La Rivista storico-critica delle scienze teologiche. – Il Rinnovamento. – Il Santo di A. Fogazzaro. – Sua insufficienza come programma di idee modernistiche. – Sua concezione ascetica della vita. – La trasformazione del cattolicismo.

Carissime,

Le simpatie perdute dagli Studi dei quali ti parlai nell'ultima mia, sembrano raccogliersi invece ogni giorno più sulla Rivista romana di scienze teologiche, fondata a principio del 1905 dal padre G. Bonaccorsi. In un momento di buon umore, il Santo Padre, richiesto dal padre Lepidi, questo leale e temperato revisore supremo della stampa cattolica, concesse la sua approvazione e il suo incoraggiamento all'idea di fondare in Roma, quasi contro-altare alla Civiltà, un periodico di scienze religiose. Io credo che fra i suoi atti pontifici di cui più amaramente si duole, sua Santità annoveri precisamente quell'approvazione e quell'incoraggiamento. Il rammarico cominciò molto presto. Il padre Bonnacorsi, missionario del S. Cuore, è una timidissima anima di apologeta, ma una irriducibile tempra di critico. Non concepisce forse il problema religioso contemporaneo nella sua interezza, e non batte vie nuove nella maniera di risolverlo: ha lo spirito ottenebrato da un fitto velo di scolasticismo, ed ha una ripugnanza sacra per le idee filosofiche nuove, che giudica come schermaglie vane di parole: come se tutta la vita umana non procedesse dietro lo stimolo delle idee universali. Ma in compenso ha la più incrollabile fiducia nei metodi della ricerca storica, ed ha mostrato una rara acutezza in alcuni problemi letterari non insignificanti: come la questione sinottica e la questione letteraria del Pentateuco.

Egli dunque iniziò e diresse per sei mesi la Rivi sta storico-critica delle scienze teologiche, trasfondendovi completamente il suo spirito: un po' gretto, un po' troppo minuto, quasi pedante, schivo di questioni vive e di problemi generali. Nel giugno del 1905 egli lasciò improvvisamente la direzione del periodico, che aveva raggiunto frattanto una discreta diffusione: l'uscire a Roma, con l'Impri matur vaticano era un argomento fortissimo di successo. Non si sono mai conosciute con precisione le ragioni di quell'abbandono. Sembra che un improvviso e inconciliabile dissidio con il padre Lepidi non lasciasse altra via di uscita che le dimissioni del padre Bonaccorsi. Ed egli le diede.

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A dirigere il periodico gli successe un suo collaboratore, E. Buonaiuti, professore di storia ecclesiastica nelle scuole del seminario romano. Il cambio lusingò molte speranze. Il Buonaiuti era apparso, fra coloro che sono più in vista nel movimento neo-cattolico, il più radicale. Io ricordo di lui un discusso articolo sulla filosofia dell'azione pubblicato nel 1905 sugli Studi Religiosi, in cui la scolastica era combattuta asprissimamente e dove era affermata senza sottintesi la relatività di ogni conoscenza e la soggettività del sentimento religioso. In esso il Buonaiuti prendeva posizione favorevole a quel nuovo modo d'interpretare le verità dogmatiche, secondo il quale esse sono trasposizione semplice di postulati pratici e di guide dell'azione nel campo astratto delle definizioni concettuali.

Giovanissimo, e nato a Roma, educato nel seminario romano, il Buonaiuti appare nell'ambiente ecclesiastico romano, dove le aspirazioni, quando sono elevate non vanno al di là dell'abito paonazzo o della porpora; dove le preoccupazioni intellettuali di qualsiasi genere cedono il passo invariabilmente, alle preoccupazioni economiche, suscitate dalle grosse prebende da conquistare; un tipo di prete molto interessante, sprezzando egli la così detta carriera e aspirando generosamente alla propaganda di idee rinnovatrici nell'edificio secolare del cattolicismo.

Il Buonaiuti ha già sperimentato le dolorose conseguenze della sua audacia: fu, nell'ottobre scorso, licenziato dalle scuole dell'Apollinare, dove egli impartiva lezioni erudite e brillanti: e fu internato in uno degli innumerevoli dicasteri in cui è ripartita la burocrazia ecclesiastica, nella speranza che rinunciasse al suo programma, e la tranquilla incombenza affidatagli, che può metter capo a buoni avanzamenti, avesse il sopravvento su ogni altra volontà di riforma. Sfortunatamente sembra che quell'anima indocile di giovane si sia chiusa realmente nel silenzio della congregazione, e rinunci all'ideale di verità che gli ha sorriso una volta.

Egli dirige tutt'ora la Rivista delle scienze teologiche nella quale sono raccolte in un fascio operoso le migliori energie degli studiosi ecclesiastici italiani. Vi collaborano infatti uomini come il Fracassini, il Federici, il Mari. Il Fracassini, il noto rettore del Seminario di Perugia, il più intelligente studioso di Bibbia forse che ci sia oggi in Italia, e che con l'opera lenta del suo insegnamento e della sua pedagogia è riuscito a formare, nell'Umbria, una vera oasi in mezzo al deserto della scienza che sono i seminari italiani. Il Federici, un giovane religioso genovese, anche lui consacrato tutto alla critica biblica. Il Mari, già professore nel seminario di Nocera Umbra, e licenziato per le sue idee, si è acquistato una notevole notorietà per la conoscenza che possiede nel campo degli studi orientali.

Ma le rosee speranze che il movimento della libera scienza religiosa aveva concepito sull'opera del Buonaiuti nella direzione del periodico, dopo apparenti conferme date da qualche articolo pubblicato nella seconda metà del 1905, hanno poi miseramente naufragato. La Rivista storico-critica infatti non cerca ormai che incidentalmente di svolgere idee generali sulla concezione nuova del dogma e di proporre vedute originali sui problemi della conoscenza religiosa. Questa voluta astensione dai quesiti più appassionanti della cultura contemporanea sono un suo difetto imperdonabile e costituisce nel suo programma una lacuna tanto più deplorevole, quanto più insufficienti sono gli altri periodici religiosi italiani a colmarla.

Ma c'è altro da notare. È innegabile che la Ri vista va diventando sempre più fiacca nella sua ostinata volontà di vivere ad ogni costo, senza troppo urtare il Vaticano. La libertà non si concede, ma si strappa, diceva, se non erro, il Lacordaire. La Rivista,nelle mani del Buonaiuti non ha saputo strapparla: io temo fortemente che il movimento della libera scienza abbia perduto molto in Italia da che la Rivista storico-critica appare addomesticata. Tanto più che nessun altro periodico può prenderne il posto.

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C'è, è vero, anche il Rinnovamento, che ha iniziato le sue pubblicazioni nel gennaio scorso a Milano, e di cui tu avrai inteso parlare. Esso è diretto da tre giovani laici, pieni di vivacità e di arditezza: il Casati, il Gallarati-Scotti, l'Alfieri. Ma l'eterogeneità della collaborazione, l'ampiezza del programma, il desiderio di penetrare in ambienti dove la scienza si trasforma spesso, da ricerca austera e difficile del vero, in dilettantismo vago e universale, fan sì che il nuovo periodico non sia capace forse di riuscire da solo all'educazione lenta e progressiva degli spiriti verso il rinnovamento integrale delle idealità religiose. Ciò non toglie che l'ispirazione iniziale del Rinnovamento sia stata molto indovinata. Le parole d'introduzione che furono mandate avanti alle pagine del primo fascicolo erano avvivate da un senso cristiano elevatissimo. Vi si diceva che il cristianesimo è innanzi tutto una vita, un bisogno istintivo dell'anima di salire verso ascensioni migliori di verità e di bene, entusiasmi nuovi e rinnovantisi per idealità superiori. Tu intendi che posto simile postulato il dogma e la disciplina, la gerarchia e i sacramenti efficaci ex opere operato, tutte dottrine a cui il cattolicismo aderisce come l'ostrica allo scoglio, divengono affermazioni caduche, che potranno cedere col tempo il luogo a specificazioni più nobili del sentimento religioso, e che frattanto conservano valore di simboli a cui è vincolata la miglior parte dell'anima collettiva.

Ma insieme a queste audaci dichiarazioni, il Rinnovamentoha portato nei suoi primi numeri articoli un po' freddi del Fogazzaro e ricerche ardue e astratte di scienza. Il Fogazzaro è in genere timido e indeciso nelle sue affermazioni. Nè si può pretendere che dalla sua anima, che ha conservato tanto di giovinezza da mutare di ideali col correre degli anni e da tenersi costantemente all'altezza delle aspirazioni collettive più nobili, si sprigionino ancora entusiasmi baldanzosi e fieri di proselitismo religioso.

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Io so che tu hai letto il Santo e che hai ammirato la vigoria di quest'autore, non più nel fiore degli anni, che ha saputo lanciare sulla faccia del Vaticano, le accuse di mondanità e di avarizia. Ma io ti dico che queste invettive son cose vecchie di più di mezzo secolo, e ricordano troppo da vicino le invettive molto affini del Rosmini e del Gioberti. Ma dai tempi di Carlo Alberto l'Italia ha progredito immensamente: e tutta la nostra mentalità ha abbracciato nuovi indirizzi di pensiero. Il Fogazzaro ha seguito l'evoluzione degli spiriti con prontezza non frequente: egli è stato rossiniano e patriota; evoluzionista e monarchico; è ora quasi prammatista e democratico. Ma nella sua anima i bagliori dell'ultimo stadio del suo pensiero sono bagliori di sole che volge al tramonto, non hanno la luminosità pura e scintillante di un'alba. Il Santo come espressione delle idee proprie del modernismo è stato un vero insuccesso. Io non parlo, s'intende, del valore artistico del romanzo: parlo del suo valore filosofico, che è nullo. Molti di coloro che in Italia partecipano al movimento neo-cattolico o ne seguono con simpatia le vicende lo dicono francamente.

Non mancano, è vero, nel Santo, sprazzi magnifici di una religiosità evolutissima: così là dove Benedetto alla maestra che lo segue per le vie della campagna di Subiaco, dà una definizione sublime dell'altra vita: «credo che fino alla morte del nostro pianeta l'altra vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze aspiranti alla verità e all'unità vi si troveranno insieme all'opera». (pag. 269). Ma in genere la concezione della santità che vi predomina, l'affermazione risoluta dell'ascetismo che lo caratterizza, il programma limitato di riforma cattolica che vi è esposto, non possono rispecchiare integralmente il nostro pensiero, i nostri più reconditi propositi. Benedetto si dibatte nella resistenza tenace alle seduzioni della donna amata e sospirata; sembra volere martoriare le sue carni, nella più crudele delle astensioni; e, come compenso alla sua castità di psicopatico, si abbandona agli eccessi di un ascetismo morboso che soffoca la vita normale dei sensi in una ipersensibilità e in un parossismo permanente di maniaco. Noi non concepiamo così la vita interiore e non lanciamo anatemi sulle gioie intense dell'amore. La perfezione non è più per noi nella rinuncia ascetica e nella mortificazione, pregna di orrore manicheo per la natura. La vita è bella in tutte le sue manifestazioni; la gioia è nel soddisfacimento di ogni nostra volontà; la ricchezza dell'esistenza è nell'esaurimento ordinato ed armonico di tutte le nostre potenze. Lungi da noi la simpatia per quelle forme barbare di perfezionamento spirituale che il medio evo concepì e attuò con tanto dolore. Nulla in noi è malvagio; nessuna maledizione di peccato grava sulle nostre anime, intreccio magnifico di energie, desiderose di espandersi nell'azione. Solo l'incompiuta espansione, solo lo stimolo perenne di centuplicare l'attività provoca in noi il senso dello scontento e l'impazienza di più alta manifestazione di vita.

Benedetto di fronte al pontefice, ammonisce: «Quattro spiriti maligni sono entrati nel corpo della chiesa per farvi guerra allo spirito santo... Uno è lo spirito di menzogna... Il secondo è lo spirito di dominazione del clero... Il terzo spirito maligno è lo spirito di immobilità. Questo si trasfigura in un angelo di luce. Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito di immobilità credono piacere a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo. Tutti i clericali che oggi avversano il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè».

Qui il contrasto fra le idealità proclamate dal Santo e le esigenze reali della nuova religiosità cattolica è più stridente. È vero che quest'ultimo spirito maligno, di cui parla il Fogazzaro, ha un ambito molto ampio e può comprendere tutto ciò che noi rimproveriamo oggi all'ortodossia vaticana. Ma il Fogazzaro non ne ha una comprensione esatta, e dopo aver deplorato questo spirito di immobilità, si riduce a chiedere che il Santo Padre non metta all'indice le opere di Giovanni Selva. A noi, invece, importa poco dell'Indice e dell'Inquisizione, che ci appaiono come istituzioni le quali hanno perduto ormai ogni valore e ogni significato, e che si avvicinano ad un inglorioso tramonto.

Sentiamo lucidamente che l'immobilità invade come una paralisi tutto l'organismo cattolico, e noi crediamo di doverla curare non invocando dal supremo gerarca riforme che la ferrea logica della tradizione vieta di compiere, bensì operando in seno al cattolicismo perchè le nuove forme di religiosità che noi vagheggiamo prendano, per un lento processo di assimilazione, il posto delle antiche.Tu conosci, amico, quel mirabile fenomeno naturale per il quale alcune piante, cedendo fibra a fibra il luogo a stratificazioni minerali, vengono trasformate, attraverso secoli di elaborazione, in massi che conservano dell'antico essere tutte le forme esteriori. Ebbene: l'evoluzione della religiosità si compie per un processo affine: nei momenti di trasformazione il contenuto nuovo penetra nelle forme vecchie, e quando il vecchio elemento tutto è scomparso, l'occhio riesce appena a distinguere attraverso l'uguale figura esterna, la nuova sostanza che vi è nascosta. Noi ci troviamo alla vigilia di una simile trasformazione. Il cattolicismo decade: e nelle sue apparenze penetra lo spirito nuovo, subentrato all'antico.

17 marzo, 1907

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