Le riforme emanate dall'autorità – Il carattere di Leone XIII – Le sue riforme intellettuali: neo-tomismo, studi biblici, commissione biblica – La funzione della scolastica nel programma dell'assolutismo papale.

Carissime,

Nella lettera precedente io ti ho descritto le condizioni morali e intellettuali in cui versa l'organismo del cattolicismo ufficiale a Roma. Da una parte ti ho fatto vedere le basi della sua forza e della sua coesione apparente, dall'altra le ragioni certe della sua reale e progressiva debolezza, del profondo malessere che paralizza ogni sua vitalità, che rende sterile ogni sua iniziativa, che provoca ogni dì più il divorzio insanabile fra la coscienza pubblica e la tradizione religiosa del passato.

Per darti un'idea completa dello stato attuale di sfacelo del cattolicismo ufficiale e perchè tu possa formarti una previsione non arbitraria di quel che sarà l'avvenire del cattolicismo, ti esporrò ora i tentativi compiuti sia dall'autorità come dalla volontà individuale di alcuni fra i suoi soggetti, per rinnovare in qualche modo l'efficacia sociale del cattolicismo, per portarlo a un vivo contatto con l'anima contemporanea, per risuscitare in questa bizzarra società moderna, che pure ha tanta fede umana e tanto virile entusiasmo per il progresso, quelle grandi fiammate d'idealità religiose che hanno caratterizzato le popolazioni latine del medio evo.

I tentativi di riforma su cui io voglio intrattenerti sono di un doppio genere. Quelli che son partiti dall'alto sono stati degli abili trucchi per dare apparenza nuova a un contenuto dottrinale decrepito, o sono state mosse diplomatiche per ingannare il pubblico gettando dinanzi ai suoi occhi alcune vane promesse smentite poi dall'attitudine quotidiana e dai moniti confidenziali: delle solenni menzogne per le quali lo storico dell'avvenire non potrà avere che parole di un biasimo rovente. I programmi invece sorti dal basso, formulati in poco numerose conventicole di preti giovani e di laici idealisti, sono in realtà all'unisono con i migliori ideali della società contemporanea e racchiudono sotto le formole tradizionali del cristianesimo il miglior contenuto dell'umanesimo eterno e della democrazia. Due mondi, strano fatto, che dicono di voler raggiungere il medesimo scopo: il rinnovamento del cattolicismo e che partono da presupposti del tutto antitetici.

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Ti parlerò prima di tutto delle pseudo-riforme vaticane: di quel lungo lavorio burocratico col quale i grossi prelati romani hanno cercato dal pontificato di Leone XIII in poi di nascondere agli occhi del credulo pubblico la loro mentalità medioevale con alcune mosse e frasi di moderna coltura. Uno spettacolo ridicolo che può forse in lontananza dare un'impressione di serietà e di grandezza, ma spiacevole in sommo grado per chi da vicino segue i retroscena delle Congregazioni e conosce gli attori principali della triste commedia. Ti parlerò in seguito di quell'opera lenta ma assidua che il clero giovane va compiendo da pochissimi anni: opera di rinnovamento integrale del cattolicismo. Io ti presenterò dinanzi agli occhi, o amico, con la simpatia che ispira ad uno spettatore appassionato ogni spettacolo di vita e di energia nascente, gli sforzi che pochi volenterosi van facendo in Italia per far albeggiare sul deserto della coltura ecclesiastica l'alba della modernità e del progresso. Ti narrerò i discreti e spesso inconsapevoli legami che uniscono in quest'ora, attraverso i seminari e le scuole ecclesiastiche, i giovani che aspirano ad una forma religiosa che uscendo dal grembo del cattolicismo non sia più oppressa da quella barbarie ascetica, da quella costrizione mentale, da quella gerarchia ferrea, da quel gesuitismo ipocrita, che oramai ripugnano e sollevano lo sdegno di ogni anima sincera.

Ma incominciamo dai programmi ufficiali.

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Il pontificato di Leone XIII resterà memorabile non solo per la sua lunghezza, ma anche per la copia delle riforme in esso tentate e per l'accortezza diplomatica mostrata nella loro attuazione. Dalla sua vecchia casa di nobile di provincia il cardinal Pecci portò al pontificato uno smisurato orgoglio e un arcaico senso dell'autorità. Leone XIII volle lasciare di sè un'impronta non solamente nelle basiliche romane a cui concesse larghi sussidi per restauri e.... stemmi, ma in tutto il movimento del pensiero e della civiltà contemporanea. Egli, l'antico discepolo dei gesuiti di Viterbo, volle legiferare sulla scienza filosofica, biblica, storica; sulla democrazia, sulla costituzione degli Stati. Sognò forse il nobiluccio di Carpineto salito sul trono di Pietro di rinnovare le grandezze di Innocenzo III? oppure credette forse, quando i potentati d'Europa lusingavano il suo amor proprio per deriderlo poi privatamente nei banchetti sovrani, di avere come il papa del XII secolo l'Europa intera ai suoi piedi? Egli deve essersi affacciato più volte a quei grandi finestroni del palazzo Vaticano dai quali si può gettare sull'eterna città un colpo d'occhio ampio e suggestivo. Roma appare di là la vera nave lanciata ver l'impero del mondo. Leone deve aver pensato con uno di quei sorrisi che spianavano sulle sue scarne gote la sua enorme bocca: «i miei fidi dominano in quel Campidoglio che è stato tolto a Pietro. Io ho saputo riprendermi una grande vittoria contro questi usurpatori gettando mille tentacoli sul corpo del loro dominio e riguadagnando con un prestigio all'estero la morta signoria del papato». Povero illuso! Mai sogno più grande naufragò più miseramente! Lo può constatare ora Pio X a cui viene a mancare la solidarietà di quella repubblica che Leone avrebbe voluto alleata nelle sue velleità di rivincita: che vede il disordine irrequieto, foriero di più vasta bufera, in seno a quei ceti ecclesiastici, che Leone, col suo tomismo, aveva creduto di disciplinare per sempre.

Per coloro che vivono in Roma non sono un mistero le contraddizioni della politica di Leone XIII. Egli offre un giorno con la Rerum Novarum la magna charta del movimento democratico cristiano, ma poi, sopraffatto dalle tendenze conservatrici che nel cattolicismo gerarchico vedono ancora il più saldo palladio dei loro interessi, disdice con la massima disinvoltura il suo atto solenne e uccide, in fascie, il movimento suscitato dalla propria parola. Ai cattolici francesi suggerisce l'alleanza con la repubblica, ma all'autocrate dello Sprea che segretamente protesta contro l'offesa recata così al suo diritto divino, risponde con un sorriso di malizia che è una grave slealtà, di non prendere sul serio quei movimenti opportunistici di diplomazia.

In una sola cosa, disgraziatamente, Leone è stato tenace avendo con sè consenzienti tutti gli istinti di conservazione che vigilano all'ombra del trono papale: nel volere imporre al clero, dalle cui file in ogni ora della storia sono uscite le grandi anime di ribelli, lo spirito addormentatore della dottrina scolastica. Il lungo pontificato suo ha fatto sì che il neo-tomismo potesse imporsi ufficialmente in tutte le scuole ecclesiastiche del mondo. Io non nego che questa imposizione forzata abbia potuta avere degli effetti benefici: con la reazione che a lungo andare ha suscitato, e che ora minaccia di trascinare la tradizione cattolica in una concezione soggettivistica simbolistica della religiosità. Ma quante energie spente per via, quante idealità soffocate, quante intelligenze perdute fra il vuoto delle astrazioni scolastiche!

Quando Leone XIII salì al pontificato, non esisteva nelle scuole teologiche una filosofia ufficiale. I professori seguivano quell'accoppiamento di teologia e di cartesianismo combinati nelle opere dell'oratoriano Valla, adoperate come testo scolastico.

Già durante il pontificato di Pio IX si era sviluppata una tendenza contraria al cartesianismo. Si scorgevano le difficoltà gravi per armonizzare questo sistema, empirico in dialettica, innatista in teodicea, dualista in psicologia, con il dogma cattolico, definito secondo la terminologia scolastica. Furono tentati nuovi metodi di apologetica e furono ideate nuove fusioni del dogma con la filosofia. I seguaci del De Bonald prima, di Lamennais poi provavano una segreta e morbosa voluttà nel deprimere la capacità della ragione umana, e, in nome della rivelazione primitiva, deridevano e rinnegavano ogni conquista del pensiero.

L'Ubaghs supponeva che l'intelligenza dell'uomo avesse un'intuizione immediata della divinità: e questo postulato ontologistico era riprodotto con modificazioni accessorie dal Gioberti e dal Rosmini. Ma non eran questi davvero i sistemi che la Chiesa avrebbe potuto far suoi, in un momento nel quale a lei occorreva ridurre ad unità il pensiero ecclesiastico, sotto la vigile scorta del magistero papale. Quei nuovi sistemi infatti, o mistici o razionalistici, coincidevano però nell'assegnare una parte notevolissima all'individuo nella conoscenza delle verità religiose, e nel trascurare quasi del tutto il magistero esteriore nelle cose dello spirito. La Chiesa, che dal Concilio di Trento in poi non fa altro che ostacolare ferocemente il progresso delle anime verso la luce del vero; che va quotidianamente chiudendosi in un disprezzo, sempre più astioso, contro i liberi movimenti dello spirito umano; che segue un funesto istinto di depressione e costrizione universali, doveva necessariamente lanciare anatema sul tradizionalismo, sull'ontologismo, sul rosminianesimo. Io, a dir la verità, non credo che quelle condanne per sè, avrebbero potuto far gran male all'avanzamento del pensiero ecclesiastico. In fondo De Bonald come Lamennais, Ubaghs come Rosmini, erano dei metafisici e dei dogmatici impenitenti, che credevano al valore assoluto della speculazione, che s'illudevano di proporre opinioni capaci di detronizzare i sistemi filosofici correnti e di prendere il loro posto definitivamente. Ad essi era estraneo quel metodo prammatista, di recentissima origine, secondo il quale è stolto credere al valore invariabile dei sistemi filosofici, alla consistenza assoluta delle idee universali, al raggiungimento impossibile dell'essenza delle cose e delle verità ontologiche.

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Il pensiero contemporaneo è deliziosamente scettico: vede la relatività delle leggi scientifiche, come la caducità dei sistemi filosofici: ed irride spiritualmente a quei poveri Don Chisciotti della filosofia che credono con le forze vane del loro pensiero di conquistare, attraverso gl'incantesimi dei sensi, il mistero recondito dell'universo. Questa attitudine familiare oggi a quanti vivono tuffati nella grande corrente d'idealismo che risorge, è ignota ai filosofi della prima metà del secolo XIX, e avrebbe anzi provocato il loro sdegnoso anatema. Dal nostro punto di vista quindi le condanne del Rosmini e dell’Ubaghs non meritano poi tutto quel biasimo che esprimono d'ordinario quegli ecclesiastici non più giovani e non ancora vecchi, che conoscono poco la scolastica, pochissimo il Rosmini e non conoscono affatto la filosofia dell'immanenza, e che, atteggiandosi a novatori, prendono occasione da quelle condanne per prendere a buon mercato la divisa, che oggi comincia ad esser di moda, del neo cattolicismo. In realtà, quel che è da compiangere è lo strazio che la Chiesa romana ha fatto e sta facendo di tante povere intelligenze di ecclesiastici, a cui impone, come una camicia di forza che ne paralizza con una tortura di nuovo genere i movimenti, la tradizione del pensiero ecclesiastico.

Chi conosce la storia del papato; chi intuisce la sua funzione storica dal tempo di Lutero in poi, funzione di oscurantismo e di conservatorismo cieco non si meraviglia certo di questo fatto. Il Vaticano politico, quel cumulo di interessi e di ricordi storici che pesa come un incubo sul ministero gerarchico del cattolicismo, esige, per esplicare il proprio dominio, un esercito di funzionari che abbiano rinunziato ad ogni diritto della loro personalità ragionevole, che abbiano abbandonato ogni bisogno di critica e di esame, che abbiano isterilito nel loro corpo e nella loro anima ogni istinto di responsabilità individuale, ogni barlume di dignità. Ora per raggiungere questo scopo non c'è che un mezzo: ricacciare con una mostruosa violenza di cui la storia non ha esempio, uomini che vivono nel secolo XX, nella mentalità del XIII: e conservare, di quel medio evo, lontano da noi in tutte le manifestazioni sociali, precisamente quella filosofia che è di queste manifestazioni sociali il risultato, la sintesi, il riflesso. Se il programma di Leone XIII fosse completamente riuscito: se al vecchio pontefice di Carpineto fosse successo, invece che un ignorante e pratico parrochetto di campagna, un altro studioso di S. Tommaso, uno di quegli uomini, che, come il P. Pecci, fratello di Leone, si facevano e si fanno vanto di non aver mai aperto un libro moderno di scienze e di filosofia, noi avremmo assistito a una perversione generale del pensiero ecclesiastico: e avremmo assistito allo strano incontro di due epoche: il medio evo filosofico e il mondo sociale contemporaneo. Fortunatamente la neo-scolastica non è riuscita a gettare profonde radici. La stessa ragione per cui l'edelweiss non fiorisce nei campi soleggiati, il pensiero del medio evo non ha attecchito in seno alla generazione contemporanea del clero. E il grande sforzo di Leone naufraga in questo momento, come ti dimostrerò in altre lettere, in mezzo all'irrompere del prammatismo. Ma frattanto, in quel periodo di tempo che va dall'agosto 1879, data dell’Aeterni Patris, fino a questi ultimi anni, quanto imperversare di oscurantismo nei seminarii, quante atroci sofferenze di anime giovani, truffate nella parte migliore di sé, nel desiderio ingenuo e fiducioso della scienza!

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Io ho avuto in me stesso una esperienza così dolorosa di questa triste imposizione autoritaria vaticana, che non ti sembrerà strano se io te ne accennerò la gravità, attingendo ai miei ricordi personali. Quando io entrai in seminario, un seminario importante, sebbene di provincia, il neo-tomismo era in fiore. I miei professori di filosofia avevano seguito con entusiasmo le istruzioni pontificie: ed erano degli scolastici tenaci, intransigenti, quasi maniaci. E la cosa si spiega benissimo: contro la tradizione cartesiana, in cui erano stati educati, il loro tomismo era qualcosa di personale, costituiva la loro conquista individuale, la manifestazione di quel sentimento di protesta contro il proprio ambiente che più o meno fermenta in fondo all'anima di ogni prete cattolico intelligente. Con l'ardore dei miei verdi anni, io mi gettai con passione nello studio della scolastica. Passavo delle ore lunghissime sui manuali di tomismo, fioriti come funghi dopo l'enciclica Aeterni Patris, analizzavo con beatitudine ogni loro sottigliezza, specialmente le più astruse, ricercavo con compiacimento il significato riposto di ogni loro rebus metafisico. Fra i miei compagni che per la maggior parte perdevano di solito alla scuola di filosofia il più delle discussioni, e sbadigliavano con aria confusa e imbarazzante dinanzi agli sproloqui dell'insegnante, che era riuscito a scoprire non so quale modernità in Aristotile, io passavo per un privilegiato, o per un anormale. In realtà tutto il mio profondo desiderio di scienza si era avviticchiato all'insegnamento della scolastica, la quale era rappresentata come la più alta manifestazione di sapienza, come il non plus ultra della speculazione umana. Io trascorsi tre anni di contemplazioni metafisiche, senza mai incontrare nei miei maestri l'ombra di un'incertezza, nei miei libri l'accenno di una difficoltà, nel mio spirito il pungolo tormentoso di un dubbio. Quando cominciai il corso teologico le cose andarono lentamente cambiando. La mia intelligenza evoluta, la mia coscienza a cui la vita giovanile dava intuizioni psicologiche imprevedute e sospetti lontani di una realtà molto più complessa di quella che i miei maestri e i miei libri ad usum delphini interpretavano, si agitarono impazienti del giogo scolastico. E cominciò un lento lavorio di erosione su tutto il patrimonio filosofico che avevo raccolto nei miei tre anni di filosofia. Le stranezze dell'insegnamento teologico; quella manìa mostruosa di spiegare i misteri della vita divina e della spiritualità religiosa con la medesima disinvoltura con cui si definiscono gli elementi costitutivi di un corpo; quell'aria di sussiego che atteggiava ad un sorriso di superiorità quei volti dei miei professori tomisti, nutriti di parole, provocarono nella mia anima un senso d'impazienza, di disgusto, infine di rabbia. Cominciai a dubitare di quei principii filosofici su cui si era svolta tutta la mia educazione, e lentamente smarrii ogni fiducia nella saldezza dei postulati scolastici. Che schianto, amico mio, fu per il mio spirito quel lento crollo di tutto l'edificio mentale, con tanto assidua fatica elevato! La mia anima mi apparve come un lembo schiumoso di mare su cui si muovono irregolarmente i rottami di un'immensa nave naufragata. Che angoscia nel sentirsi mancar sotto il terreno, che si era creduto resistente per l'eternità! Io tuttavia non mi scoraggiai: occorreva riprendere tutto il cammino che avevo percorso, rifare tutta quella preparazione filosofica che mi avevano, i mendaci, impartito. E con nuova lena mi posi al lavoro.

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Io non avrei davvero sprecato queste pagine a parlarti di me, se non sapessi che il mio non è che un episodio singolo, non è che un capitolo di quella grave storia intima di anime nel cattolicismo che qualche magico conoscitore di psicologia dovrà un giorno evocare. Tutti i giovani ecclesiastici di qualche capacità si sono accorti presto o tardi del colossale inganno di cui erano stati vittime, con la loro educazione scolastica. Se nella loro anima giovane palpitava ancora il desiderio della libertà, la sacra sete della conoscenza, essi rinnovarono coraggiosamente la loro coltura; se invece le tendenze addormentatrici infuse dal tomismo avevano sopraffatto le loro libere aspirazioni, se il disgusto del passato, la debole fiducia in sè stessi, la brama di conquistare le posizioni lucrose della carriera ecclesiastica, furono più forti dell'istinto sano della luce, quei giovani ecclesiastici si ripiegarono su sè stessi, come abbattuti da una mano violenta, e soffocarono nell’uniformità della esistenza ufficiale, la parte migliore di sè. Quante intelligenze così deturpate o avvilite per sempre!

In realtà la scolastica è tale sistema filosofico da deformare inevitabilmente le intelligenze, da imprimere a ogni movimento del pensiero alcuni schemi astratti e aprioristici, contrari alle più sane tendenze della mentalità contemporanea. La filosofia nostra, uscita dalla grande critica kantiana, insiste di preferenza sui problemi della conoscenza; dubita della corrispondenza perfetta fra le nostre idee e la realtà esteriore; ha un concetto del tutto relativo della metafisica e in genere dell'astrazione. Oggi anzi la filosofia comincia ad avere un nuovo concetto pure di sè stessa, e non appare più come forma di conoscenza, la più universale fra tutte, dell'universo, bensì come una maniera particolare in cui si esplica l'attività interiore dell'uomo, una maniera di cui è ancora arduo assegnare i caratteri. Tu, amico mio, conosci senza dubbio i nuovi metodi prammatistici, che han fatto molti proseliti, in seguito alle calde apologie dello James, del Peirce, dello Schiller, nel mondo inglese, americano e latino. Comunque essi si giudichino, è certo che essi rappresentano un grande tentativo di rinnovamento della tradizione filosofica. Ora t'immagini tu quale figura faccia di fronte a questa nuova maniera di pensare, lievemente scettica, sottilmente spiritualistica, e anche religiosa, ma iconoclastica sprezzatrice di idoli mentali, che tutto misura in funzione della capacità che l'idea e il sistema possiedono di aiutare, fomentare, moltiplicare la pratica, una filosofia che come la scolastica parte dal presupposto che la mente umana ha originariamente la potenza di raggiungere il vero, e definisce il vero come l'adequazione perfetta fra l'idea e la realtà! Ernesto Renan, in uno dei passaggi più conosciuti dei suoi ricordi, e che è senza dubbio presente al tuo spirito, ha inneggiato come lui solo poteva fare, a quell'ora solenne nella vita psicologica di un individuo in cui il dubbio lancia il suo primo e doloroso colpo nella intelligenza, abituata a ricevere dall'esterno la verità. L'anima che dubita è un'anima che vibra nello sforzo santo verso la luce: è l'anima che muove in un'angoscia che ha strani sapori di voluttà, verso l'espansione delle sue capacità conoscitive nel mondo dell’ignoto. È l'anima che plasma nel segreto della sua vita, la creatura del proprio pensiero e del proprio programma. La scolastica, questo mostruoso edificio filosofico in cui la Chiesa del medio-evo ha voluto rinchiudere tutte le anime pensanti, appagandole con delle derisorie logomachie, ignora la febbre santa del dubbio e fa dei suoi seguaci altrettanti schiavi intellettuali. E la Chiesa che ne ha preso il monopolio, che le ha dato un corso forzoso nelle scuole, ha contravvenuto al più sublime precetto evangelico: non spegnete lo spirito, cercate e troverete! Lo scolastico non cerca: la sua filosofia ha ricercato per lui, ed egli riceve supinamente quelle soluzioni che i buoni frati del medio-evo avevano ricavato nelle loro elucubrazioni fra le salmodie e le penitenze. Amico mio, a te certamente non è mai capitato di trovarti a contatto, come è successo e succede a me, con scolastici convinti e appassionati. Ti assicuro che se ne ricava una delle impressioni più forti che forse sia possibile provare. Figurati un uomo che vive secondo le medesime tue abitudini, nel medesimo ambiente; un uomo che parla il medesimo tuo linguaggio: e che pure è lontano da te di otto secoli; che non dubita di nulla; che ha la più incrollabile fiducia nelle proprie astrazioni; che risolve ogni difficoltà speculativa col sussidio di parole che hanno preso nel suo spirito consistenza di idoli reali, la cui figura psicologica, insomma, sembra una reincarnazione di un pensatore del tempo di Innocenzo III.

E i vecchi preti italiani, oggi, di qualche capacità intellettuale, sono tutti imbevuti di abitudini scolastiche e nel mondo, che pensa intensamente e rapidamente progredisce, costituiscono un anacronismo insopportabile. È qui la gravità della crisi cattolica. I rappresentanti del sacerdozio, quelli che secondo il concetto mistico della vocazione sarebbero chiamati all'ufficio di pastori e di dottori fra gli uomini, sono inetti a seguire, anzi a comprendere, l'evoluzione morale contemporanea, e a garantire sugli spiriti che si sottraggono alla teocrazia, il dominio della religiosità pura.

Purtroppo, mentre gli altri capisaldi del programma di Leone XIII, veramente novatori, naufragarono, come ti mostrerò in seguito, il programma della rinascenza tomistica ebbe larghissimo seguito.

Anime codarde di burocratici ambiziosi, molti preti italiani, in seguito alla Aeterni Patris, si seppellirono spiritualmente fra le pagine di S. Tommaso: o almeno finsero di farlo. Non vi fu modesta libreria di curato di campagna in cui non facesse bella mostra di sè la “Summa Theologica”. Ma la moda tomistica non è stata suscitatrice di ardori vitali, bensì una bufera che ha inaridito per lungo tempo ogni fonte di attività intellettuale nel clero. Con l'avvento di Pio X il neo-tomismo è caduto: quel buon ex-parroco di campagna non sa di tomismo nè di anti-tomismo: ma il male ormai è di vecchia data, e il vecchio clero si trova nell'impotenza di affrontare con armi pari la lotta che si accinge a fargli la rinascenza spiritualistica del neo-cattolicismo.

Chiudendo questa lettera non posso sottrarmi alla spontaneità di un confronto storico. Mentre nelle nostre anime vibra così intenso il desiderio di rinnovare in seno alla nostra società la corrente pura e luminosa del cristianesimo primitivo, i bizantini della scolastica commentano nelle università cattoliche la parola di S. Tommaso. Di': non vien fatto di pensare a quei maestri contemporanei, di Gesù che bizantineggiavano sulla parola della legge, mentre il fermento suscitato dal rabbi di Nazareth si diffondeva negli strati popolari e li eccitava alla grande speranza?...

10 febbraio, 1907

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