo dei cieli non ajuta l'umana generazione in Europa, temo assai, che l'esempio, e la ricordanza delle cose fatte in Italia sotto colore di libertà, siano ostacolo insuperabile alla fondazione di lei.

Era risoluzione irrevocabile del governo Francese in quest'anno di tentare le cose d'Italia, di aprirvisi l'adito forzatamente, e di correrla con eserciti vittoriosi. Erano i pensieri maturi, le vie spianate, le armi pronte, gli animi dei soldati accesi, la fame stessa, che gli tormentava sugli sterili Apennini, gli stimolava a far impeto in un paese abbondante in fatto, abbondantissimo per fama. A reggere tanta mole, poichè giusta l'opinione di quel governo, dall'esito dell'armi usate in Italia dipendeva in tutto la fortuna dell'Europea guerra, mancava un generale capace di mente, invitto d'animo, e d'audacia pari alle difficoltà che si prevedevano. Pareva, che Scherer non fosse uomo da poter sostenere peso tanto forte, quantunque il suo nome fosse chiaro per la fresca vittoria di Loano, ed il primo disegno d'invadere l'Italia frutto del suo ingegno. Fecero adunque avviso di mandare la magnifica impresa al generale Buonaparte, giovane già in nome di buon guerriero per le cose fatte a Tolone, e nella riviera. Presentendo egli per la vastità e la forza dell'animo suo quello, che fosse capace di fare, quantunque di natura superbissima ed insofferente fosse, non cessava di sollecitare, e d'infestare con tenacissima perseveranza, e con preghiere continue il direttorio, affinchè gli commettesse la condotta dell'Italiana guerra. Militavano anche a suo favore alcuni motivi segreti, che si spiegheranno in progresso, i quali, se non sarebbero piaciuti a Carnot, ed a Lareveillere-Lepeaux, quinqueviri, che gl'ignoravano, piacevano a Barras, altro quinqueviro, che sotto spezie di repubblicano forte nutriva pensieri del tutto diversi. A questo si aggiunse un matrimonio, ch'ei fece, grato a Barras, sposandosi con Giuseppina, d'età maggiore di lui, e moglie che era stata di Alessandro Beauharnais.

Adunque a Buonaparte, giovane d'ingegno smisurato, e di cupidità ardentissima di dominio, fu commessa da chi reggeva la Francia, in iscambio di Scherer, l'opera di conquistar l'Italia. Nè così tosto ei giunse al governo dell'esercito Italico, che mostrò quanto fosse nato per comandare; imperciocchè, quand'erano al campo Dumorbion, Kellerman, e Scherer, molto famigliarmente vivevano, ed alla repubblicana coi generali subalterni; ma Buonaparte, quantunque fosse più giovane di tutti, si compose in maggior dignità, e non dimesticandosi con nissuno, pareva non più il primo fra gli uguali, ma bensì il superiore fra gl'inferiori. A questo si acconciarono facilmente Massena, Augereau, e gli altri capitani di maggior grido. Quindi nacque, che i nodi dell'esercito viemaggiormente si restrinsero, furono i soldati più pazienti all'ubbidire, l'ordine più stabile, il concerto più perfetto. Si presagiva, che da una mente grande e forte dovevano partorirsi effetti straordinarj, e si augurava prospero evento al mirabile conato: nè mancavano sussidj ad operar fortemente. Era l'esercito fiorito di ben cinquantamila combattenti, poveri sì d'arnese, e penuriosi di vettovaglie, ma abbondanti di coraggio, e forti di volontà: quel lusinghevole pensiero di correre come signori l'Italia, gli rendeva ancor maggiori di loro medesimi, e già abbracciavano colle speranze la possessione di lei. Mandava il direttorio al nuovo capitano Francese quanto volesse, purchè conculcasse l'Austriaco, il separasse dal Piemontese, sforzasse Genova a dar denaro, e la fortezza di Gavi; se Genova non desse Gavi per amore lo prendesse per forza; instigasse i malevoli del Piemonte, acciocchè o generalmente, o particolarmente insorgessero contro l'autorità regia: ciò per forza, o per arte subdola; quel che segue per sete di rapina; conciossiachè mandavagli, facesse una subita correrìa contro la casa di Loreto, onde ne fosse Italia atterrita, rapite le ricchezze, ed involati i voti appesi dai fedeli in tanti secoli. Tanto era smisurata in quel governo la cupidità del rapire, e del fare d'ogni erba fascio.

Reggevano l'ala dritta, che si distendeva insino a Voltri, Laharpe con Cervoni, la battaglia Buonaparte con a dritta Massena, a sinistra Augereau, finalmente l'ala sinistra, che stava a fronte dei Piemontesi, Serrurier, congiunto con Rusca, uomo di smisurato valore, che, lasciato il queto esercizio dell'arte medica, si era molto volentieri mescolato nel fracasso dell'armi. Disegnava il generale repubblicano di far impeto contro la mezzana schiera dei confederati, acciocchè rotta che ella fosse, potesse entrar di mezzo fra gli Austriaci ed i Piemontesi: conseguito questo intento, i primi si sarebbero ritirati nell'oltre-Po, i secondi rincacciati nell'angusta pianura loro, avrebbero, come credeva, facilmente accettato gli accordi separandosi dalla confederazione dell'imperatore. A questo fine, e sapendo che grandissima gelosìa avevano gli Austriaci della loro sinistra, perchè la larga e comoda strada della Bocchetta accennava a Milano, aveva ordinato a Cervoni, occupasse con un corpo grosso Voltri. Oltre a questo fece marciare da Savona un'altra forte squadra verso la montagna di Nostra Signora dell'Acqua santa, strada che mette direttamente alla Bocchetta. Questa squadra conduceva con se molti pezzi di artiglierìe sì grosse che minute. Assai bene considerato era questo consiglio; perchè si poteva prevedere facilmente, che Beaulieu, temendo per la Lombardìa, avrebbe assottigliato la parte di mezzo per mandar gente ad ingrossar la sinistra, acciocchè fosse in grado di star forte a preservare gli stati proprj dell'imperatore. Così più facilmente si sarebbe aperto l'adito ai repubblicani all'entrar di mezzo ai confederati. Fu certamente intenzione di Buonaparte di dar gelosìa alla sinistra di Beaulieu, perchè se fosse stata diversa, non sarebbe da commendarsi; perciocchè ed indeboliva in tale modo la sua mezzana appunto verso le strade più facili, che portano a Savona: ne' Voltri era luogo da potersi tenere, perchè e pel lido e per la montagna poteva agevolmente il nemico accostarsi ad assaltarlo. Bene non si può lodare dell'aver troppo indugiato ad occupare, ed a fortificar Montenotte, che guarda la strada per al Dego, e che domina il luogo della Madonna di Savona, principal difesa dei Francesi sul mezzo loro; che se finalmente l'occupò, e vi fece qualche riparo, che non fu prima degli otto aprile, fu più tosto consiglio di Massena, che suo. Pertanto si vede che se lo stare a Voltri era opportuno, quantunque non senza grave pericolo, il non stare a Montenotte era degno di riprensione. E tanto maggior biasimo merita questa omissione del generalissimo di Francia, ch'ei sapeva che gli alleati si erano fatti molto grossi a Sassello; il che dava manifesto indizio ch'essi volessero, passando sotto Montenotte, condursi a Savona, e per tal modo tagliare in mezzo l'esercito repubblicano. La qual cosa fu chiaramente dimostrata dal successo delle cose.

Adunque erano giunti i tempi fatali per l'Italia. Beaulieu, precipitoso ed audace capitano, presentendo il disegno del nemico, poichè non si raffreddava, anzi cresceva ogni giorno il romore delle preparazioni Francesi, si era deliberato a prevenirlo. Aveva egli assembrato in Sassello una grossa schiera composta di diecimila Austriaci, e quattro mila Piemontesi, bella e fiorita gente, col pensiero di dar dentro nel mezzo della fronte francese, e dopo di averlo fracassato, riuscire a Savona; con che egli avrebbe separato il nemico in due parti, e presa tutta quella che stanziava a Voltri e nei luoghi circostanti. Obbedivano i soldati di Sassello ai generali Argenteau, e Roccavina. Non pertanto, per interrompere alle genti di Voltri la facoltà di accostarsi a tempo del conflitto in ajuto della mezza, si era risoluto ad assaltar questa terra. Il dì dieci aprile, circa le tre meridiane, givano i Tedeschi all'assalto di Voltri con sei mila fanti, e quattro bocche da fuoco, passando principalmente per Campovado, e per altre strade della montagna, mentre ducento cavalli con le artiglierìe, radendo il lido, si accostavano dall'altra parte al luogo della battaglia. Alcune navi da guerra Inglesi secondavano lo sforzo loro con ispessi tiri dal mare vicino. Non potendo i Francesi rispondere a tanti assalti, furono rotti, diventarono i Tedeschi padroni dei posti sopraeminenti a Voltri, e se avessero incominciato la battaglia più per tempo, tutta la forza Francese di Voltri, sarebbe stata o morta o presa. Ma sopraggiunse la notte, dell'oscurità della quale opportunamente valendosi i repubblicani, si ritiravano a Varaggio, ed alla Madonna di Savona.

In questo mezzo tempo Argenteau e Roccavina non erano stati a bada; anzi mossisi da Sassello assaltarono grossi ed impetuosi le trincee estemporanee fatte dai Francesi a Montenotte. Erano queste in numero di tre, ed al di sopra l'una dell'altra, la più eminente appunto era quella di Montenotte. Difendeva i Francesi la fortezza del luogo, favoriva i Tedeschi il maggior numero, gli uni e gli altri infiammava un indicibile valore: stava in mezzo, qual premio al vincitore, l'innocente Italia. Si combattè coi cannoni, coi fucili, con le spade, con le mani. Maravigliavansi i Francesi a sì feroce assalto; maravigliavansi i Tedeschi a sì lunga resistenza. Finalmente, dopo molto sangue, riuscirono questi, occultandosi in certe boscaglie, ad entrar per bella forza dentro le due trincee più basse, e se ne impadronirono. Rimaneva a conquistarsi la terza: contro di lei voltarono i Tedeschi tutto l'impeto dell'armi loro vittoriose. Quì sorse una battaglia tale, che poche di simil fatta per la virtù dimostrata dagli assalitori e dagli assaliti sono tramandate dalle storie. Incominciavano a sormontare gl'imperiali, trovandosi assai più grossi, e già sul ciglione medesimo della trincea si combatteva asprissimamente da vicino. Ma in questo forte punto il colonnello Rampon, sotto la custodia del quale era la trincea, a patto nessuno sbigottitosi a quell'orribile fracasso, che anzi tanto più infiammandosi nel suo coraggio, quanto più era grave il pericolo, animosissimamente rivoltossi a' suoi soldati, fece lor prestare quel bel giuramento, che fia eterno nelle storie, di non cedere se non morti. Il valore dei Francesi diventò più che sprezzo di morte, e con tanta pertinacia, con tanta ostinazione, con un menar di mani tanto tremendo combatterono, che ributtati furiosamente da ogni assalto i Tedeschi, sopravvenne la notte, senza che eglino potessero conquistare la trincea tanto contrastata, e tanto importante. Gli uni e gli altri sull'armi loro posando, aspettavano la luce del seguente giorno, che doveva in un nuovo conflitto definire la spaventevole contesa. Quì si vide manifestamente l'errore di Buonaparte dello aver occupato, ed affortificato troppo tardi, e male, Montenotte e, come accennammo, anche per conforto altrui, del non aver fatto diradare le boscaglie, dello aver tenute lontane da questo principal posto le altre soldatesche, per modo che non abbiano potuto venire in questo medesimo giorno in soccorso di quelle che pericolavano nelle trincee del monte. Certo se non era il valore straordinario di Rampon, si perdeva la battaglia dai Francesi, e con lei si perdevano per loro le sorti d'Italia. Ma di questi valori straordinarj è avara la spezie, nè vi si può far fondamento per anticipazione dai capitani bene avvisati e prudenti. Errò adunque in questo fatto Buonaparte, riparò l'errore Rampon: la vittoria di Montenotte, che incominciò quella mole tanto gloriosa d'imprese militari, e quel maraviglioso corso d'inaudita felicità, non al suo buon consiglio, ma al valore di un capitano inferiore deesi unicamente attribuire. Ma il generalissimo nel giorno undici, anzi nella notte stessa del dieci emendò con pari celerità ed arte l'errore commesso nel precedente: mandò a tutta fretta un rinforzo da Savona a Montenotte, il quale non solamente rinfrancò gli spiriti dei difensori della trincea, ma diede agio a Rampon di empire di soldati a destra ed a sinistra le boscaglie, che ingombravano le strade per alla trincea medesima, e per le quali dovevano di necessità passare gli Austriaci per assaltarla. Al tempo stesso comandò a Laharpe, andasse avanti con tutta l'ala dritta, e mettendosi in mezzo tra la punta dritta dell'ala sinistra degli alleati, e la punta sinistra della mezzana, snodasse minutamente l'una dall'altra quelle due parti. Per rendere vieppiù la vittoria certa, ed arrivare al fine principale di tutto il disegno, marciava egli medesimo con due forti colonne, l'una lungo le montagne della Madonna del monte, per meglio sostener Montenotte, l'altra per Altare e le Carcare, ad effetto di oltrepassar la punta della mezza, che, come abbiam detto, era governata da Argenteau, come capo, e da Roccavina, come condottiero della vanguardia, sperando per tal modo disgiungere questa parte dalla destra retta da Colli. Spuntava appena l'aurora del giorno undici, che Argenteau, senza prima aver fatto esplorare le boscaglie, iva baldanzosamente all'assalto; ma non era ancora il suo antiguardo arrivato vicino alla trincea, che venne assalito ai fianchi da una tempesta di moschetti, che procedeva dai soldati imboscati, e da una impetuosa scaglia lanciata dal ridotto. A tale sanguinoso intoppo s'arrestarono, titubarono, si disordinarono, diedero indietro le sue genti: Roccavina ferito gravemente, lasciato il campo di battaglia, andava a ricoverarsi in Acqui. Pure v'era speranza con qualche rinforzo, e dopo respiro, di ricominciar la batterìa; ma ecco arrivare infuriando dall'uno canto Buonaparte, dall'altro Laharpe con far le viste di portare la tempesta a' fianchi ed alle spalle di Argenteau. Fu allora forza ai confederati ritirarsi più che di passo per non esser posti negli estremi. Andarono a posarsi a Magliani, a Dego ed a Pareto. Beaulieu per serbarsi unito ad Argenteau, obliquò con l'estremo destro della sua ala di modo che malgrado degli sforzi di Laharpe per impedirnelo, riuscì nel suo intento. Colli, non senza una valorosa difesa, fu costretto a ritirarsi ancor esso, avvicinandosi di fianco a Ceva; il che fece riuscir ad effetto il pensiero di Buonaparte dello aver voluto separare i Piemontesi dai Tedeschi. Aggiungendo poscia celerità a celerità, nè volendo dar tempo ai confederati di rannodarsi, seguitava la vittoria calando per le rive della Bormida in guisa che sempre si metteva in mezzo fra gli Austriaci ed i Piemontesi. Morirono nella battaglia di Montenotte meglio di due migliaja di buoni soldati dalla parte dei confederati; circa tre mila tra feriti e sani vennero, come prigionieri, in poter del vincitore. Dalla parte dei repubblicani pochi furono i prigionieri, molti i feriti, più di un miliajo incontrarono la morte. Ma perchè quello che avevano i repubblicani conseguito, cioè la separazione degl'imperiali dai regj, non venisse loro guasto per una nuova riunione, il che poteva venir fatto finchè i confederati stavano più su nella valle della sinistra Bormida a Millesimo, che nella valle della Bormida destra, dove stanziavano a Dego ed a Magliani, era necessario cacciargli più sotto nella prima. Quindi nacque pei Francesi la necessità di dar l'assalto al posto di Magliani, e d'impadronirsi di Millesimo.

Il secondo di questi fini fu conseguito da Augereau, il quale per viva forza superò i passi dei monti che dividono le due valli. Era alla guardia della sinistra Bormida il vecchio ma prode generale Provera con un corpo franco Austriaco, e quindici centinaja di granatieri Piemontesi. Aveva con se per conforto e sprone alla sua vecchiaja il marchese del Carretto, giovane forte e generoso. Era Provera posto in molto pericolosa condizione, perchè, non avuto avviso alcuno da Argenteau, si vide ad un tratto circondato da ogni banda dai nemici, e lontano per l'invasione subita di Buonaparte, da Colli, che si era posato a Montezemo per impedire ai Francesi il passo verso Ceva. Volle con sano consiglio ritirarsi a mano manca verso gli Austriaci; ma gli venne impedito il viaggio dalla Bormida, che cresciuta per pioggie abbondanti, correva torbida ed impetuosa. Fece allora l'animosa risoluzione di salirsene in cima al monte, dove siede il vecchio castello di Cosserìa. Ivi senza artiglierìe, senza munizioni, senza sussidio alcuno di cibo o di acqua, attendeva a difendersi, sperando che intanto la fortuna avrebbe aperto qualche scampo. Augereau, che conosceva ottimamente, che, fintantochè quel freno del castello di Cosserìa, presidiato da forte e valorosa gente, fosse in mano del nemico, non era possibile di consuonare co' suoi verso il centro e la destra, s'accinse a fare ogni sforzo per superarlo. Tre volte andarono i repubblicani all'assalto, altrettante furono risospinti con immenso valore dagli assaltati: morirono in queste fazioni sanguinose tra i Francesi molti buoni soldati, e tra loro il generale Banel, e l'ajutante generale Quentin. Fu ferito nella testa il generale Joubert: pochi furono feriti dentro al castello, e tutti al capo, perchè gli alleati avevano le difese di alcune vecchie trincee. Pernottarono i Francesi a mezzo monte, facendo con botti e letti di cannoni un tal qual riparo, affinchè il nemico non potesse in quel bujo tentare cosa d'importanza. Ma era sitibonda all'estremo la guernigione tra pel calore della stagione, e per l'ardore della battaglia. Chiedeva Provera quant'acqua bastasse ai feriti; la negava Augereau. Bensì, siccome quegli che aveva fretta, ricercava spesso la piazza di resa; il che gli fu costantemente rifiutato dall'Austriaco. Arrivava il giorno quattordici aprile: la fame e la sete operarono ciò che la forza non aveva potuto. Diessi la piazza ai vincitori, accordandosi che gli ufficiali avessero facoltà di andarsene dove meglio piacesse loro, sotto fede di non militare sino agli scambj, i soldati si conducessero, e stessero in Francia sino a liberazione. Al tempo medesimo Rusca cacciava i Piemontesi da San Giovanni di Murialto, e la vittoria di Cosserìa abilitava Augereau a superare Montezemo, il che diè facoltà ai Francesi di spiegar le bandiere loro nella valle del Tanaro, ed indusse Colli alla necessità di correre a difender Ceva e Mondovì.

Queste cose succedevano a sinistra dei repubblicani; ma altre di maggiore importanza preparava la fortuna in mezzo, e a destra. Quantunque gli alleati avessero toccato una grave sconfitta a Montenotte, le sorti loro avrebbero potuto facilmente risorgere, perchè nè erano perduti d'animo, nè mancavano di passi forti, a cui potessero ripararsi. Massimamente insino a tanto che la strada del Dego non era libera al nemico, non temevano ch'ei potesse fare una impressione d'importanza in Piemonte. Laonde applicarono l'animo a farsi forti per quella strada; dall'altra parte i Francesi pensavano a sforzarla. Gli Austriaci in numero circa di quattromila soldati, ai quali si erano accostati i due reggimenti Piemontesi della Marina e di Monferrato, si fortificarono a questo fine sui monti di Magliani, di Cassano, del Poggio, e della Sella. Fecero un ridotto a Cassano sopra Magliani, e lo munirono d'artiglierìe, con aver anche fatto una grande abbattuta d'alberi e di virgulti all'intorno, per poter bene scoprire l'inimico, ove s'attentasse di salire per assaltargli. Diedero loro tempo due giorni i Francesi, o per necessità, o per cattivo consiglio, a fornire le loro fortificazioni in quei luoghi eminenti e difficili. Anzi il dì tredici aprile una quadriglia di repubblicani, che scortava due pezzi d'artiglierìa minuta, e se ne stava troppo confidentemente a mala guardia, sorpresa dagli alleati, perdè le artiglierìe che furono condotte a Dego. La principal difesa degli alleati consisteva nel ridotto di Magliani, che stava a ridosso del castello del medesimo nome, nel quale allogarono una grossa compagnìa del corpo franco di Giulay con alcuni soldati della Marina.

I repubblicani per aprir quella strada che i confederati avevano serrata, comparivano alle due meridiane del giorno tredici, minacciosi, e grossi di quindici mila combattenti, facendosi avanti sino alla Rocchetta del Cairo, ad un miglio distante di Dego. Quivi si spartirono in tre colonne, che si accostarono ai siti occupati dai confederati. Ma non furono questi fatti che minacce, tentativi per iscoprir bene il sito e la forza del nemico. A questo fine appunto Buonaparte, giunto che fu al Colletto, fece trarre di una forte cannonata, per prender notizia del nemico, sperando che gli alleati, credendosi assaliti, e rispondendo, lo avvisassero dei luoghi dove si trovavano; il che gli riuscì, come aveva sperato. Ma l'urto dei due forti nemici doveva succedere nel giorno quattordici, nel quale i repubblicani, risoluti di venirne al cimento, si spartirono, come innanzi, in tre parti. La destra condotta dal colonnello Rondeau, e composta di circa quattromila soldati, assaliva gli alleati per la strada che dai Girini conduce al Dego, e di questa, quindici centinaja separatisi dagli altri, andarono ad occupar la strada che dalla regione dei Pini porta alle Langhe a fine d'impedire i soccorsi, che da Pareto, o da Spigno potessero venire agli alleati: essa doveva far impeto contro il Poggio e la Sella. Quella di mezzo capitanata dai generali Menard e Joubert con due mila soldati saliva al castello di Magliani. La sinistra più grossa delle altre, che obbediva a Massena, Causse, Monnier, e Lasalcette, era destinata a salire dalle sponde della Bormida per dar dentro al fianco destro dei posti di Magliani, e contro il Monterosso, che dava il varco ai medesimi. Tutte queste mosse erano con molta maestrìa di guerra pensate, e furono altresì con molto valore eseguite. Riuscì terribile l'urto al Poggio ed alla Sella; vi morirono molti buoni corpi da ambe le parti. Saliva di fronte la mezza, ma posatamente per aspettar l'effetto dell'assalto dato sui due fianchi. I Francesi, dopo un combattimento sostenuto quinci e quindi con molta ostinazione, riuscirono finalmente ad aver vittoria sui due lati, cacciando i nemici loro dal Poggio e da Monterosso. Si fece allora avanti la mezza, ed entrò forzatamente nel castello di Magliani dove uccise i soldati di Giulay, che tutti vollero piuttosto morire, che cessar di combattere. Restava il ridotto di Magliani, principale propugnacolo degli alleati, dal quale tempestavano con una furia incredibile di palle e di scaglia. Fu quivi assai dura l'impresa pei repubblicani, perchè i confederati maravigliosamente inferociti, traevano spessissimamente a punto fermo, e solo a cento passi di distanza. Finalmente dopo tre ore di sanguinosissima battaglia, e solamente verso la sera, venne fatto ai Francesi, che accorrevano contro il ridotto da tutte le bande, d'impadronirsi di quel forte sito, cacciatone a forza i difensori. Si precipitarono allora gli alleati nella valle delle Cassinelle per guadagnar prestamente la strada per a Pareto; ma i Francesi gli seguitarono a corsa, e quella colonna, che si era spartita al principio del fatto dalla destra schiera, che se ne stava ai Pini, scagliossi ancor essa sì fattamente contro i fuggiaschi, che ne furono quasi tutti o morti o presi: tutti anzi stati sarebbero sterminati, se i due reggimenti Piemontesi della Marina e di Monferrato, fatto un po' di testa al monte Scazzone, non avessero fatto ala a coloro che fuggivano, cacciati dalla furia Francese che gl'incalzava. Perdettero gli alleati in questa battaglia meglio di due mila soldati tra morti, feriti e prigionieri; i repubblicani poco più di ducento. Ma grave perdita pei primi fu quella che susseguitò, del castello di Cosserìa, perchè stretto già Provera, come abbiam detto, dalla sete e dalla fame, perduta la speranza di ogni ajuto, poichè vide dall'alto la sconfitta de' suoi, non indugiò più ad arrendersi.

Quando pervennero le novelle della rotta di Magliani ad Argenteau, che aveva tuttavia le sue stanze a Pareto, si diede a passeggiare a gran passi, come uomo che abbia del tutto perduto il lume dell'intelletto. Pure diede ordine ai capitani, facessero massa in Acqui. Certamente da biasimarsi molto è la condotta d'Argenteau in questo fatto; perchè se avesse subito avviato in soccorso dei difensori di Magliani il corpo di cinque, o sei mila soldati, che aveva con se a Pareto, avrebbe potuto facilmente cambiare la fortuna della giornata; perciocchè i suoi, che si difendevano con estremo valore nel ridotto, avuto quel rinforzo, avrebbero potuto sostenersi, od almeno la ritirata sarebbe stata salva e sicura.

Questa fu la battaglia, che meglio di Magliani, che di Millesimo si chiamerebbe, perchè a Magliani concorsero le principali forze delle due parti, e nel luogo medesimo succedette il più forte conflitto. Ma la fortuna solita sempre a far maravigliose conversioni in guerra, aprì l'adito il giorno seguente ai confederati di ricuperar ciò che avevano perduto; il che avvenne non per buono consiglio, ma per caso, anzi per cattivo consiglio d'Argenteau. La notte, che seguì il giorno della battaglia, il tempo che era stato nuvoloso, diventò piovoso; piovve a rotta verso l'alba. Tra per questo, e per pensare i Francesi a tutt'altro fuorichè a questo, che il nemico vinto avesse a prendere così tosto nuovo rigoglio ad assaltargli, si guardavano negligentemente, e non che stessero nelle trincee, si erano sparsi per le case, dove attendevano meglio a riposare che a guardarsi. Solo cinquecento, o seicento soldati vegliavano alla difesa delle trincee. Ed ecco appunto, che in sul far del giorno il colonnello Wukassovich accompagnato dal luogotenente Lezzeni con un corpo di circa cinque mila soldati composto di Croati, e dei reggimenti di Nadasti, e d'Alvinzi, venendo per la strada di Santa Giustina, compariva improvvisamente alla vista di Magliani. Aveva Argenteau, perduta la battaglia di Montenotte, ordinato a Wukassovich, che stanziava a Sassello, venisse tosto in ajuto, ed il raggiungesse al Dego ed a Magliani. Ma siccome quegli che aveva poca mente, ed anche la sventura gliela faceva girare, aveva indicato per la mossa a Wukassovich un giorno più tardi di quello, che aveva realmente in animo, dimodochè il colonnello, invece di arrivare il dì quattordici, che forse avrebbe vinto la battaglia, arrivava il quindici, ed arrivando già avea sbaragliato e pesto uno squadrone Francese, che muniva il monte della Guardia. Non ostante che con gran sua maraviglia avesse veduto, strada facendo, la fuga de' suoi, e che il nemico avea occupato Magliani, si risolveva a dar dentro risolutamente con la speranza di far pruovare a Buonaparte quello, che Buonaparte aveva fatto pruovare ad Argenteau. Già urtava il castello ed il ridotto. Risentitisi a sì improvviso accidente i Francesi, muovevansi a corsa verso il ridotto per difenderlo; ma nè ebbero tempo di schierarsi, nè di apparecchiar le artiglierìe, e quel forte sito, che con tanta fatica e sangue aveano conquistato, ritornava, quasi senza contrasto, in potestà dei confederati. Parte dei repubblicani fuggendo, si gettarono nella valle di Colloretto, i più si precipitarono a rotta sui dirupi, in mezzo ai quali scorre il torrente Grillero, e si salvarono verso il Colletto, dov'era la guardia loro di ricuperazione. Fu grande strage dei Francesi in sul Grillero, perchè i Tedeschi gli bersagliavano dall'alto. Perdettero i primi non solo i luoghi, ma ancora le artiglierìe che li munivano.

Massena, a così fortunoso caso riscossosi, e gettatosi al piano, frenava primieramente l'impeto de' suoi, che fuggivano verso il Colletto; poi, ordinatigli di nuovo in tre colonne, come nella battaglia del giorno quattordici, gli conduceva all'assalto. Ma se Massena non era capace di timore, non era nemmeno Wukassovich: quì la battaglia divenne orrenda. La sinistra era alle mani con le guardie avanzate Austriache, che si difendevano con singolare ardimento; la mezza pativa assai, perchè i Tedeschi fulminavano dal ridotto, e già i soldati stanchi, ed impauriti si nascondevano per le case. La destra medesimamente trovava un feroce rincalzo. Massena, veduto titubare i suoi, mandò avanti la squadra di ricuperazione, e postala dietro alla mezzana, impediva, che coloro che davano indietro, passassero il Grillero. In questo mentre restò ferito gravemente d'un'archibugiata nell'anca destra il generale Causse che portato alla Rocchetta, poco stante mancò di vita. La colonna di mezzo incoraggita da Massena e dagli altri generali, già arrivava fin sotto al ridotto; ma uscitine impetuosamente gli Austriaci, la urtarono, e rincacciarono fino al castello. La sinistra ancor essa era stata risospinta con grave perdita, la destra non faceva frutto. Massena animosissimo gli conduceva di nuovo all'assalto, e di nuovo erano ributtati con palle, ed ischegge terribili. Già il quarto assalto era riuscito vano. Arrivava in questo punto con sei mila soldati Laharpe, che avendo udito lo strano caso, era prontamente accorso. Novellamente si raccozzavano, si riordinavano, si muovevano, si serravano contro il nemico; nè ciò ancor bastava a piegare la costanza Austriaca; che anzi quei valorosi soldati, non sapendo come quà fossero venuti, nè come andarsene, nè quando sarebbero soccorsi, continuavano a trarre disperatamente, ed a tener lontano il nemico. Dopo tanti rincalzi, e tante stragi, incominciavano i Francesi a dubitare della battaglia. Buonaparte, che vedeva l'importanza del fatto, accorreva coi soldati vincitori di Cosserìa, e con impeto unito menava i suoi ad un ultimo assalto. Puntarono acremente la destra e la sinistra sui fianchi: la mezzana ingrossata, e rinfrescata assaliva di fronte. Urtati da tante parti, continuavano gli Austriaci a combattere; cacciati dal ridotto, combattevano dalle case; cacciati dalle case combattevano dalle boscaglie; finalmente cacciati anche da queste e pressati d'ogni banda, minacciosi e rannodati si ritiravano. Gran fatto è stato questo, e che debbe far stimar Wukassovich uno dei migliori guerrieri dei nostri tempi. La destra intanto, e quella del Monterosso, scese improvvisamente nella valle delle Cassinelle, diedero dentro agli Austriaci ritirantisi, e gli ruppero con molta strage, facendone anche di molti prigionieri. Una parte però, che prese la strada delle Langhe, si ritirava intiera, e voltando qualche volta la fronte, arrestava l'impeto del nemico, massimamente della cavallerìa, che perseguitava coloro, che fuggivano per la valle delle Cassinelle; anzi per un tiro venuto da lei restò ucciso un generale di cavallerìa.

Perdettero gli Austriaci in questa battaglia tra morti, feriti e prigionieri, sedici centinaja di buoni soldati con tutte le artiglierìe loro: ma non fu nemmeno senza sangue pei Francesi la vittoria. Tra morti, feriti e prigionieri mancarono più di ottocento soldati. Fra i morti per chiarezza di nome o di grado, si noverarono Causse, il generale di cavallerìa e Rondeau, che ferito nel piè destro, e portato a Savona, peggiorando sempre più la piaga, passò di questa vita alcuni mesi dopo.

Dalla presente narrazione si vede, che sebbene Buonaparte avesse errato nell'ordinare la battaglia di Montenotte, molto bene ei seppe emendare il fallo in quella di Magliani, egregiamente da lui ordinata e combattuta. Argenteau da parte sua errò in molti modi, e nella battaglia e dopo di lei, e massimamente in quella di Magliani, per modo che ei fu costretto di combattere con una parte delle sue forze contro la maggior parte di quelle del nemico. Sollevossi fra l'Austriaca gente un romore ed uno sdegno grandissimo contro di lui, accusandolo tutti dell'infelice successo delle battaglie di Loano, di Montenotte e di Magliani, delle quali la prima preparò la strada, le altre l'apersero alla conquista d'Italia. Beaulieu il fece arrestare e condurre a Mantova, poi a Vienna, perchè vi fosse preso dell'error suo da un consiglio di guerra debito giudizio.

Buonaparte errò, e riparò; Argenteau errò senza riparare; ma bene non errarono nè Rampon, nè Wukassovich, al primo dei quali si deve tutta la gloria di Montenotte, al secondo quella di Magliani: vinse il primo, perchè un generale, sendosi accorto del fallo, il soccorse; perdè il secondo, perchè un generale di poco intelletto, che poteva soccorrerlo, nol fece. Ma resterà nella memoria dei posteri, senza rimanersi alla felicità od alla infelicità del fatto, il nome di Wukassovich tanto ed a giusto titolo glorioso, quanto veramente è quello di Rampon; nè noi abbiam voluto che mancasse in queste nostre storie correggitrici della parzialità dei tempi, il testimonio nostro a quel generoso, e prode Austriaco.

Lo splendore della vittoria Francese fu oscurato dal furore del sacco. Molti fra i repubblicani, non perdonando nè a cosa sacra, nè a profana, riempievano i paesi di terrore e di fuga. Queste enormità, che tanto contaminavano il nome di Francia, abbominavano molti generali, abbominavano i soldati buoni, ma quelli non potevano impedirle coi comandamenti, nè questi con l'esempio. Perchè poi, chi leggerà questi miei scritti, non creda che un giusto sdegno ci faccia trascorrere oltre il vero, diremo, che i generali Francesi dabbene, dicevano e scrivevano di questo cose assai peggiori, che noi non abbiam raccontate. Scriveva Serrurier, molti soldati amar meglio rubare che combattere, rinfacciare, a quel modo combattere, al quale erano pagati: Chambarlac e Maugras colonnelli, non potendo più oltre tollerar di vivere con soldatesche che senza disciplina e senza obbedienza essendo, minacciavano ad ogni ora di maltrattare anche gli ufficiali, che cercavano di frenare il furor loro, domandata licenza, volevano cessar dagli stipendj. Soprattutto il buono e generoso Laharpe iva gridando, il soldato ogni ora più arrogarsi le ruberìe e le uccisioni, assassinare i soldati i paesani, i paesani i soldati; non poter con parole descrivere le enormità che si commettevano; le stanze dei soldati essere deserte; correre il soldato le campagne a guisa piuttosto di bestia feroce che d'uomo; e se le guardie da un lato il cacciassero, correre tosto ad assassinare da un altro: disperarsene gli ufficiali: meno atroce caso fora, aggiungeva dolente e sdegnoso Laharpe, l'adunare in un luogo solo gli abitatori per ammazzargli tutti in una volta, poi devastar quel che restasse; essere il medesimo, perchè se di ferro non morissero, di fame morrebbero: non esservi adunque più provvidenza, sclamava, che fulminasse i scelerati amministratori, che ridotto avevano i soldati dell'Italica oste od a farsi ladri ed assassini, od a morir di fame: non poter più vedere, meno ancora tollerare sì abbominevoli eccessi; chiedere perciò licenza a Buonaparte generale, volersene ire; anteporre l'umile mestiere del lavorar la terra per vivere, ad esser capo di genti peggiori che non furono ai tempi andati i Vandali. Noi non abbiamo senza tenerezza narrato le generose querele di Serrurier, di Chambarlac, di Maugras e di Laharpe, acciocchè sappiano i posteri, che se le primizie che si diedero all'Italia, furono opere da cui più l'umanità abborrisce, vissero ancora in mezzo ai Francesi non pochi generosi uomini che queste esorbitanze barbare ed abborrivano, ed apertamente condannavano.

Seguitando ora il progresso della storia, dopo la vittoria di Magliani, insistendo velocemente Buonaparte nei prosperi successi, era venuto a capo del suo pensiero di separare gli Austriaci dai Piemontesi: nel che tanto più facilmente riuscì, che nè Beaulieu si curò molto di starsene unito a Colli, nè Colli a Beaulieu, perchè ed alcuni semi di discordia già erano prima dei raccontati fatti tra di loro sorti, e, come suole accadere nelle disgrazie, gli Austriaci accusavano i Piemontesi di non avergli, com'era debito, ajutati, i Piemontesi davano il medesimo carico agli Austriaci. Finalmente premeva più a Beaulieu l'accorrere alla difesa del Milanese, a Colli a quella del Piemonte. Di questa dissidenza dei capi Austriaco e Piemontese accortosi l'accortissimo Buonaparte, quantunque gli fosse stato ingiunto di perseguitar piuttosto gli Austriaci che i Piemontesi, si risolveva a serrarsi addosso agli ultimi, sperando di costringere fra breve il re di Sardegna alla pace, per voltarsi poscia, assicuratosi alle spalle, con maggiore speranza di vittoria, alla conquista della Lombardia. Al quale consiglio tanto più volentieri si appigliava, quanto più sapeva, che Beaulieu tentava continuamente l'animo del re per farlo star fermo nella lega, offerendogli di soccorrerlo non solo con le forze che gli restavano tuttavia, ma ancora con quelle che o già erano arrivate, o presto dovevano arrivare nel Milanese, purchè per sicurtà della sua fede e delle genti Austriache, consentisse a dargli in mano le fortezze di Alessandria e di Tortona. Per la qual cosa il capitano di Francia voltò del tutto i pensieri a voler vedere quello che fosse per partorire in Piemonte la presenza dei repubblicani. Due erano i modi che voleva usare per arrivare ai suoi fini; la forza con perseguitar da vicino co' suoi soldati vittoriosi le reliquie delle truppe reali, l'astuzia col tentar di far muovere i popoli, con le parole di libertà, contro l'autorità del re. A questo era e disposto per se, e comandato dal Direttorio. Gli aveva il Direttorio imposto, che tentasse per ogni mezzo di dare spirito ai novatori, e tanto più ciò facesse, quanto più si ostinasse il Piemonte a voler perseverare nella sua congiunzione con la lega, e nella guerra. A questo fine, e per far vedere che entrava con molto favore, aveva Buonaparte condotto con se alcuni fuorusciti Piemontesi, dei quali alcuni erano amici della libertà, altri facevano professione di essere. Sperando egli di far consentire con lo spavento d'interne rivoluzioni Vittorio Amedeo alla pace, pensava di servirsi dell'opera di costoro, quantunque in poca stima gli tenesse, anzi piuttosto gli avesse a vile, perchè egli riputò sempre gli amatori della libertà, o veri o finti ch'essi fossero, piuttosto importuni parlatori, che uomini capaci di far cose di momento. Adunque, ordinato ogni cosa, come abbiamo detto, e collocato un grosso corpo nei contorni del Dego per appostar gli Austriaci, acciocchè non tentassero nulla a suo pregiudizio, si avviava verso Ceva, contro cui aveva già mandato con molte forze Augereau e Serrurier.

Erasi Colli, dopo l'infelice successo della giornata di Magliani, e dopo che pel fatto di Cosserìa era stato obbligato di lasciar al nemico la possessione di Montezemo, ridotto coi Piemontesi nel campo trincerato, che per difesa della fortezza di Ceva era stato ordinato alla Pedagiera, ed alla Testa nera, sito che signoreggia la fortezza. Assaltò Buonaparte impetuosamente questo campo; gli fu anche virilmente risposto; durò la battaglia molte ore con molto sangue da ambe le parti, massime dei repubblicani, i quali combattevano più scoperti. Nè vi fu modo di far piegare i regj, che con valore difendendosi respingevano costantemente il nemico. Succedeva questa fazione ai sedici aprile. Pernottarono repubblicani e regj ai luoghi loro. Ma il giorno seguente, ingrossatisi molto i primi, rinfrescarono l'assalto più forte di prima, nel quale sebbene animosamente si difendessero i regj, temendo Colli di essere spuntato dai lati, lasciato un grosso presidio nella fortezza, ritraeva le genti con andar ad alloggiarle in sito molto opportuno là dove la Cursaglia mette nel Tanaro. In questi fatti, proteggendo valorosamente la ritirata il reggimento d'Acqui, morì di grave ferita il marchese Cavoretto, morte sentita dolorosamente da tutti per le buone qualità sue sì civili, che militari; e se i Francesi han ragione di celebrare, come fanno, con esimie lodi coloro, che sono morti combattendo per la patria, non so perchè gl'Italiani siano tanto scarsi in lodar coloro che, come il marchese Cavoretto, diedero la vita per preservare una patria, che debbe loro essere tanto cara, quanto è veramente la Francia ai Francesi. Occuparono, fatta questa ritirata, i repubblicani subitamente la città di Ceva, nè così tosto l'occuparono che vi fecero grosse tolte di pane, e posero taglie di denaro. Attaccarono i repubblicani superiori di numero l'esercito regio nei campi della Bicocca, della Niella e di San Michele, ma non poterono sloggiarlo, pel duro contrasto che vi fece. Ai venti massimamente si combattè con molto sangue: pure stettero fermi alla pruova i Piemontesi, per modo che Serrurier si ritirava assai malconcio e disordinato. Infine quel valoroso Massena, il quale nato suddito del re, più di tutti operò per abbattere la sua potenza, passato la notte del ventuno il Tanaro a guado presso Ceva aveva occupato Lesegno. Dall'altra parte Guyeu e Fiorella, essendosi fatti padroni del ponte della Torre, mettevano Colli in pericolo di essere circondato dai repubblicani alle spalle; il che avrebbe condotto quell'esercito, ultima speranza della monarchìa Piemontese, ad un'estrema rovina. Perlocchè, levato il campo occultamente alle due della notte, e conducendo seco tutte le artiglierìe e le bagaglie, s'incamminava frettolosamente, ma ordinatamente alla volta di Mondovì. Il seguitarono velocemente i repubblicani, ed il raggiunsero a Vico, dove allo spuntar del giorno seguì la battaglia, che i Francesi chiamano di Mondovì. Buonaparte solito ad abbellir con parole magnifiche le sue geste, rappresentò questo fatto con colori di grandezza, e di virtù militare dal canto de' suoi. Ma il vero si è, che Colli non poteva, nè voleva tra mezzo ad una frettolosa ritirata, e con soldati già scemi d'animo e di forze venirne ad una battaglia giusta contro un nemico vittorioso, battaglia in cui ne sarebbe andato tutto il destino di un antichissimo reame. Solo suo intento era di ritardar tanto il perseguitante nemico, che potesse condur in salvo le artiglierìe ed il bagaglio, ed andar a pigliar un alloggiamento tale, che potesse, se ancor possibil fosse, arrestar il corso alla fortuna che con tanto impeto precipitava. Difesosi in Vico con molta arte e valore, potè ritardando il nemico, conseguire il fine che si era proposto, di condurre a salvamento nei luoghi sicuri dietro l'Ellero ed il Pesio le armi grosse, e tutti gl'impedimenti. Ritirossi poscia, andando a posarsi in un forte alloggiamento oltre la Stura, dove la fronte era difesa dal fiume, la destra aveva per sicurtà Cuneo, donde si congiungeva alle genti che guardavano i passi per al Colle di Tenda, la stanca finalmente si appoggiava a Cherasco posto alla foce della Stura nel Tanaro, ed afforzato, sebbene leggermente, con bastioni muniti di steccate e palizzate. In tale modo un umile fiume, un esercito valoroso, ma vinto, e due piazze, una forte l'altra debole, restavano soli impedimenti ai Francesi, onde non inondassero tutto il Piemonte, e non sventolassero le insegne repubblicane sotto le mura della città capitale di Torino. Certamente assai è da lodarsi Buonaparte per l'ardire e per l'arte mostrata in tutti questi fatti; assai anche è da lodarsi il valore de' suoi soldati; ma da lodarsi ancora è Colli, e l'esercito Piemontese, che spinto e risospinto più fiate da luoghi rotti e montuosi, conservossi sempre intiero, ed all'ultima fine intiero rappresentossi al re per quei negoziati che per la conservazione del regno avesse stimato convenirsi.

L'audace Buonaparte, non contento, se prima non avesse rotto ogni resistenza, usava l'estrema forza e l'estrema astuzia. Minacciava dall'un canto di varcar la Stura, dall'altro, impadronitosi d'Alba per mezzo di Laharpe, città posta sulla riva del Tanaro sotto la foce della Stura, era in grado di passar il primo di questi fiumi, e di correre alle spalle dei Piemontesi. Oltre di questo, per rizzare a spavento del governo una prima bandiera di ribellione, aveva operato, e l'ottenne anche facilmente, che alcuni abitatori d'Alba, instigati principalmente da Bonafous, fuoruscito Piemontese, venuto coi repubblicani, facessero un movimento contro l'autorità regia, mandando fuori bandi di volersi constituire in repubblica. Quivi Bonafous metteva sequestri, faceva confiscazioni di beni mobili e stabili, tanto feudatarj quanto regj, e procedendo in tutto repubblicanamente, dava timore, che con le spalle dei repubblicani d'oltremonti e del paese, avesse a propagar quell'incendio per tutto il Piemonte. Erasi accostato al Bonafous un Ranza, uomo dabbene, nè senza lettere, ma cervello disordinato, e capace del pari di far perir la realtà per la ribellione, e la libertà per l'anarchìa. Costoro, per istimolo, scrissero e pubblicarono una lettera a Buonaparte: voler essi, dicevano, come i Francesi, esser liberi; non voler più vivere nè sotto un re, nè sotto altro tiranno, con qual nome si chiamasse; volere l'equalità civile, volere spegnere i mostri feudatarj; per questo aver preso le armi all'approssimarsi del vittorioso esercito di Francia: gli ajutasse adunque, pregavano, a rompere quelle catene da schiavi; vedesse l'Italia in atto di chiamarlo alla liberazione sua; donassele la libertà, ridonassele il lustro antico; sarebbe il suo nome glorioso ed immortale. Non contenti a questo, Bonafous e Ranza, procedendo immoderatamente, mandavano bandi repubblicani al clero del Piemonte e della Lombardìa, siccome pure ai soldati Napolitani e Piemontesi. Ancorchè il generale di Francia sapesse, che non era in Piemonte seme sufficiente di rivoluzione, pure andava fomentando queste dimostrazioni, e le magnificava per intimorire il governo; perchè argomentava, che già preso da spavento pei sinistri eventi della guerra, e male giudicando delle disposizioni dei popoli, si lascerebbe facilmente spaventare dal pericolo immaginario di moti interni contrarj alla quiete del regno. Adunque e per questi romori, e per esser padrone il nemico del passo del Tanaro in Alba, e per esser Cherasco in se stesso poco difendevole, temendo Colli di essere assaltato alle spalle, lasciato Cherasco, si ritraeva, per sicurezza di Torino, alle stanze di Carignano. Ora era giunto il re di Sardegna a quell'estremo punto, in cui o far doveva una risoluzione magnanima, o sottoporre il collo ad un nemico insolente, e ad un governo disordinato e del tutto diverso dal suo: ora si doveva vedere, se Vittorio Amedeo III era in grado di mostrare al mondo di avere nell'animo quei medesimi spiriti, per cui tanto sono lodati i suoi generosi antenati Carlo Emanuele I, e Vittorio Amedeo II. Adunossi in tanto precipizio di cose il consiglio, al quale assistettero il re ed i principi reali, con tutti i ministri dello stato. Drake, ministro d'Inghilterra a Genova, trasferitosi a Torino, ed il marchese Gherardini, ministro d'Austria, temendo che in agitazione sì grave il re fosse per separare i suoi consiglj da quei della lega, e desiderando sommamente d'interrompere questa cosa, non avevano mancato all'ufficio loro con tenerlo continuamente sollecitato, perchè voltasse il viso alla fortuna, e stesse in fede: ricordassesi, dicevano, del nome suo; avrebbe presto di Germania e d'Inghilterra sussidj di soldati, e di denaro; non permettesse che la generazione presente potesse dire, aver mancato d'animo ad un primo romoreggiar di Francesi in Piemonte; ricordassesi dell'assedio di Torino, rivocasse alla mente la vittoria tanto famosa al mondo di Vittorio Amedeo, suo grand'avolo; la fortuna essere stata contraria, ma il valor pari; variare la fortuna sempre, constare sempre a se medesimo il valore; pensasse, e nella mente sua maturamente volgesse, quanta fosse stata verso di lui la fede degli alleati, che del tutto a lui avevano commesso le sorti d'Italia, quantunque sapessero potere venir caso, che i francesi, rotte violentemente le barriere dell'Alpi, penetrassero in Piemonte; non fosse minore in lui la costanza, di quanto fosse stata la fiducia della lega; avere i re nel corso dei regni loro prosperi casi ed avversi; essere più gloriosi quelli che costantemente sopportano i secondi, di quelli che oscuri trapasseno i giorni loro nei primi, considerasse bene quanto da lui richiedessero Italia, ed Europa; non consentisse che in lui più potesse un romor repentino, che i veri interessi del suo reame. Dimostravasi Vittorio Amedeo constantissimo a voler continuare nella fede data: difenderebbe Torino sino all'ultimo, o anderebbe ramingo, se così fortuna volesse; non consentirebbe a pace con un nemico odiosissimo. Il secondava nella medesima sentenza il principe di Piemonte, nel quale, come primogenito regio, doveva pervenire il regno, non però per motivi di stato, ma sì di religione, parendogli, come a principe religiosissimo, troppo abbominevole aver per amici coloro, che stimava eretici e nemici di Dio. Temeva la propagazione dei principj loro anche in Piemonte, ed abborriva una pace, che gli pareva ancor più rea verso Dio che verso gli uomini. Ma dal cardinale Costa, arcivescovo di Torino, personaggio nel quale risplendevano ingegno, dottrina ed amor singolare di lettere e di letterati, fu ragionato in contrario, esser l'Austria infedele, pensare prima a se che ad altrui, essere il pericolo della ribellione imminente, la necessità più forte della fede; il cacciare i Francesi dal Piemonte del tutto impossibile; meglio avergli amici che nemici; ponendo anche l'Austria di eguale potenza della Francia, esser questa vicina, quella lontana; riuscir più facile ai Francesi l'invadere il Piemonte, che agli Austriaci il preservarlo; potere l'Austria, come lontana, perseverare nella guerra; dovere il Piemonte pensare ai casi suoi: nella supposizione favorevole diventerebbe il Piemonte campo di guerra, pieno di ruberìe, di devastazioni e di uccisioni; e se già a mala pena si poteva resistere ai Francesi, come si sarebbe potuto resistere ai Francesi stessi, ed ai sudditi tumultuanti a perdizione del regno? Non esser forse superbe le profferte degli Austriaci? non domandar loro per prezzo degli ajuti Alessandria e Tortona? Qual compenso poter offerir l'Austria in una felice guerra per le perdute Savoja e Nizza? Sperarla tanto felice, ch'ella ne reintegrasse il re per la forza dell'armi, esser più tosto fola da infermi, che argomento d'uomini ragionevoli: all'incontro potere i Francesi, dal canto dei quali allora stava la probabilità della vittoria, e volere ed offerire nel conquistato Milanese grassi ed adeguati compensi: sì certamente essere infido quel Francese governo, ma poter tendere maggiori insidie in guerra che in pace, perchè la guerra fa le insidie lecite, la pace le fa infami; variare consiglio il savio al variare degli eventi, e poichè la fortuna aveva addotto un accidente, non che straordinario, maraviglioso, doversi anche fare una risoluzione straordinaria. Loderebbonla gli uomini prudenti, benedirebbonla i sudditi fatti immuni dalle esorbitanze incomportevoli della guerra: assai e pur troppo essersi fatto per mantener la fede promessa; dimostrarlo il sangue sparso, dimostrarlo le innumerevoli morti, dimostrarlo le desolate campagne: assai essersi soddisfatto all'onore, ora doversi soddisfare all'esistenza.

A questa sentenza del consigliar la pace era stato tirato l'arcivescovo per lume proprio, e per conforto dell'avvocato Prina Novarese, quel medesimo che, d'ingegno acutissimo, d'animo duro, e bel parlatore, e maestro singolare del comandar tirato essendo, piacque poi tanto per infelice suo destino a Buonaparte. Il favellare di un uomo tanto grave e tanto pratico delle cose del mondo, qual era il cardinale Costa, commosse tanto e sì maravigliosamente gli animi degli ascoltanti, che fu fatta quella risoluzione, che sottraendo la monarchìa Piemontese da una dipendenza certamente eccessiva verso l'Austria, la fece vera e reale serva della Francia. Allora veramente, e non più tardi perì il reame di Sardegna, allora, e non più tardi perì la monarchìa Piemontese. Dallo strazio che ne fece poscia quel governo repubblicano di Francia; comprenderanno facilmente i leggitori di queste storie, che non solo più onorevole, ma anche meno infelice consiglio sarebbe stato l'incontrare qualunque più duro caso di fortuna coll'armi in pugno, che il darsi con le mani disarmate ed avvinte in preda ad un amico sì fantastico, e sì crudele.

Spedironsi pertanto a fretta verso Genova il conte Revello, ed il cavaliere Tonso, con mandato di negoziar della pace con Faipoult, ministro della repubblica francese. Al tempo medesimo fu fatto mandato a Colli di domandare, ed al conte Delatour, e marchese della Costa di accordare una sospensione di offese col generale repubblicano. Non avendo Faipoult facoltà di negoziare, si partirono i commissarj da Genova senza risoluzione, e s'incamminarono tostamente alla volta di Parigi a fine di stabilire la pace, e l'amicizia con la repubblica. Tristo e misero era il mandato, nè difforme dallo spavento concetto: pure il timore non era uguale alle disgrazie che i tempi apparecchiavano. Intanto, scrittosi da Colli a Buonaparte, si sospendessero le offese, rispose, nè potere nè volere, se prima non gli si davano due delle tre fortezze di Cuneo, d'Alessandria e di Tortona. Consentiva il re per la prima e per l'ultima, e di più per Ceva, che oppugnata gagliardamente, con ugual gagliardìa si difendeva. Adunque l'estremo momento essendo giunto, in cui l'antichissima monarchìa dei Piemontesi doveva, cessando d'esser padrona di se medesima, cadere in servaggio altrui, fu accordata in Cherasco la tregua tra Buonaparte dall'un lato, Latour e della Costa dall'altro, con questo, che i repubblicani occupassero Cuneo il dì ventotto aprile, Tortona non più tardi del trenta, la fortezza di Ceva subito dopo gli accordi; restassero i Francesi in possesso dei paesi conquistati oltre la Stura ed il Tanaro; fosse fatto facoltà ai corrieri di passare pel Cenisio per a Parigi; comprendessersi nella tregua i soldati dell'imperatore, che erano ai soldi del Piemonte; durasse sino a cinque giorni dopo la conclusione dei negoziati di Parigi. Siccome poi Buonaparte tesseva un grande inganno a Beaulieu per farsi comodo il passo del Po, così stipulava, che l'esercito di Francia potesse passare il fiume sopra Valenza. Queste furono le tristi condizioni della tregua, alle quali succedettero poco stante le condizioni più tristi ancora della pace. A tale accordo si rallegrarono i novatori, s'avvilirono i ligj, si scoraggiarono i leali, si spaventarono i popoli, si sdegnarono i soldati. Lo scrittore di queste storie, trovandosi a questo tempo alle stanze di Gap in Francia, e quivi avendo parlato coi soldati Piemontesi cattivi in guerra, udì da loro abbominarsi con grandissimo sdegno i patti, che la patria loro avevano condotto in sì duro servaggio. Spaventossene l'Italia, maravigliaronsene i potentati d'Europa. Volle anzi in questo la fortuna solita ad addurre casi strani, che le novelle della debolezza del governo regio, che tanto disordinava le cose comuni, spedite con grandissima celerità a Pietroburgo, vi arrivassero prima della circolare scritta dal re, per cui affermava, la sua costanza del voler perseverare nella guerra essere inconcussa: delle quali novelle non sapendo l'agente di Sardegna, visitava il conte Ostermann, ministro degli affari esteri dell'imperatrice Caterina, la circolare rappresentandogli: la quale leggendo Ostermann dava segni di maraviglia, di dispetto e di sdegno, servendosi anche, parlando del re, di parole, che per la gravità della storia non vogliamo rapportare, e che certamente poco sono convenevoli alla maestà reale. La somma fu, che squadernò in viso all'agente lo spaccio, che conteneva le novelle della tregua, sdegnosamente dicendo, che i confederati sapevano ottimamente, che la fortuna della guerra avrebbe potuto portare che i Francesi penetrassero in Piemonte; che non ostante avevano confidato che il re, ad imitazione dei gloriosi suoi antenati, serbando la medesima costanza, avrebbe loro osservato le cose promesse; che la lega non avrebbe pretermesso di soccorrerlo; che finalmente, se avessero i confederati potuto credere che ad un primo impeto ei fosse per mancar d'animo, e per posar le armi, avrebbero fatto altri pensieri, e provveduto in altra guisa alla sicurezza, ed agl'interessi degli stati loro.

Infatti non si vede, quale sì inevitabile necessità dovesse condurre il governo regio ad una risoluzione tanto pregiudiziale, e tanto inonorata. Quaranta mila Francesi si erano invero affacciati ad uno degli aditi delle pianure Piemontesi; ma difettosi di artiglierìe, massime grosse, difettosi di cavallerìa, non potevano nè espugnar le piazze forti, nè tener la campagna aperta. Nè denaro avevano per pagare, nè magazzini per pascere i soldati. Oltre a ciò stavano loro ai fianchi, a destra Ceva, che tuttavìa si difendeva validamente, a sinistra Cuneo copioso di difensori forti, e ben provveduti di ogni cosa. La metropoli stessa di Torino, che stava loro a fronte, senza la possessione della quale invano avrebbero sperato di essere quieti possessori del Piemonte, era munitissima per fortificazioni vecchie e nuove. Nè l'esercito Piemontese era tale, che potesse dar cagione di disperare della difesa di tanti luoghi forti: la cavallerìa sì regia che imperiale fioritissima, intera, abile ad impedire in pianura qualunque fazione d'importanza ai repubblicani. Abbiam narrato come Colli avesse saputo ritirarsi intiero, e rannodato per modo che l'esercito nè disperso nè distrutto, appresentava ancora stabile fondamento a chi avesse voluto usarlo risolutamente. Nè le reliquie di Beaulieu erano disprezzabili, e meglio di ventimila Tedeschi stanziavano nella Lombardìa pronti ad accorrere in ajuto; perchè certamente il combattere in Piemonte era allora un combattere per la Lombardìa. È vero, che per la sicurtà della fede domandava Beaulieu Alessandria e Tortona, dura certamente e superba condizione; ma giacchè per l'acerbità della fortuna si era giunto a tale che o bisognava dare Alessandria e Tortona agli Austriaci, o Tortona e Cuneo ai Francesi, non si vede perchè il primo partito non fosse e più utile, e meno inonesto del secondo, perciocchè meglio era cedere ad un alleato che ad un nemico, meglio cedere ad un governo di natura conforme che ad un governo disordinato, e di natura contraria. Restava il timore, che si aveva dei novatori; ma i soldati erano non che fedeli, fedelissimi, il valore sperimentato, specialmente negli ultimi fatti; degli ufficiali pochi avevano abbracciato le nuove opinioni, nè alcuna inclinazione contraria si manifestava nelle popolazioni, nemiche naturalmente e per antica consuetudine ai Francesi. Sapevaselo Buonaparte, che di queste insidie s'intendeva; sapevalo, e dicevalo, e scrivevalo, quantunque i fuorusciti Piemontesi continuamente gli fossero ai fianchi con rappresentazioni della propensione dei popoli a voler fare novità. Nei partigiani stessi poi si sarebbe certamente per gli eccessi dei soldati allentato il desiderio dei repubblicani.

Di quello che fosse a farsi in così grave frangente testimonio irrefragabile è Buonaparte medesimo, che soleva dire, che se il re di Sardegna gli avesse tenuto il fermo solamente quindici giorni, ei sarebbe stato costretto a rivarcar i monti per ritornarsene là dond'era venuto. Mancò adunque il governo regio a se medesimo, non mancarono i popoli, e manco i soldati al governo; e se Vittorio Amedeo II, già signori i Francesi di quasi tutto il Piemonte, e già oppugnanti con ottantamila soldati, fornitissimi di cavallerìa e di grosse artiglierìe, la capitale del regno, non disperò delle sue sorti, anzi finalmente con una subita e gloriosa vittoria ricuperò lo stato, stupiranno i posteri, che Vittorio Amedeo III, intero ancora lo stato suo in Italia, intere le fortezze, intero l'esercito, ad un primo romoreggiare di Francesi si sia sbigottito nell'animo, e dato subitamente in preda a coloro, che con una pace a lui pregiudiziale, non altro fine avevano, se non di costringere l'Austria ad una pace utile a loro.

Poco lodevole certamente fu la risoluzione del re del venirne a patti così prestamente coi repubblicani, ma non fu senz'arte il suo procedere dopo fermata la concordia, ed in tanta ruina di cose. Avevano egli ed i nobili, coi quali più strettamente si consigliava, non impediti dagli strepiti presenti a discernere la natura degli uomini, bene penetrato quella del capitano Francese, che superba coi popoli, umile col nobili, faceva di modo ch'egli tanto volontieri calpestasse i primi, sebbene le parole sue suonassero diversamente, quanto amava di essere corteggiato dai secondi, ambizione l'una e l'altra incomportabile, quella per isfrenatezza d'imperio, questa per vanità d'animo. Per la qual cosa furongli tosto i principali fra la nobiltà Piemontese intorno per andargli a versi. Fugli intorno per comandamento del re il marchese di San Marzano, e gli piacque: fugli intorno il barone Delatour testè venuto da Vienna, dov'era stato mandato per accordare con l'imperatore Francesco i pensieri della guerra, e gli piacque. Piacquegli altresì e funne contentissimo, che il duca d'Aosta, figliuolo secondogenito del re, che, avuto il governo dell'esercito, si era condotto a Racconigi per raccorlo, gli scrivesse lettere piene di cortesi parole, e di facile condiscendenza. Dava ammirazione il vedere come una amicizia così fresca, e così piena di disgrazie pel Piemonte fosse accompagnata da sì amorevoli uffizj. Bene considerate erano tutte queste cose da parte del governo regio, perchè dimostravano ch'ei non si lasciava trasportar dallo sdegno contro la propria utilità, e che superava gli umori per benefizio dello stato. Tanto poi fu durevole in Buonaparte la dolcezza di questi attaccamenti, che non gli potè dimenticare, e serbò sempre per la casa di Savoja tale tenerezza, che se nei tempi che succedettero ella non potè risorgere, fu piuttosto colpa di lei, che di lui. Insomma egli aveva penuria di cavalli, e se ne gli offerivano; bisogno di barche a passare il Po, e se ne gli fornivano; Bonafous arrestato dai paesani fu rimesso in libertà, così ordinando il re, dal duca d'Aosta, perchè portavano opinione, nel che s'ingannavano, che Buonaparte avesse a cuore la liberazione di lui. Nelle conferenze poi più segrete esortava i ministri di Vittorio Amedeo a confortarlo a star di buon animo, perchè solo che la Francia fosse sicura, le presenti disgrazie sarebbero, come diceva, la sua grandezza. Quanto ai zelatori della libertà affermava, che non sarebbe mai per tollerare che facessero novità, e se qualche Francese gli fomentasse, gliene facessero sapere, che tosto l'avrebbe o castigato o scambiato. Tutte queste dimostrazioni faceva Buonaparte sì per arte per aver le spalle libere a correre contro l'imperatore, e sì per inclinazione, perchè era amatore dei governi assoluti; poichè egli, che sempre procedè fintamente per la libertà, procedè sinceramente pel dispotismo.

Avendo adunque fermate le armi col re, acconce le condizioni del Piemonte e posto in sua balìa quel primo stato d'Italia, il che gli alleggeriva il bisogno di tenersi truppe alle spalle, innalzava l'animo ad imprese più grandi; e perchè l'esercito non gli mancasse sotto, mandava fuori un bando:

«Ecco, diceva, o soldati, che in quindici giorni avete vinto sei battaglie, preso trenta stendardi, cinquantacinque cannoni, parecchie fortezze, quindici mila prigioni; avete ucciso diecimila nemici, conquistato la parte più ricca del Piemonte, vinto battaglie senza cannoni, varcato fiumi senza ponti, marciato viaggi senza scarpe, passato notti senza tetti, sostenuto giorni senza pane. Le falangi repubblicane, i soldati soli della libertà capaci sono di sì virili sopportazioni; rendevi la patria grazie dell'acquistata prosperità: vincitori di Tolone, le vittorie del novantatre presagiste; vincitori dell'Alpi, più fortunate guerre presagiste: non più fra sterili rupi, non più fra monti inaccessibili, ma nella ricca Italia avrete a far guerra; ecco che gli eserciti, che testè vi assalivano con audacia, fuggono con terrore al cospetto vostro: ecco trepidar coloro, che si facevano beffe della miseria vostra: ma se avete operato cose grandi, restanvene maggiori a compire. Non ancor sono Roma e Milano in poter vostro, ancora insultano alle ceneri dei vincitori dei Tarquinj gli assassini di Basseville: altre battaglie avete a vincere, altre città ad espugnare, altri fiumi a varcare. Forse alcuno di voi si ritragge? Forse sulle cime dei superati monti ama tornarsene per esser quivi di nuovo segno delle ingiurie di una soldatesca di schiavi? No, i vincitori di Montenotte, di Millesimo, di Dego, e di Mondovì bramano tutti di portar più oltre la gloria del nome Francese; tutti vogliono una pace utile alla patria; tutti desiderano alle paterne mura tornarne, tutti quivi con militare vanto dire: Ancor io mi fui dell'esercito conquistatore d'Italia. Promettovi, amici, ed a voi per ciò mi lego, che dell'Italia vittoria avrete; ma frenate, per Dio, gli orribili saccheggi, sovvengavi, che siete liberatori dei popoli, non flagello: non contaminate con la licenza le vittorie, nè il nome vostro; non contaminate la fama dei fratelli morti nelle battaglie. Io sarò freno a tanto vituperio; vergognereimi al reggere un esercito indisciplinato: ogni scelerato soldato, che con gli oltraggi, e col ladroneccio oscurerà lo splendore dei vostri fatti, fia da me, senza remissione alcuna, dato a morte».

Questo favellare di un capitano vittorioso a soldati vittoriosi, a Francesi massimamente tanto avidi di gloria d'armi, partoriva un effetto incredibile: coll'immaginare già facevano loro la Germania lontana, non che l'Italia vicina. Quel dimostrar poi di voler frenare il sacco, era molto accomodato consiglio per dare sicurtà ai popoli spaventati da una fama terribile, e da fatti più terribili ancora.

Rivoltosi poscia ai popoli d'Italia, mandava, venire il Francese esercito per rompere i ceppi loro; essere il popolo Francese amico a tutti i popoli; accorressero a lui confidentemente, lealmente, securamente; serberebbe intatte le proprietà, la religione, i costumi; fare i Francesi la guerra da nemici generosi, solo averla coi re.

Quali sentimenti producessero sì fatti incentivi, coloro sel pensino, che sanno quanto operi la forza congiunta a magnifiche parole: nè è da far maraviglia, se queste guerre vive dei Francesi di tanto abbiano prevalso alle guerre morte dei Tedeschi.

Possente ajuto a far la guerra da fronte era la quiete alle spalle. Arrivarono le novelle desideratissime, essersi conclusa la pace il dì quindici maggio fra la repubblica e il re. Furono le condizioni principali, cedesse il re alla repubblica la possessione del ducato di Savoja e della contea di Nizza; oltre le fortezze di Cuneo, Ceva, e Tortona mettesse in potestà dei repubblicani Icilia, l'Assietta, Susa, la Brunetta, Castel Delfino ed Alessandria, od in luogo suo, ed a piacere del generale di Francia, Valenza; smantellassersi a spese del re Susa e la Brunetta, nè alcuna nuova fortezza potesse rizzare per quella frontiera; non desse passo ai nemici della repubblica; non sofferisse ne' suoi stati alcun fuoruscito o bandito Francese; restituissersi da ambe le parti i prigionieri fatti in guerra; abolissersi, ed in perpetua dimenticanza mandassersi i processi fatti ai querelati per opinioni politiche; a libertà si restituissero, e dei beni loro posti al fisco si redintegrassero; avessero facoltà, durante il loro quieto vivere, o di starsene senza molestia negli stati regj, o di trasferirsi là dove più loro piacesse; dei paesi occupati dai Francesi conservasse il re il governo civile, ma si obbligasse a pagare le taglie militari, ed a fornir viveri e strame all'esercito repubblicano; disdicesse l'ingiuria fatta al ministro di Francia in Alessandria.

Questo trattato, che dalla parte della repubblica sentiva in tutto l'oppressione, in nulla l'amicizia, aveva in se ogni radice di dissoluzione: solo poteva, e doveva durare finchè la forza durasse; si rendeva per lui lecito al sovrano del Piemonte il sottrarsi per ogni mezzo, che in poter suo fosse, da sì dure, ed inusitate condizioni; poichè, se importava alla repubblica l'indebolire un nemico ostinato, ed anzi forte e generoso, non si vede, che cosa le importasse il volere, che i fuorusciti Francesi, la più parte vecchj od infermi, e tutti miseri, da' suoi stati cacciasse. Quest'era non debilitare il nemico, ma farlo vile, ed il lasciare in lui semi di rabbia, e di vendetta. Vide intanto il Piemonte uno spettacolo miserando; che quelle mani stesse, e quelle subbie, e quei martelli che avevano costrutto la Brunetta, opera veramente maravigliosa, forse unica al mondo, e degna di Roma antica, ora la demolissero, e se allo scoppio delle distruggitrici mine sentivano i Piemontesi uno immenso sdegno, avrebbero i Francesi, quando una infatuazione compassionevole non gli avesse in quell'età fuori di loro medesimi tirati, sentito vergogna; perocchè care a tutti sono le opere mirabili dell'umano ingegno; e se la Francia voleva pure per sicurezza del suo stato, e per istabilirsi totalmente il passo in Italia, che quel propugnacolo si disfacesse, doveva almeno per un pudore Europeo, e non istraneo ad una nazione non barbara, con le proprie mani disfarlo, non obbligar a disfarlo coloro, che edificato l'avevano; conciossiacosachè ciò era aggiungere l'ingiuria al danno.

Fatta la pace e domate le forze regie, aveva Buonaparte diminuito considerabilmente la potenza della lega in Italia. L'esercito Austriaco congiunto coi soldati di Napoli, e con qualche parte di Tedeschi testè arrivata dal Tirolo,si trovava solo esposto a tutto l'impeto dei repubblicani, ai quali veniva a congiungersi gente fresca, che dall'Alpi e dagli Apennini a gran passi calava, allettata dalla fama di tante vittorie. Nè il generale della repubblica era uomo da lasciar imperfetta l'opera, perchè dall'una parte il chiamava la popolosa e ricca Milano con quelle opime terre della Lombardìa, dall'altra la necessità lo spingeva a non lasciar respirar i Tedeschi, finchè non gli avesse rotti e cacciati d'Italia intieramente. Lo starsene avrebbe raffreddato l'ardore de' suoi, e dato tempo all'imperatore, che pure aveva il cuore nelle sue possessioni Italiche, di avviarvi gagliardi ajuti di soldati, e di munizioni. La mira principale, e tutta l'importanza dell'impresa erano d'impadronirsi di Milano. Al qual fine due strade se gli appresentavano; l'una di passare il Po a Valenza e di condursi per la dritta alla metropoli della Lombardìa Austriaca, insistendo sulla sinistra del fiume largo, rapido e profondo; l'altra di varcarlo sotto la foce del Ticino per ischivare questo medesimo fiume, ancor esso grosso e profondo, e di una rapidità singolare, con tutti gli altri che avrebbe per viaggio incontrati, se avesse varcato al passo di Valenza. Appigliossi al secondo partito, il quale, oltre la maggior sicurezza che aveva in se, dava opportunità di metter taglie al duca di Parma, il quale sebbene subito dopo la tregua di Cherasco fosse stato esortato ad accordarsi con Francia da Ulloa, ministro di Spagna a Torino, non vi aveva voluto consentire.

Adunque risolutosi del tutto Buonaparte a voler varcare il Po tra le foci del Ticino e dell'Adda, il che doveva anche dar timore a Beaulieu di vedersi tagliar fuori dal Tirolo, con arte veramente mirabile, oltre la condizione del passo di Valenza inserita nella tregua fatta a Cherasco, dava voce che voleva passare a Valenza, e richiedeva continuamente il governo Sardo di barche pel Valenziano passo. Là mandava carri, là artiglierìe, là soldati, e vi faceva intorno una continua tempesta. Beaulieu, udita la tregua, tentate per una soprammano inutilmente le fortezze di Alessandria e di Tortona, perchè fu ributtato dai presidj Piemontesi che vi stavano vigilanti, aveva passato il Po a Valenza, ardendo tutte le barche che nelle vicine rive si trovavano. Condottosi sulla sinistra sponda con tutto l'esercito e proprio e Napolitano, stava attento ad osservare quello, che fosse per partorire l'astuzia, e l'ardire dell'avversario. Ma quantunque sperimentato ed accorto capitano fosse, si lasciò prendere agl'inganni del giovane generale della repubblica; perciocchè fece concetto, che veramente questi avesse l'intento di varcare a Valenza. Per la qual cosa si era alloggiato tra la Sesia ed il Ticino, affortificandosi per fare due prime teste grosse sulle rive dell'Agogna e del Terdappio, e rendendosi forte massimamente su quelle del Ticino. Siccome poi la città di Pavia, posta sul Ticino vicino al luogo dov'egli mette nel Po, e dov'è un ponte, gli dava sospetto, l'aveva munita, sulle rive del fiume, di trincee, e d'artiglierìe. Per questi medesimi motivi aveva lasciato con poche guardie la sinistra del Po, non solo fra il Ticino e l'Adda, ma ancora fra la Sesia ed il Ticino. Ecco intanto che Buonaparte sicuro oggimai di conseguire il fine che si era proposto, mandava una mano di veloci soldati, comandandole facesse due alloggiamenti per giorno, verso Castel San Giovanni. Seguitava egli medesimo più che di passo con tutte le genti, mentre le sue artiglierìe continuavano a fulminare, per non lasciar cader l'inganno, dalle rive di Valenza. Il colonnello Andreossi e l'ajutante generale Frontin spazzavano con cento soldati di cavallerìa tutta la riva destra del Po insino a Piacenza, recando anche in poter loro alcune barche, le quali navigavano alla sicura sul fiume, portando riso, ufficiali, e medicamenti destinati agl'imperiali.

Usando adunque celeremente l'occasione favorevole aperta dall'arte del generale loro, i Francesi colla vanguardia composta di cinque mila granatieri, e quindici centinaja di cavalli, varcavano felicemente il dì sette maggio su quelle barche medesime, e sopra alcune altre che loro si offersero preste a Piacenza, il fiume, e con allegrezza indicibile afferravano la sinistra sponda. Seguitava a veloci passi Buonaparte, per tale guisa che il dì otto quasi tutto l'esercito aveva posto piede sulle Milanesi sponde. In questo passaggio per Piacenza si vide un funesto segno della rapacità dei primi capi repubblicani, e del poco rispetto in cui avevano le cose più sacre; perchè Buonaparte, e Saliceti commissario del direttorio, poste le mani violentemente nei monti di pietà, e nelle casse non solamente ducali, ma ancora del municipio, e di diversi luoghi pii, quante robe preziose o danari vi trovarono, tante involarono.

Non così tosto ebbe udito Beaulieu le novelle del precipitarsi i Francesi verso il basso Po, che spediva una grossa banda a Fombio, terra posta rimpetto a Piacenza sulla sinistra del fiume, per impedire, se ancora fosse a tempo, il passo ai repubblicani. Egli intanto ritirava le genti sull'Adda sì per serbarsi aperte le strade al Tirolo, e sì per munire Mantova di gagliardo presidio, se la fortuna tanto fosse contraria all'armi imperiali, che il costringesse a lasciar del tutto la possessione d'Italia ai Francesi. Avvisava ancora che finchè il grosso de' suoi, che malgrado delle sconfitte era tuttavìa formidabile, si conservasse intiero sulle rive di questo fiume, pericolosa impresa sarebbe stata pei Francesi il correre a Milano, posciachè egli avrebbe potuto a grado suo assaltargli sul loro fianco destro. Perlochè s'avviava con la maggior parte delle genti a Lodi per guardar il ponte, che ivi apre il varco dalla destra alla sinistra del fiume. Mandava altresì una forte squadra, principalmente di cavallerìa, a Casal Pusterlengo, affinchè passando per Codogno, fosse in grado di servire come retroguardo alla schiera di Fombio, e di soccorrerla, ove bisogno ne fosse. Pavìa intanto, città nobile per la università degli studj, abbandonata da' suoi difensori, non si reggeva più che con la guardia urbana, aspettando di obbedire a chi col primo strepito di tamburi sotto le sue mura si appresentasse. Bene erano considerati i disegni di Beaulieu, ma la prestezza Francese gli ebbe guasti; i soldati mandati a Fombio, benchè con veloce viaggio fossero accorsi, arrivavano, non più per contrastar il passo al nemico, ma solo per combattere il medesimo, che già era passato. Buonaparte, che con la solita sagacità prevedeva, che quella testa grossa di Austriaci, se le desse tempo di essere soccorsa, poteva disordinare i suoi pensieri, perciocchè quantunque, egli avesse varcato, non era ancor ordinato a suo modo, ed in punto di tutto, si deliberava ad assaltarla senza dilazione. Occupavano gli Austriaci la terra di Fombio, in cui avevano fatto in fretta, e munito di venti pezzi d'artiglierìa alcune trincee: i cavalli, la maggior parte Napolitani, che in questa fazione si portarono egregiamente, battevano la campagna. La moltitudine delle sue genti permetteva a Buonaparte di allargarsi, e di assaltar da diverse parti la terra, solo mezzo che gli restava, stante le fortificazioni fatte dagli Austriaci, perchè il combattere fosse breve e felice. Adunque spartiva i suoi in tre bande, delle quali la prima col generale d'Allemagne, doveva, girando a destra, assaltar Fombio sulla sinistra, la seconda condotta dal colonnello Lannes, intrepidissimo guerriero, era destinata a dar dentro sulla destra, e finalmente il generale Lanusse con la mezzana aveva carico di attaccar la battaglia sulla mezza fronte della piazza per la strada maestra. Fu forte l'incontro, forte ancora la difesa; perchè gli Austriaci sfolgorarono gli assalitori con le artiglierìe ed i cavalli Napolitani, opprimendo i soldati corridori, ed assaltando con impeto gli squadroni stabili, rendevano difficile la vittoria ai Francesi. Gli Austriaci combattevano valorosamente e per natura propria, e per la speranza del soccorso vicino. Finalmente prevalsero, non prima però che non fosse stato fatto molto sangue, l'impeto, la moltitudine e l'audacia dei Francesi. Andavano gl'imperiali in rotta ed abbandonato Fombio a chi poteva più di loro si ritiravano a gran fretta a Codogno, con lasciar ai vincitori non poca parte delle bagaglie, trecento cavalli, circa cinquecento tra morti e prigionieri: sarebbe stata più grave la perdita, se la cavallerìa Napolitana, condotta massimamente dal colonnello Federici, uffiziale di gran valore, serrandosi grossa ed intiera alla coda, ed urtando di quando in quando gagliardamente il nemico, non avesse ritardato l'impeto suo, e fatto abilità ai disordinati Austriaci di ritirarsi.

Usando i repubblicani la fortuna propizia, seguitavano passo passo i confederati, ed occupavano Codogno. In questo mentre sopraggiunse la notte. Aveva Beaulieu avuto le novelle del passo dei Francesi, e del pericolo de' suoi assaltati in Fombio. Comandava pertanto a cinque mila eletti soldati, corressero da Casal Pusterlengo per la strada di Codogno in soccorso di Fombio, credendo, che i suoi tuttavìa in quest'ultima terra si sostenessero. Fu questo un molto audace comandamento, e che poteva rompere i disegni al generale della repubblica, se fosse stato secondato dalla fortuna. In fatti arrivavano i Tedeschi nel bujo della notte sopra i Francesi all'improvviso, e sbaragliate le prime guardie, seminarono terrore e disordine in Codogno; anzi spingendosi oltre, s'impadronivano di parte della terra. Non era più pari la battaglia, perchè si combatteva da una parte con intento e con ordine certo, dall'altra con soldati scompigliati, sorpresi ed impauriti. Accorreva al subitaneo romore Laharpe, e postosi a guida di un reggimento fresco marciava per rinfrancare la fortuna vacillante. L'avrebbe anche fatto, se nel bel principio di quella mischia, colto nel petto da una palla mortale, non fosse stato tolto subitamente di vita. In tale guisa mancò in un casuale incontro, ed in una battaglia notturna nel fiore della sua età il generale Laharpe, soldato di compito valore, ma ancora più di compita virtù. Ei fu tale, che amato da tutti in vita, pianto da tutti in morte, meritò, che il caso suo fatale fosse attribuito dai contemporanei, sebbene a torto, a chi per troppo diversa natura l'invidiava; uomo felicissimo, che nell'ultimo evento stesso del suo corso mortale tanto l'opinione il differenziava da altri, che non a caso fortuito, ma a pensato disegno fu la sua morte imputata.

L'accidente sinistro di Laharpe sgomentò di modo i repubblicani, che le sorti loro avevano del tutto il tracollo, se non arrivava frettolosamente il generale Berthier, che con la sua presenza tanto fece che rinfrancò gli spiriti, e riordinò le schiere sbigottite e disordinate. Spuntava intanto il giorno: i Tedeschi nell'ardir loro moltiplicando, perchè già si credevano in possessione della vittoria, si allargavano sulle ali per circondare il nemico. Ma già si erano riavuti i Francesi; i Tedeschi medesimi, veduto al lume del giorno, che i nemici superiori assai di numero, facevano le viste di assaltargli, pensarono al ritirarsi; il che fecero prima in buon ordine e regolatamente, poscia disordinati e rotti, instando acremente i Francesi, oramai consapevoli dei loro vantaggi. La schiera tutta sarebbe stata condotta all'ultimo termine, se per la seconda volta la cavallerìa Napolitana non le faceva scudo alla ritirata. Così una conseguita vittoria divenne in un subito una rotta evidente. Perdettero in questo fatto i Tedeschi quasi tutto il bagaglio, non poche artiglierìe lasciate nei fossi della terra, molti prigionieri fra i dispersi. Tenevano loro dietro a gran passo i repubblicani, e s'impadronivano di Casale, mentre i residui degl'imperiali si ricoveravano a Lodi, dov'era giunto con tutte le sue forze Beaulieu, e dove voleva pruovare per l'ultima volta, se obbligando il fortunato emulo suo a fare un moto eccentrico verso destra per venirlo ad assaltare a Lodi, gli venisse fatto di rompere quell'ascendente che aveva, e trasportare in se il favore della volubile fortuna. A Lodi adunque in un ultimo cimento si doveva combattere della salute di Milano, della conservazione della Lombardìa, del destino delle reliquie ancora potenti delle genti imperiali.

Avvisavasi ottimamente il capitano Austriaco, che perduto il passo del Ticino, e poichè i Francesi avevano varcato il Po, non gli restava altra sedia di guerra opportuna a farvi testa, che il grosso e rapido fiume dell'Adda, le parti inferiori del quale si trovavano assicurate dalla fortezza di Pizzighettone munita di artiglierìe, e di sufficiente presidio. Vuotata adunque Pavia, e lasciati dentro il castello di Milano due mila soldati, la maggior parte del corpo franco di Giulay, aveva raunato tutte le sue genti a Lodi. Siccome poi sapeva di certo che il veloce Buonaparte, dopo le vittorie di Fombio e di Codogno, non avrebbe indugiato a venire ad assaltarlo, perchè quello era l'ultimo cimento per aver Milano, aveva collocato la sua retroguardia, sotto guida del colonnello Melcalm, suo parente, in Lodi, comandandogli che resistesse quanto potesse, ed in caso di sinistro si ritirasse sulla sinistra del fiume. Intanto per assicurare il passo del ponte, molte bocche da fuoco situava all'estremità di lui presso la sinistra sponda per modo che direttamente l'imboccavano, e spazzare potevano. Nè parendogli che questo bastasse alla sicurezza di quel varco importante, munì la riva sinistra con venti pezzi d'artiglierìe grosse, dieci sopra, dieci sotto al ponte, le quali coi tiri loro battendo in crociera parevano rendere il passo piuttosto impossibile, che difficile. Gli Austriaci, cui nè tante rotte, nè una ritirata di sì lungo spazio non avevano ancora disanimato, se ne stavano schierati sulla sinistra riva, pronti a risospingere l'inimico disordinato dal passo del ponte, se mai contro ogni credere l'avesse effettuato. Danno alcuni biasimo a Beaulieu del non aver tagliato il ponte in vece di averlo munito, presumendo che i Francesi non avrebbero potuto varcare, se il ponte, fosse stato rotto, perchè gl'imperiali forti di artiglierìe, ed ancora più di cavalli, avrebbero avuto abilità o di arrestare i passanti, o di conquidere i passati. Ma e' bisogna avvertire, che l'intento di Beaulieu era non solamente d'impedire il passo al nemico, ma ancora di conservarlo per se, perchè ed aspettava ajuti, e voleva render sospetto ai Francesi l'andare a Milano. Quale di queste sia la parte sana, perchè può essere errore uguale il giudicar dagli eventi, come il giudicare dai disegni, arrivava Buonaparte impaziente delle guerre tarde, e veduto i preparamenti del nemico, e sloggiatolo da Lodi con un assalto presto, si risolveva, correndo il decimo giorno di maggio, a far battaglia sul ponte, quantunque tutti i suoi non fossero ancora quivi raccolti. I generali suoi compagni, che vedevano l'impresa molto pericolosa, fecero opera di sconfortarnelo, rappresentandogli la fortezza del luogo, la stanchezza dei soldati, le genti menomate dalle battaglie, e minorate dalla lontananza di molte schiere valorose. Ma egli, che ne sapeva più di tutti, che voleva quel che voleva, e che era non che liberale, prodigo del sangue dei soldati, purchè vincesse, persisteva a voler dar dentro, e tosto si accingeva alla pericolosissima fazione. Fatto adunque venire a se un nodo di quattro mila granatieri e carabine, gente rischievole, use al sangue, pronta a mettersi ad ogni sbaraglio, diceva loro con quel suo piglio alla soldatesca, che tanto piaceva a' suoi soldati:

«Vittoria chiamar vittoria; esser loro quei bravi uomini, che già avevano vinto tante battaglie, fugato tanti eserciti, espugnato tante città; già temere il nemico, poichè già dietro ai fiumi si ritirava: credersi quel Beaulieu già tante volte vinto, che il breve passo di un ponte arrestar potesse i repubblicani di Francia; vana presunzione, vana credenza: aver loro passato il Po, re dei fiumi; arresterebbegli l'umile Adda? Pensassero, esser questo l'ultimo pericolo; superatolo, in mano avrebbero la ricca Milano; dessero adunque dentro francamente, sostenessero il nome di soldati invitti; guardargli la repubblica grata alle fatiche loro, guardargli il mondo maravigliato, ed atterrito alla fama di tante vittorie: quì conquistarsi Italia, quì rendersi il nome di Francia immortale».

Schieraronsi, serraronsi, animaronsi, contro il ponte marciarono. Non così tosto erano giunti, che gli fulminavano un tuonare d'artiglierìe d'Austria orrendo, una grandine spessissima di palle, un nembo tempestoso di schegge. A sì terribile urto, a sì duro rincalzo, alle ferite, alle morti, esitavano, titubavano, s'arrestavano. Se durava un momento più l'incertezza, si scompigliavano. Pure il valor proprio, ed i conforti dei capitani tanto gli animarono, che tornavano una seconda volta all'assalto: una seconda volta sfolgorati cedevano. Vistosi dai generali repubblicani il pericolo, ed accorgendosi che quello non era tempo da starsene dietro le file, correvano a fronte Berthier il primo, poi Massena, poi Cervoni, poi Dallemagne, e con loro Lannes e Dupas, e si facevano guidatori intrepidi dei soldati loro in un mortalissimo conflitto. Le scariche delle artiglierìe Tedesche avevano prodotto un gran fumo, che avviluppava il ponte; del quale accidente valendosi ì repubblicani, e velocissimamente il ponte attraversando, riuscirono, coperti di fumo, di polvere, di sudore e di sangue sulla sinistra sponda. Spigneva oltre Buonaparte subitamente i restanti battaglioni; ma le fatiche loro non erano ancora giunte al fine, nè la vittoria compita, perchè gl'imperiali ordinati sulla riva, facevano tuttavia una ostinatissima resistenza. Tuonavano le artiglierìe, calpestavano i cavalli, la battaglia, siccome combattuta da vicino, più sanguinosa. Già correvano pericolo i Francesi di essere rituffati nel fiume, ed obbligati a rivarcare con infinito pericolo il ponte con sì estremo valore acquistato, quando opportunamente giunse con la sua eletta squadra Augereau, che udito l'avviso della battaglia orribile, a gran passi dal Borghetto in ajuto de' suoi compagni pericolanti accorreva. Questa giunta di forze in momento tanto dubbio fece del tutto sormontare la fortuna Francese. Beaulieu, abbandonato il bene contrastato ponte, si ritirava prestamente con animo di andarsi a porre sul Mincio per serbare le strade aperte al Tirolo, e per assicurar Mantova con un grosso presidio.

La cavallerìa Tedesca, ma principalmente la Napolitana, che anche in questo fatto soccorse egregiamente ai Tedeschi, proteggeva il ritirantesi esercito. Per questa cagione, e perchè la cavallerìa di Francia, che non ancora aveva potuto varcar il ponte fracassato, penava a passar a guado, di pochi prigionieri nella ritirata loro furono gl'imperiali scemi. Bensì perdettero nel fatto duemila cinquecento soldati tra morti e feriti, quattrocento cavalli, gran parte delle artiglierìe. Sopraggiunse la notte. Tra per questo, e per la stanchezza dei soldati repubblicani accorsi a passi frettolosi, e per l'affrontarsi della fiorita cavallerìa dei confederati, non poterono i Francesi fare quel frutto col perseguitare, che avrebbero desiderato.

Grave fu anche la perdita dei Francesi: se non arrivò ai quattromila o morti, o feriti, o prigionieri, come la parte avversa pubblicò, certo passò i duemila, ancorchè Buonaparte con la solita fronte abbia pubblicato, essere mancati de' suoi solamente quattrocento. La ritirata dei confederati assicurò i repubblicani delle cose di Lombardìa, e pose in mano loro Pavia, Pizzighettone e Cremona: la imperial Milano, priva oramai di difesa, tanto solamente indugiava a venir sotto l'imperio repubblicano, quanto tempo abbisognava ai repubblicani per arrivarvi. Mescolaronsi a questi gloriosi fatti i saccheggi, e le devastazioni.

Giunte in Milano le novelle del passo del Po, e dello abbandonarsi da Beaulieu la frontiera del Ticino, vi sorse un grande sbigottimento, poichè vi si prevedeva, che poca speranza restava di conservare la città sotto la divozione dell'Austria. Erano gli animi di tutti, come in una popolazione ricca, allo approssimarsi di soldatesche nuove, non conosciute, e forse anco troppo conosciute. Era stato mansueto il governo dell'arciduca, nè quello della nobiltà tirannico; che anzi partecipando dell'indole benigna di chi reggeva, della natura dolcissima del clima, e di una educazione piuttosto data alle mollezze della vita, che al dominare, aveva la nobiltà più clientela per amore, che potenza per feudalità. Mancavano adunque nel Milanese le cagioni di mala soddisfazione, che in altre contrade d'Italia si derivavano dalla durezza del governo, e dalle insolenze dei nobili. Quindi nasceva, che sebbene i popoli siano generalmente amatori di novità, e non conoscano il bene se non quando l'han perduto, non si manifestavano nella felice Lombardìa segni di future e spontanee rivoluzioni. Ognuno anzi temeva per se, per le famiglie, per le sostanze. Queste cose tenevano i Milanesi sospesi; nè per la natura loro erano capaci di lasciarsi muovere da certe astrazioni di governi geometrici. Temevano anzi, che siccome la città loro era grossa e ricca, così vi facessero i repubblicani la principale stanza loro, ond'ella diventasse e segno di oppressione speciale per se, e fomento di rivoluzione per gli altri. Siccome poi non erano le faccende della guerra sicure, così dubitavano che nell'andare e venire reciproco, e nel rincacciarsi dei due potenti nemici, la misera Milano non avesse a pagar il fio di quanto più la faceva cara e preziosa al mondo. Sapevano che pochi erano fra loro i zelatori di novità, e questi pochi ancora quieti, e rimessi secondo la natura del paese; ma apprendevano che ove i repubblicani vi avessero posto sede, da tutta Italia vi concorressero o gli scontenti dei governi regj, o gli amatori della repubblica, e con mezzi nuovi ed insoliti vi partorissero accidenti ignoti, e forse terribili. Per la qual cosa vi si viveva in grande spavento.

L'arciduca Ferdinando, che vedeva, che popoli disarmati e quieti non potevano difenderlo da gente armata ed audacissima, giacchè l'esercito imperiale stesso non era stato abile a tenerla lontana, abbandonato d'ogni speranza, si risolveva a lasciar quella sede per andarsene nella sicura Mantova, o quando i tempi pressassero di vantaggio, nella lontana Germania. Desiderando però prima che partisse, provvedere alla quiete dei popoli, ordinava con editto dei sette maggio, che i cittadini abili all'armi si descrivessero ed in milizia urbana si ordinassero. Ai nove, aggravandosi viemaggiormente il pericolo per l'approssimarsi dei repubblicani, creava una giunta composta dei presidenti d'appello e di prima instanza, e del magistrato politico camerale, con autorità di fare quanto al governo si appartenesse, ed a questa giunta, come a capo supremo dello stato, voleva che i magistrati minori obbedissero. L'ordine giudiziale a far l'ufficio, come per lo innanzi, continuasse.

Avendo per tale guisa l'arciduca provveduto alle faccende, se ne partiva il medesimo dì nove di maggio alla volta di Mantova, avviandosi dove già era arrivata la sua famiglia. L'accompagnavano personaggi di nome, fra i quali il principe Albani, ed il marchese Litta. Mesta era la comitiva: l'arciduca non assuefatto a sentire i colpi dell'avversità, accusava piangendo non la fortuna, ma, secondochè si usa nelle disgrazie, i cattivi consigli di Beaulieu. La fuggitiva schiera passava pel territorio Veneto, miserando spettacolo: faceva più compassionevole quella calamità la moltitudine delle persone di ogni grado, di ogni età, e di ogni sesso, le quali fuggendo la furia dei repubblicani, abbandonate agli strani le case loro, correvano a ricoverarsi sulle terre Veneziane, destinate ancor esse, e molto prossimamente, alla medesima ruina. Così l'egregia Milano, stata da lungo tempo felicissima, spogliata di difensori, privata del suo principe, se ne stava aspettando non conosciute venture. Seguitava un interregno di tre giorni, in cui non essendo più in potere dell'Austria, nè ancora in quello della Francia, si reggeva con le proprie municipali leggi; nè in questo tempo vi si udirono minacce, od insulti di persone, nè rubamenti, nè desiderj di novità. Tanto era buona la natura di quel popolo!

Buonaparte intanto, espeditosi per la vittoria di Lodi di quanto più pressava nella guerra, e già stimando Milano, com'era veramente, in sua potestà, mandava Massena a farsene signore. In questo mentre mandavano i magistrati municipali i loro delegati ad offerire la città a Buonaparte, che si trovava alle stanze di Lodi, pregandolo di usare mansuetudine verso un popolo in ogni tempo quieto, nemico a nissuno, confidente nella generosità dei Francesi. Rispose benignamente, porterebbe rispetto alla religione, alle proprietà, alle persone. Il giorno quattordici di maggio entrava Massena con una schiera di diecimila soldati valorosissimi. L'accampava, la maggior parte, fuori delle mura per modo ordinandola, che i fanti occupassero tutti gli aditi degli spalti, i cavalli custodissero le porte. L'incontravano al Dazio di Porta Romana i municipali. Disse, per mescolare qualche temperamento alla fierezza dell'armi, che sarebbero salve la religione, le persone, le proprietà. Arrivarono il giorno dopo nuovi corpi di truppe; ogni parte piena di soldati. Incominciossi l'opera dell'oppugnar il castello, a cui si erano riparati gli Austriaci. I Francesi furono accolti nelle case con la dolcezza del fare Milanese, ed eglino ancora, dico la maggior parte, cortesemente procedendo, e con quel loro solito brio mostrandosi, tiravano facilmente a se gli animi dei cittadini, che, veduto, che quei repubblicani non erano tanto terribili quanto la fama aveva portato, rimettevano del terrore concetto, e si affezionavano ai nuovi ospiti, venuti per venture strane e spaventevoli nel paese loro. Tal era la condizione del popolo Milanese, quando i Francesi entrarono in Milano, dolce, ed affettuosa, nè contraria, nè propensa a quella libertà, che si andava predicando.

Arrivavano intanto i repubblicani, sì finti come sinceri, i quali o allettati dalla fama, o costretti dalla necessità, fuggendo lo sdegno dei signori loro, concorrevano, come in sede propria, e di salute nella città conquistata. A costoro si univano i repubblicani Milanesi, ed intendevano a far novità. Fra tutti questi, gli utopisti si rallegravano, persuadendosi, che fosse venuto il tempo di veder in opera quella specie di reggimento, che nelle buone menti loro si avevano concetta; nè gli poteva torre alla immagine lusinghiera l'apparato terribile delle armi forestiere, nè la natura poco costante in se medesima dei Francesi, nè l'autorità militare fatta padrona di ogni cosa, e certamente pessima compagna di libertà. Servi di un'opinione anticipata e di un dolce delirio, andavano sognando una perpetua felicità, nè s'accorgevano, che la repubblica di Francia non combatteva nè per loro nè per la libertà, ma per la grandezza e la sicurezza del suo imperio, per posseder le quali, se fosse stato necessario, avrebbe dato in preda all'Austria, non che Milano, Italia, ed ancor essi con loro. Di costoro si faceva beffe Buonaparte, stimandogli uomini dappoco, scemi, e, come sarebbe a dire, pazzi. Fra gli altri patriotti, o che si chiamavano tali, era una generazione d'uomini, che amavano lo stato libero, non per desiderio di preda, ma per ambizione, avvisandosi che fosse dolce il comandare, e venuto il tempo propizio per salire dai bassi gradi ai sublimi. Di questi faceva maggiore stima Buonaparte, perchè, come diceva, erano gente che aveva polso, e che per poco che si stimolassero, avrebbero servito mirabilmente a' suoi disegni. Eravi finalmente una terza maniera di questi patriotti, i quali amavano le novità per le ricchezze, e sperando di pescar nel torbido, gridavano ad alte e spesse voci, libertà. Questi non frequentavano mai le stanze di Buonaparte, perchè sebbene qualche volta gli accarezzasse, dava ancor loro spesso di forti rabbuffi; ma amavano molto aggirarsi fra i commissari, e gli abbondanzieri dell'esercito, dei quali diventavano sensali e mezzani, per forma che mentre i buoni utopisti andavano dietro alle loro ubbìe, ed erano per semplicità repubblicana, e volevano esser poveri, questi al contrario si arricchivano a spese di coloro, ai quali dicevano voler dare il vivere libero. Erano molti di tutti questi generi di patriotti.

Fecero grandi allegrezze in sull'entrar dei Francesi di luminarie, di balli, di festini: ma per quella servile imitazione, di cui erano invasati verso le cose Francesi, e che fu la principal cagione della servitù d'Italia, piantarono altresì alberi di libertà, e vi facevano intorno canti, balli, discorsi, ed altre simili tresche. Poscia, acciocchè non mancasse quel condimento delle congreghe pubbliche per aringarvi intorno a cose appartenenti allo stato, le fecero a modo di Francia, ed in loro chi aringava con maggior veemenza, più era applaudito. Tutte queste cose si facevano: il popolo, non potendo restar capace di ciò che vedeva, faceva le maraviglie.

Entrava in Milano il vincitor Buonaparte, non già con semplicità repubblicana, ma con fasto regale, come se re fosse: l'accolsero con grida smoderate i patriotti, e parte del popolo, solito a fare come gli altri fanno. Innumerabili scritti si pubblicarono, in cui sempre più si lodava Buonaparte, che la libertà: mostrossi, per dir il vero, in questo molto schifosa l'adulazione Italiana. Fra i patriotti, chi lo chiamava Scipione, chi Annibale; il repubblicano Ranza il chiamava Giove. I buoni utopisti, quando lo vedevano, piangevano di tenerezza. Queste dimostrazioni egli si godeva tanto in pubblico, quanto in privato; ma augurava male degl'Italiani, perchè essendo egli operatore grandissimo, credeva, e con ragione, che coi fatti, non con le parole si compiscono le grandi mutazioni negli stati. Quando poi uomini o donne amatori sinceri di libertà (che anche donne, e non poche si trovavano tenerissime di lei) a lui si rappresentavano per raccomandargliela, rispondeva con ciglio austero, la conquistassero, uscissero dall'imbelle vita, le armi pigliassero, le armi usassero: dura cosa essere la libertà; duri cuori e dure mani conservarla; fuggire lei la mollezza e il lusso: solo abitare fra le popolazioni forti, e magnanime.

Intanto vedeva il mondo una cosa maravigliosa. Un soldato di ventott'anni, un mese innanzi conosciuto da pochi, avere con un esercito sprovveduto e non grosso superato monti difficilissimi, varcato grossi e profondi fiumi, vinto sei battaglie campali, disperso eserciti più potenti del suo, soggiogato un re, cacciato un principe, acquistato il dominio di una parte d'Italia, apertosi la strada alla conquista dell'altra, convertito in se stesso gli occhi di tutti gli uomini di quell'età. Sapevaselo Buonaparte; l'anima sua ambiziosa maravigliosamente se ne compiaceva. Ma perchè l'aspettativa che aveva desta di lui non si raffreddasse, e per farsi scala a cose maggiori, mandava fuori il venti maggio un discorso molto infiammativo a' suoi soldati:

«Soldati valorosi, diceva, voi piombaste, come torrente precipitoso, dall'Alpi e dagli Apennini; voi urtaste, voi rompeste nel corso vostro ogni ritegno. Il Piemonte, oggimai libero dall'Austriaca tirannide, spiega i naturali suoi sentimenti di pace e d'amicizia verso la Francia. Vostro è lo stato di Milano: sventolano all'aura su tutte le alte cime della Lombardìa le repubblicane insegne: i duchi di Parma e di Modena alla generosità vostra sono del dominio, che ancora lor resta, obbligati. Dov'è l'esercito che testè con tanta superbia v'insultava? Ei non ha più riparo contro al coraggio vostro. Nè il Po, nè il Ticino, nè l'Adda poterono un sol giorno arrestarvi. Vani furono i vantati baluardi d'Italia, vani i gioghi inaccessi degli Apennini. Sentì la patria infinita allegrezza delle vostre vittorie; vuole, che ogni comune le celebri: i padri, le madri, le spose, le sorelle, le amanti dei fausti eventi vostri si rallegrano e si stimano dello avervi per congiunti fortunatissimi. Sì per certo, o soldati, assai faceste; ma forse altro a fare non vi resta? Diranno di voi i contemporanei, diranno i posteri, che abbiam saputo vincere, non usare la vittoria? Accuseranci dello aver trovato Capua in Lombardìa? No, per Dio, no, che già vi veggo correre alle vincitrici armi, già veggo sdegnarvi ad un vil riposo, già sento, i giorni passati senza gloria, esser giorni perduti per voi. Orsù, partianne: restanci viaggi frettolosi a fare, nemici ostinati a vincere, allori gloriosi a cingere, crudeli ingiurie a vendicare. Tremi chi accese le faci della civil guerra, tremi chi uccise i ministri della repubblica, tremi chi arse Tolone, tremi chi rapì le navi: già suona contro a loro in aria una terribile vendetta. Pure stiansi senza timore i popoli: siamo noi di tutte le nazioni amici, specialmente siamo dei discendenti di Bruto, dei Scipioni, di tutti gli uomini grandi, che impreso abbiamo ad imitare. Ristorare il Campidoglio, riporvi in onore le statue degli eroi, per cui tanto è famoso al mondo, destar dal lungo sonno il Romano popolo, torlo alla schiavitù di tanti secoli, fia frutto delle vittorie vostre: acquisteretevi una gloria immortale, cangiando in meglio la più bella parte d'Europa. Il popolo Francese libero, rispettato dai popoli, darà all'Europa una pace gloriosa, che di tanti sofferti danni, di tante tollerate fatiche ristorerallo. Ritornerete allora fra le paterne mura, i concittadini a dito mostrandovi, diranno: fu soldato costui dell'esercito Italico».

Questo tremendo parlare empiva di spavento Italia: ognuno aspettava accidenti terribili.

Fine del Tomo Primo

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