Cattolicismo medievale e neo-cattolicismo. – Significato etico dei dogmi e della disciplina sacramentale. – Perchè siamo cristiani, – La predicazione genuina di Gesù. – Ottimismo e pessimismo: le due forme antitetiche della religiosità umana.

Carissime,

Oggi io voglio e devo alfine abbandonare in questa mia lettera ogni accenno di cronaca e ogni narrazione di particolari biografici od anneddotici, in una rapida sintesi, e prescindendo dai programmi positivi di questo o quel corifeo del cattolicismo riformatore, raccogliere le indicazioni sommarie del programma da questo formulato. Tratteggiando stati d'animo non ancora passati attraverso la dilucidazione della coscienza riflessa, evocando propositi e aspirazioni ancora giacenti nella sub-coscienza collettiva, io voglio dirti, in breve, quel che vuole, quel che pensa il clero e il laicato cattolico, su cui passa, come un turbine, l'insofferenza del dogmatismo e l'impazienza del rinnovamento.

Oggi è la domenica delle Palme: mentre ti scrivo, dalla mia finestra aperta sul Tevere, io levando lo sguardo, scorgo uno dei più interessanti panorami che sia possibile ammirare in questa città dalle mille tradizioni e dalle eterne speranze. Da una parte l'Aventino, col suo verde intenso,ravvivato dall'alito primaverile che spira tenue in queste ultime giornate di marzo; dall'altra, maestosa nel suo profilo, disegnata sull'azzurro del cielo, la cupola di S. Pietro; al suo fianco dalle alture del Gianicolo, domina, nel bronzo cupo, la statua equestre di Garibaldi.

Quante memorie, amico, ridesta questo semplice e spontaneo vagare dell'occhio! Tutta la vecchia anima romana classica rivive sul colle, che seppe le turbolenti sollevazioni del popolo; tutto il medio-evo ecclesiastico sembra cantare un immenso inno di trionfo da quella cupola che il rinascimento ha composto con i ricordi della grandezza teocratica; là sul Gianicolo è il monumento di una promessa che l'Italia ancora non ha compiuto integralmente. E io penso, amico mio, che all'anima religiosa contemporanea parlano più fortemente le memorie del classicismo e le speranze del riscatto umano, che la grandezza fastosa di quella immensa cupola lanciata verso il cielo, in cui sembra pesare, imminente come un incubo, la maledizione che Dio lanciò sulla superbia degli edificatori della torre babelica.

Per le vie è un lieto movimento di vita. La domenica delle Palme sembra portare agli uomini ogni anno un incompreso annuncio di pace e di fratellanza. Io sento in tutto il mio spirito una vibrante letizia, e penso al mite profilo del rabbi che in un giorno come questo, attuando l'annunzio sociale della profezia, passò, fra il popolo acclamante, le porte di Gerusalemme, umile e sorridente, mentre i rami di ulivo ondeggiavano nella folla.

Condizione migliore di spirito non avrei potuto desiderare, per intrattenerti, amico, sulle idee del nuovo cattolicismo. E io sento che forse anche tu in quest'ora, nella gioia del tuo ministero, sperimenti i medesimi sentimenti di serenità e di letizia che inondano il mio cuore.

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E della serenità appunto che caratterizza tutto il neo-cristianesimo, io voglio subito parlarti. Il cattolicismo dogmatico, cresciuto all'ombra dell'ascetismo medioevale, è saturo di pessimismo. Tu sai bene, amico, che il giudizio pronunciato dagli storici moderni sul medio evo, è diverso così dalle detrazioni furibonde degli enciclopedisti come dalle esaltazioni calcolate dei romantici. Il medio evo, innanzi tutto, è un'epoca così complessa che non se ne può dare un giudizio sommario, senza sacrificare l'esattezza e la serenità al preconcetto; in essa trovano luogo egualmente figure contraddittorie come S. Francesco e Federico II, pontefici dalla mentalità singolarmente contrastante, come Gregorio Magno e Gregorio IX, pensatori in dissidio aperto come Scoto Erigena e S. Tommaso. D'altra parte il medio evo registra insieme a istituzioni sociali semi-barbariche, opere di civiltà grandiose ed ha, comunque, gettato i germi di tutta la civiltà europea moderna.

Quindi, nessun dubbio che, a proposito di medio evo, bisogna abbandonare le estimazioni affrettate tradizionali, per dar luogo al giudizio riflesso e analitico sulle varie manifestazioni di esso. Questo è certo però: che il periodo centrale del medioevo, specialmente anteriore al mille, è caratterizzato da un fosco orrore per la vita esteriore, da una cupa repulsione per la materia, da un profondo e intimo senso di abiezione e di mortificazione. Come accade in ogni età di depressione sociale, quando non tutte le energie umane trovano la possibilità di espandersi liberamente; quando l'esistenza è turbata da interventi malefici delle imprevedibili forze cosmiche; quando la vita collettiva è afflitta da invisibili malanni che infettano le istituzioni sociali; lo spirito medioevale è spirito di assoluto pessimismo. I timori assidui dell'oltre tomba; le superstizioni sulla presenza imminente delle energie demoniache; tutta la tristezza che invade il maggior numero, costretto a lavori servili e a schiavitù non meno gravose dell'antica; ha gettato una ombra immensa sulla psicologia medioevale. E la dottrina ufficiale del cattolicismo che veniva allora lentamente maturando, nel silenzio discreto dei chiostri e nell'aule delle scuole, specialmente franche, risentì l'efficacia dello stato d'animo diffuso e raccolse nelle sue tesi l'impalpabile infiltrazione del pessimismo circostante. Lutero ruppe per primo l'incanto doloroso dell'ascetismo medioevale. Contro la tradizione, che, oppressa dallo spettro del male, si attaccava spasimando alle più atroci mortificazioni della carne, per assicurare la liberazione dello spirito e gettava sulla materia imprecazioni e disprezzo, Lutero proclamò la santità della natura e inneggiò alle bellezze della vita. Ma tu mi concedesti, una volta che discutemmo di questo, che pure nella sua ribellione, Lutero ha ancora molto di medioevale: perchè la sua dottrina della giustificazione è il ripiego infantile di un individuo che non ha saputo andare fino in fondo al suo pensiero, e proclamare che nulla è da giustificare là dove nulla ci fu di peccaminoso. Invece la dottrina ebraica del grande dramma umano, del peccato originale, a cui la teologia medioevale aveva riannodato il pessimismo del tempo, rimane nella mentalità luterana come il focolare della religiosità.

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Noi, neo-cattolici, abbiamo superato questo stadio. Noi rifiutiamo, ogni eredità dell'ascetismo medioevale, e proclamiamo i diritti insopprimibili della vita. Già troppo l'ascesi e il pessimismo, lo sprezzo del corpo, gli spasimi della penitenza, hanno fatto avvizzire questa nostra razza e troppo hanno affievolito il senso della nostra responsabilità fisiologica di fronte ai nostri figli e ai nostri fratelli. Via ogni legge mostruosa; via gli orrori ostentati per la natura umana; via gli anatemi lanciati in nome di Dio, sulla vita dei sensi e sui suoi misteri. A noi la vita sorride come un campo magnifico di fertilità su cui si esercitano le energie vibranti del nostro essere, per raccogliere e spremere tutte le dolcezze che la grande madre natura porge alle nostre avide brame. Noi sentiamo anzi che solo per una morbosa ritorsione il pessimismo è fonte di religiosità. La vera religiosità è figlia dell'ottimismo, perchè non è altro che l'espressione della speranza intensa e inesauribile con cui noi entriamo nel mondo, attendendo l'avvenire migliore di noi, come individui e come collettività.

Ecco perchè noi vagheggiamo un ritorno al cristianesimo antico: non tanto per la sua semplicità dommatica, dal momento che il pensiero riflesso è un elemento secondario nelle forme religiose costituite; quanto per il senso di gioia e di pace da cui è avvivato, per la apologia dello sforzo personale che esso fa con così viva insistenza.

Da questa nostra attitudine di spirito scaturiscono, tu lo capisci molto bene, conseguenze di grande importanza. Innanzi tutto per ciò che riguarda i principi teorici fondamentali del cattolicismo, dottrina dell'immortalità dell'anima, dell'esistenza di Dio personale, della divinità di Cristo, noi scorgiamo in esse delle attitudini pragmatistiche, prive di qualsiasi valore astratto e oggettivo, e solo esprimenti disposizioni particolari della psiche religiosa. Considerando lo sviluppo storico del cristianesimo, noi vediamo che la speranza iniziale del regno, col tempo e con la delusione lenta a cui è andata incontro, si è trasformata nella speranza del paradiso; che la visione del Cristo Messia che è per venire, ha ceduto il luogo, per un processo naturale dello spirito dei fedeli, alle fede nel Cristo Dio; che il senso vago di dipendenza dalla divinità, ha finito per essere delimitato e circoscritto nella teodicea cattolica, prima a base platonica poi a base aristotelica. Ma noi teniamo a far conoscere la relatività di simili concezioni dogmatiche; il loro valore puramente pratico; la loro caducità. Esse infatti hanno alimentato per lunghi secoli la religiosità umana. Ma oggi che in questa religiosità viene inoculandosi un nuovo contenuto, la speranza cioè del progressivo perfezionamento degli uomini nel mondo, la loro praticità decade. Noi non abbiamo però il diritto di abbandonarle clamorosamente, abdicando, con una mossa irriflessiva, a tutto il nostro passato religioso. Solo teniamo a compiere intorno ad essa un'opera tenace di erosione. Quando questa sarà compiuta, esse cadranno spontaneamente: e la nuova religiosità troverà nuove attitudini di pensiero, a cui inculcare la sua vitale espansione.

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Riguardo alla disciplina sacramentale noi ne affermiamo il valore simbolistico. Storicamente i sacramenti sono la solidificazione progressiva del concetto della grazia applicato alle principali contingenze della vita. L'eucaristia, per esempio – e accenno ad essa perchè la sua evoluzione è più visibile – ha preso il luogo del banchetto in cui i primi cristiani simboleggiavano la fratellanza che li attendeva nel regno. Col tempo si è venuta formando la dottrina della presenza reale, e più tardi quella della transustanziazione. Si è smarrito, attraverso a questa trasformazione, il valore etico primitivo del rito. Noi vogliamo farlo rivivere. Noi vogliamo che il rito appaia, com'è, eccitatore di energie psichiche ed espressione di sentimenti collettivi, che la folla vi partecipi, come a forme sensibili attraverso le quali si espande il senso profondo della sua religiosità. Forse col tempo altri riti subentreranno agli antichi: riti più liberi, meno gerarchici, meno riservati, più in contatto con la natura, verso la quale essi devono sospingere l'animo anelante delle creature umane. Noi frattanto pratichiamo ancora gli antichi: consapevoli di illuminare in quel vecchio modo lembi di anime e di far vibrare fibre altrimenti inerti di cuori, verso l'aspirazione infinita. Tu vedi quanto radicale sia il nostro programma, e pur sapendoti assuefatto alle mie dichiarazioni che a te son sembrate così spesso bru lantes, mi par di sentirti domandare: ma se voi avete vuotato il contenuto reale del vostro cattolicismo; se voi l'avete ricolmato con idee estranee alla tradizione cattolica; perchè affannarvi a restare nel cattolicismo, perchè affermarvi ancora e risolutamente cristiani?

Ti rispondo subito.

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Per noi cattolicismo ha solamente il suo significato etimologico, e vuole intendersi come riunione di tutti coloro che aspirano verso un alto ideale di miglioramento umano; ideale, che mentre è civile, non può fare a meno di essere religioso: essendo appunto la religione per te e per me, speranza, e null'altro.

Inoltre siamo cristiani e sentiamo lucidamente di riannodarci direttamente al vangelo. Qualche anno fa, quando le prime rivoluzioni venivano compiendosi nel mio pensiero, e io scorgevo sprigionarsi da tutto il mio essere un entusiasmo caldo per la vita e per gli ideali umani che lo commuovono oggi, entusiasmo che era in aperta contraddizione cogl'insegnamenti sul sacrificio e sulla rinuncia che mi avevano impartito nel seminario, io ricordo d'essermi domandato se abbandonandomi alle nuove idealità che mi traevano irresistibilmente io non avrei cessato dall'esser cristiano. Da allora io mi diedi, e tu lo sai, a uno studio intenso del cristianesimo antico. Lessi con avidità il vangelo, e gli scritti paolini: quindi i documenti dell'età sub-apostolica. Le mie conclusioni furono oltremodo consolanti. Io mi persuasi che per conoscere l'insegnamento autentico di Gesù, e quindi la vera e primitiva essenza del cristianesimo, bisogna saper distinguere nella tradizione sinottica quel che v'è di originario e quel che è dovuto allo influsso di Paolo. Paolo mi è apparso come il primo, grande corruttore del vangelo. Egli ha teorizzato quel che era semplice commovimento di anime e pura speranza messianica; egli ha portato nella concezione del Messia, le sue fosche teorie sul dissidio dei due elementi nell'uomo, sulla perversità naturale della materia, sulla necessità quindi dell'ascesi purificatrice e della redenzione personale. Gesù non ha avuto parola su ciò: egli ha amato la vita, pur sapendola donare per la buona causa: ha stimolato la grande speranza fra i suoi, e non ha codificato alcuna teoria redentrice, che non fosse l'aspettazione della palingenesi messianica. Giunsi alla conclusione che sono più vicini per il loro spirito al vangelo i documenti giudeo-cristiani o ebioniti del primo e del secondo secolo, che gli scritti canonici neo-testamentari. Ora in quelli domina un ottimismo lieto e gaudioso; in essi ogni espressione di vita è benedetta, ed ogni tristezza è bandita dalla nostra esistenza. Tu non puoi immaginarti la gioia che inondò il mio spirito in seguito a queste mie conclusioni. Io avevo ben ragione di rallegrarmi nel constatare che la nostra psicologia religiosa riproduce perfettamente la psicologia genuina di Gesù e dei suoi immediati ascoltatori. Noi possiamo a buon diritto dirci cristiani: anzi più cristiani dei cattolici ufficiali. Il cattolicismo infatti, sebbene rappresenti la continuazione storica del vangelo, non ne costituisce però la continuazione psicologica, perchè lo stato d'animo che esso suppone, fatto di ascetismo e di mortificazione, non corrisponde affatto allo stato d'animo che Gesù modellò con la speranza del regno e con la gioia del trionfo imminente. Gesù ha lanciato il più alto invito all'idealità del progresso del mondo, inculcando di ricercare la verità e la giustizia; al seguito delle quali pervengono agli uomini le più nobili soddisfazioni e i più grandi tesori.

Dopo ciò tu riconoscerai, amico, che noi siamo pienamente logici quando ci affermiamo cristiani. Il cristianesimo infatti ci appare come la più pura manifestazione della religiosità, e noi crediamo che ogni uomo religioso, veramente religioso, è un Messia, dinanzi ai cui occhi brilla l'ideale del regno profetico, che i giusti implorano, ogni giorno, sulla terra.

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Ma io voglio prevenire ogni tua difficoltà. Tu mi puoi osservare di non capire ben nettamente la nostra posizione; di scorgere una inconsapevole contradizione o un ripiego opportunistico nella mia recisa dichiarazione che noi siamo cristiani, che cristiani vogliamo essere, che anzi ci riteniamo i soli cristiani autentici fra i corruttori, e i parassiti del purissimo Vangelo di Cristo, perchè avendo vuotato il cristianesimo di ogni contenuto dogmatico, veniamo ormai a rifiutarci di sottoscrivere alle dottrine di pessimismo e di mortificazione che, secondo il giudizio dei più, costituiscono il patrimonio inalienabile e originale dell'insegnamento cristiano. E allora, potresti soggiungere, perché non fate aperta professione di anti-cristianesimo, perchè non vi alleate al movimento del razionalismo contemporaneo?

La risposta, amico, alla tua speciosa obiezione io la darò brevissimamente nel resto di questa lettera: e se non riuscirò a convincerti della giustezza della nostra posizione, io spero almeno di mostrarti come noi vi siamo stati indotti da una disinteressata ascensione della nostra coscienza, che ha concepito del Cristo la più pura, la più sublime immagine.

Io insisto innanzi tutto sulla distinzione fra cattolicismo e cristianesimo. La confessione cattolica, che del cristianesimo eterno è una manifestazione storica transitoria, si rivela senza dubbio in contrasto insanabile con i postulati della mentalità contemporanea. La nostra società aspira con un desiderio intenso alle pure gioie dell'esistenza; il fosco cattolicismo, germogliato in secoli di dolore, geme sulla corruttibilità della materia e maledice al sorriso e al gaudio della vita. La nostra società vuole che ogni individuo conquisti la piena esplicazione dei suoi istinti sani, delle sue aspirazioni; che liberi la sua anima dai vincoli tirannici di ogni autorità esteriore, che raggiunga in una forma più alta e più equa di vita collettiva un equilibrio più armonico delle proprie facoltà e dei propri bisogni personali: il cattolicismo fa schiavi la ragione di un insegnamento, lo spirito di una tradizione, il corpo del terrore e della superstizione. La società moderna vuole che l'individuo e la collettività non si rassegnino inerti ai mali della vita, ma cerchino di migliorarla, di eliminarne i difetti, di elevarne il tenore, di progredire all'indefinito: il cattolicismo predica invece la rassegnazione al male presente, in vista di un misterioso premio al di là della tomba, inculca l'abbandono di ogni volontà irrequieta d'avanzamento nella prosperità, costituisce, con la sua dottrina ascetica, il più potente sostegno al mondo del privilegio.

Contro il cattolicismo sono pienamente giustificate quelle rudi invettive, che tu forse conosci, con le quali il Carducci rimproverava alla Chiesa di aver suscitato quelle lunghe teorie di contemplatori, che passarono nel mondo:

dovunque il divo sol benedicea
maledicenti;
maledicenti a l'opre della vita.

Ma rivolte al Cristo, al «nazareno di rosse chiome» questo rimprovero è un'enorme ingiustizia storica e un grossolano equivoco. No: questa mite figura di rabbi, uscita un giorno da una oscura officina di fabbro, e sceso fra gli uomini a consolare le turbe dei diseredati, a fustigare tutte le ipocrisie della autorità costituita, non è stata la figura di un asceta, martirizzante, attraverso le pratiche di una penitenza inconsulta, il corpo umano. Quando noi analizziamo il fondo primitivo della sua predicazione, riportata nei Vangeli; quando noi isoliamo questo fondo dalle incrostazioni subite attraverso la deformazione provocata dalla riflessione paolina, di cui si riscontrano tanti sintomi anche nei sinottici, noi vediamo che Gesù, assimilandosi le migliori tendenze della psicologia degli ebrei suoi contemporanei, non fece altro che predicare la speranza del regno messianico, e presentare se stesso come il predestinato inauguratore del regno imminente. In lui, nulla di aspro, nulla di desolato, nulla di pessimistico; in lui nessun accento di maledizione alla vita, di cui anzi sogna un più ampio possesso nel regno. È vero: egli ha pronunciato in quel discorso della montagna che racchiude il succo di tutto il Vangelo parole apparentemente tristi: beati voi poveri; beati voi affamati; beati voi che piangete. Ma chi prende queste frasi separate dal contesto, quasi esse contengano il panegirico della povertà, del dolore, della rassegnazione, fraintende nel modo più grossolano le aspirazioni e i suggerimenti del mite maestro. Gesù non celebra i meriti della sofferenza ma invita a sopportarla, perchè essa è caduca, sta anzi per finire, per trasformarsi nella gioia materiale del regno, dove egli si assiderà a banchetto insieme ai suoi seguaci; beati voi affamati, non perchè affamati, ma perchè sarete splendidamente satollati; beati voi che piangete, non perchè ora versate nel pianto, ma perchè fra poco riderete e sarete ricolmi di gioia: beati voi poveri, non perchè passate la vita nelle privazioni della povertà, ma perchè a voi appartiene il regno di Dio. Amico: tu devi confessare che questo è il più alto e il più alato inno di speranza che abbia pronunciato bocca umana; tu devi confessare che esso ribocca di quel sentimento ottimistico che tu ritrovi nelle grandi canzoni dei popoli, marcianti verso un alto ideale sociale; che l'uomo oscuro, uscito dall'officina, che ha pronunciato sulle masse quei così forti accenti di speranza, non è una pallida figura di asceta, ma è un grande sovvertitore di folle ed un grande riformatore sociale. Cristo è l'ultimo e il più grande dei profeti. Tutto il suo pensiero religioso, la nozione di Dio padre in esso dominante, non è un cumulo di astrazioni teologiche, ma il sentimento immanente di un essere paterno che vigila sul corso degli eventi e prepara ai giusti il trionfo pieno nel regno. Il quale regno, nella predicazione autentica del Cristo, non è affatto il paradiso cattolico: ma un regno terrestre, di beatitudine corporale e di gioia: il regno sognato dai poveri figli d'Israele, oppressi dal giogo dei dominatori. Gesù ha veramente predicato un Dio che risponde alla mirabile definizione di Lutero: «Avere un Dio significa avere qualcosa in cui il cuore si confida tutto».

Tutta la letteratura cristiana è impregnata di questo sentimento di speranza: specialmente quella parte di essa che è rimasta estranea all'influsso paolino, e quindi più fedele continuatrice del vago ma potente sentimento di speranza suscitata dal Cristo. La speranza, tu sai, è uno dei sentimenti più comunicativi. Dagli stretti confini della Giudea la parola consolatrice del Vangelo uscì sollecitamente, e si diffuse, suscitando echi sonori, nella psicologia romana. Il Vangelo fu annuncio di liberazione e di elevamento per tutti coloro che soffrivano sotto le pressure del vecchio diritto quiritario. Io non posso pensare, amico, senza un profondo sentimento di commozione, alle coscienze umane che il Vangelo sollevò e irrorò di gioia, colla predicazione della fratellanza e dell'amore.

E poichè oggi, fra il turbinio della vita industriale, noi sentiamo nelle nostre anime affinate fremere un più alto senso di fratellanza, e nascere un più puro sogno di benessere, noi ci sentiamo naturalmente cristiani: perchè cristiano è per noi chiunque religiosamente spera nell'intervento benefico di una causa superiore per alleviare i mali della vita: non importa se questa causa sia Dio, o l'umanità, considerata come forza collettiva.

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Ma io prevengo un'altra tua difficoltà. «Se voi – tu puoi domandarmi – intanto vi ritenete cristiani,in quanto nelle vostre anime sentite fremere quell'intimo senso di speranza che avvivò il Vangelo genuino di Cristo, e se dall'altra parte ammettete che inizialmente ogni religione non è altro che movimento collettivo di spiriti verso idealità buone, voi, a rigore, potrete chiamarvi con ugual diritto, buddisti, luterani, pagani, maomettani, o che so io. Di più, dovrete riconoscere che nell'ideale lieto e gioioso di vita che professate, rivivono le migliori tradizioni del paganesimo classico».

A questa tua difficoltà è facile la risposta. Innanzi tutto storicamente e praticamente noi siamo costretti a muoverci nel cristianesimo, e al cristianesimo sentiamo di dovere innanzi tutto appartenere. Esso infatti ha lentamente plasmato tutta la nostra civiltà, esso s'insinua ancora negli strati meno coscienti della nostra vita interiore, esso dà alla nostra vita europea il primato civile su tutti i paesi del mondo. Ma anche una ragione intrinseca ci determina ad affermarci recisamente cristiani. Il cristianesimo non è una religione da confondersi con le altre, perchè la speranza che esso ha annunciato è di molto superiore alla speranza che ha costituito il fermento primitivo delle altre forme religiose. Il Vangelo di Gesù infatti è apparso in un momento storico di un'importanza eccezionale: nel momento cioè in cui una quantità di ragioni economiche e politiche favorivano la decadenza rapida e sicura di un'istituzione, che distingue nettamente il mondo pre-cristiano dal mondo post-cristiano: la schiavitù. Perciò la speranza evangelica è innestata sul sentimento della parità degli uomini di fronte alla natura: e ha trovato in questo sentimento, un significato e un valore che mai più sarà raggiunto. Quando mai la speranza umana potrà raggiungere vetta più alta di quella raggiunta quando questa speranza albergò in anime che sognavano l'uguaglianza, in mezzo ad un mondo che distingueva gli esseri umani in due categorie: gli uomini e le cose? Noi oggi vagheggiamo l'uguaglianza economica; come i protagonisti della rivoluzione francese vagheggiarono l'uguaglianza politica: ma nessuno di questi ideali è grande come quello che segnò l'abolizione della schiavitù. E la religiosità cristiana che accompagnò questo grande fatto economico, è per conseguenza necessaria la più nobile attuazione del sentimento religioso. Ora, come ogni gruppo di fenomeni prende nome da quello in cui le sue proprietà specifiche si rivelano più nettamente, così alla nostra religiosità non possiamo dare altro nome che quello di cristiana.

In quanto al paganesimo e ai nostri rapporti con esso, io ti dirò che le idee correnti in proposito sono molto errate. La concezione lieta e ilare della vita non è propria dei paganesimo. Il paganesimo anzi conta nel suo seno sistemi foschi di ascetismo, come il socratismo, con la sua celebrazione della morte, lo stoicismo, con i suoi precetti di mortificazione, il neo-platonismo, con il suo desiderio dell'annientamento corporale. In realtà non ci sono due concezioni della vita, l'una pagana, l'altra cristiana: c'è bensì la concezione ottimistica e la concezione pessimistica, che si succedono a volta a volta adattandosi ad ogni forma religiosa. La concezione ottimistica, che ha magnificamente dominato il cristianesimo primitivo, ha dominato in alcune epoche del paganesimo ellenico e romano, specialmente primitivo; la concezione pessimistica che ha alimentato il cristianesimo medioevale, ha dominato anche in alcuni periodi del paganesimo, specialmente della decadenza. In conclusione, io ti enuncerò un paradosso, che credo storicamente dimostrabile: il cristianesimo primitivo è pagano nel buon senso della parola, in quanto è ottimistico; mentre lo stoicismo e il neo-platonismo pagano sono cattolici, nel più esatto significato del termine, in quanto sono pessimisti. Dopo ciò, credo, ti convincerai che il nostro modo di considerare il cristianesimo, se è originale, non è però incoerente.

24 marzo, 1907

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