XII ROMA E BISANZIO

La vittoria ad Saxa Rubra aveva assicurato a Costantino il dominio dell'Occidente: prima tappa decisiva nella riconquista di quell'unità imperiale nelle proprie mani, che deve essere stata fin dagli inizi l'aspirazione piú profonda e l'ambizione piú alta di Costantino. Ma la vittoria su Massenzio non sembra che dovesse costituire un elemento di salda rispondenza e di cordiale simpatia fra la vecchia capitale occidentale e il nuovo dominatore. Il dislocamento delle capitali già operato da Diocleziano al momento della ripartizione tetrarchica definitiva rispondeva ad esigenze cosí impellenti della difesa militare e dell'organizzazione burocratica dell'immenso Impero che, pur riunificandolo, la necessità di mantenere gli organi centrali del potere a piú diretto contatto con le frontiere e con le popolazioni d'Oriente si sarebbe fatta indeclinabilmente sentire.

Era necessario comunque non abbandonare a se stessa la vecchia Roma, e quando all'indomani della vittoria su Licinio e negli eventi che la seguirono Costantino si avvicinò alla celebrazione dei suoi vicennali, parve logico e conveniente che la data ricevesse la sua consacrazione a Roma. Verso la fine dell'ottobre del 325 Costantino prese tutti i provvedimenti per tornare in Italia.

Prima di lasciare l'Oriente emanò una legge che proibiva in termini energici i giuochi cruenti dei gladiatori. Era anche questa una manifestazione di omaggio e di ossequio ai principî del cristianesimo.

Il viaggio fu lento e contò numerose tappe: Naisso, Sirmio, Aquileia, Milano. Si sarebbe detto che Costantino presentisse in cuor suo le giornate drammatiche e amare che l'attendevano nella città del suo primo grande trionfo militare. Entrava a Roma nel luglio del 326. Le accoglienze, per quanto apparentemente fastose, non dovettero tradire veri sentimenti di simpatia e di fedeltà. Comunque la tragedia che si svolse allora a Roma tra le mura della casa imperiale fa pensare che un fortissimo partito di opposizione riguardasse le nuove direttive della politica costantiniana con un sentimento di irriducibile inimicizia e che qualcosa si tramasse nell'ombra, complici i membri stessi della famiglia imperiale, per un ritorno a quelle vecchie direttive di governo politiche e religiose, che Costantino aveva cosí bruscamente scardinato.

Costantino aveva tre fratelli, Dalmazio, Annibaliano e Giulio Costanzo, nati dal secondo matrimonio di Costanzo Cloro con la figliastra di Massimiano. Essi non erano soltanto fratellastri dell'imperatore, ma erano legati anche per vincolo di sangue a sua moglie Fausta. Non si potrebbe dire che tra Costantino e i suoi fratellastri corressero buoni rapporti. La madre di Costantino, la vecchia stabularia di Drepano, Elena, doveva avere istillato nell'animo di suo figlio sentimenti di irriducibile diffidenza di fronte a coloro che erano usciti da un matrimonio contrapposto al suo vecchio vincolo con Costanzo Cloro. Elena deve aver portato dalle sue origini orientali e istillato nell'animo di suo figlio un sentimento che non era il piú propizio a tutto quello che rappresentava le tradizioni e le consuetudini dell'Occidente romano. Fausta era nell'àmbito della vita familiare imperiale la prima e piú diretta vittima delle gelosie e dei rancori di Elena, e dal canto suo ripagava con altrettanta forte acredine i sentimenti della suocera e provava per il figlio di primo letto di Costantino il medesimo sentimento che Elena provava per lei. Crispo, il giovane e brillante comandante che aveva avuto una parte cosí cospicua nella vittoria su Licinio, doveva essere la vittima designata delle sue rappresaglie.

Sta di fatto che la permanenza a Roma di Costantino in occasione dei suoi vicennali fu accompagnata da una foschissima tragedia domestica che doveva riflettere la sua ombra oscura su tutto il governo costantiniano. E doveva far chiamare l'epoca di Costantino una rinnovata epoca neroniana.

A Roma le latenti rivalità e i feroci rancori di corte ebbero modo di giungere ad un tale grado di esasperazione da mettere capo ad un oscuro dramma. Senza che noi ne possiamo individuare con precisione le ragioni, Crispo, il giovane e popolare figlio di Costantino, fu subitamente arrestato e, senza alcuna procedura legale, confinato a Pola nell'Istria, e si seppe ben presto che era stato poi soppresso in prigione. Il provvedimento, che deve avere avuto indubbiamente ragioni politiche, ne chiamò un altro. Elena, precipitatasi dall'Oriente a Roma, indusse l'animo debole e fosco di Costantino ad un'altra sentenza capitale. Questa volta le ire imperiali si riversarono, suggestionate da Elena, contro Fausta, rea di avere suscitato e alimentato i sospetti del padre contro la crescente gloria del giovane Crispo. Fausta fu soffocata nel bagno.

Questi cupi e tragici avvenimenti domestici dovettero rendere intollerabile la permanenza a Roma di Costantino. Se il trasporto della capitale in Oriente era una necessità strategica, militare, economica, i sentimenti personali dell'imperatore dopo la tragedia romana dovettero rendere questa necessità tanto piú pungente e dovettero pertanto affrettare l'attuazione del piano.

Tornato a Bisanzio, Costantino nel novembre del 329 gettava le fondamenta di una nuova città destinata a uguagliare e soppiantare la vecchia capitale del mondo romano. Pochi mesi dopo Costantino la inaugurava solennemente dandole il suo nome: Costantinopoli.

Come Diocleziano, Costantino giudicava Roma, non senza ragione, pessimamente situata per bastare e per soddisfare alle nuove necessità che si imponevano automaticamente all'Impero. Il pericolo gotico e il pericolo persiano rappresentavano una pressante minaccia cosí sul Danubio come in Asia. Le forti popolazioni dell'Illirico offrivano in realtà eccellenti risorse per la costituzione della difesa, ma per organizzare saldamente questa difesa Roma era troppo lontana.

Con la costituzione della nuova Roma Costantino dava inizio all'Impero bizantino. Cosí per la sua situazione geografica nel punto dove l'Europa si incontra con l'Asia, come per l'importanza militare ed economica che ne risultava, Costantinopoli rappresentava il centro naturale intorno al quale poteva egregiamente raggrupparsi il mondo orientale. In virtú dell'impronta ellenica che la contrassegnò fin dalla sua origine, soprattutto per il carattere che le conferí il cristianesimo, la nuova capitale sarebbe differita profondamente dall'antica ed avrebbe simboleggiato con sufficiente proprietà le aspirazioni e le nuove tendenze del mondo orientale. La concezione nuova della monarchia che si era già venuta da lungo tempo elaborando nell'Impero orientale, avrebbe dovuto trovare nella nuova capitale il suo campo di attuazione piú favorevole. Per uno strano paradosso storico Costantino era tratto d'istinto a fare del cristianesimo il coefficiente piú acconcio alla realizzazione piena di quella tendenza che aveva accompagnato fin dalle origini il potere imperiale romano: la tendenza a divenire una autorità assoluta e di diritto divino. Costantino poté avvolgere tale autorità in tutti gli splendori del costume, del diadema e della porpora e con tutte le pompe dell'etichetta e con tutto il fasto cortigiano che accompagnavano in Oriente lo spiegamento del governo regale. Ritenendosi ormai, come si erano ritenuti sempre i sovrani d'Oriente, dio sulla terra; pensando che nella sua intelligenza si riflettesse l'intelligenza suprema; Costantino mise in atto tutte le sue risorse per dare risalto al carattere sacro del sovrano, per separarlo dal resto dell'umanità mercè le forme solenni e ieratiche del suo regime, per fare in una parola della regalità terrestre come un'immagine ed un riflesso della regalità divina.

Abbandonata al suo destino, spogliata della sua effettiva capacità di capitale, Roma poté prendere la sua rivincita realizzando una divisione di poteri che sarebbe stata la genesi e l'elemento connettivo del medioevo occidentale.

Del resto la scelta della nuova capitale non era infelice. La bella situazione e l'ottimo porto di Bisanzio costituivano elementi di rilevantissima importanza nello sviluppo della politica imperiale ad Oriente. Fin dai tempi piú antichi i due stretti del Bosforo e dell'Ellesponto e le coste della Propontide, di cui aprono e chiudono l'ingresso, erano stati celebrati dalla poesia, dalla leggenda, dalla storia. Il Bosforo – passaggio del bue – era il luogo dove, perseguitata dal furore geloso di Hera, Io era riuscita a passare dall'Europa in Asia. Per quel passaggio periglioso si era avventurato Giasone, diretto a sfidare l'incantesimo magico di Medea. Verso il Mediterraneo l'ingresso dell'Ellesponto guardava la pianura di Troia, il Monte Ida, la Tomba di Achille e vedeva sfociare il piccolo corso d'acqua, che portava un nome illustre: lo Scamandro. Là Serse aveva gettato quel ponte gigantesco, per trasferire la massa dei suoi armati, che Erodoto ci ha descritto.

Le origini stesse della piccola città di Bisanzio erano avvolte in un alone di bene auspicanti leggende. Bizas, il primo fondatore della città, era designato come rampollo di Zeus e di Io, e la città aveva conosciuto momenti di prosperità e di grandezza. Ora cominciava per essa la nuova storia. La trasformazione edilizia della città e la sua amplificazione procedettero con rapidità fulminea: a distanza di nove mesi dalla posa della prima pietra, la nuova capitale era con grande pompa inaugurata, l'11 maggio del 330. Tutti i mezzi furono buoni per chiamarvi nuovi abitanti: elargizioni, spettacoli, distribuzioni di viveri. Costantino cercò soprattutto di attrarre verso la nuova capitale i ricchi di Roma e delle provincie, i senatori, le famiglie nobili dell'Impero.

L'abbellimento artistico e religioso della città fu compiuto con i criteri piú eclettici. Le statue di Castore e di Polluce come i treppiedi di Delfi ornarono il nuovo ippodromo. Ai lati del Foro furono trasportate la statua di Cibele dal monte Dindimo e una statua della Fortuna da Roma. Una statua dell'imperatore fu innalzata nel centro della città in forma di Apollo, con intorno al capo un'aureola luminosa. Insieme a questi residui di paganesimo la città fu abbellita di chiese cristiane e la consacrazione della città intera fu fatta, secondo la parola di Eusebio, nel nome del Dio dei martiri.

Una legge emanata da Costantino il 29 novembre del 330 attribuisce già alla città il nome di Costantinopoli.

L'amministrazione civile della città fu scrupolosamente calcata sul tipo amministrativo della vecchia Roma. Separata dalla provincia d'Europa di cui faceva parte, affrancata dalla supremazia metropolitana di Eraclea, Costantinopoli ebbe il suo prefetto del pretorio e il suo prefetto urbano. Ebbe anche il suo senato, per il quale era stato costruito un magnifico palazzo presso il principale edificio ecclesiastico. E i senatori ricevettero le medesime denominazioni onorifiche e furono investiti delle medesime mansioni, ormai del resto straordinariamente ridotte, che costituivano l'appannaggio del senato romano piú di nome che di fatto. Il senato bizantino non uscí mai dal rango di un consesso decorativo, privo di qualsiasi effettiva efficienza.

Il nuovo edificio statale costruito da Costantino ebbe per base l'instaurazione di una aristocrazia completamente estranea ai ricordi ed alle tradizioni della vecchia aristocrazia romana. Si trattò però di una aristocrazia direttamente scelta e designata dal sovrano, di null'altro incaricata che di costituire intorno a lui una casta privilegiata e servile nel medesimo tempo, strumento della sua volontà e in pari tempo scenario obbligato della sua pompa ieratica.

Riprendendo e sanzionando definitivamente le riforme amministrative già introdotte da Diocleziano, Costantino fissò la divisione dell'Impero in quattro prefetture del pretorio: quella d'Oriente, quella dell'Illirico, quella dell'Italia e quella della Gallia. La prefettura d'Oriente comprese cinque diocesi: l'Oriente propriamente detto, l'Egitto, l'Asia, il Ponto, la Tracia. La prefettura dell'Illirico comprese le diocesi della Macedonia, della Dacia, dell'Illirico propriamente detto. La prefettura d'Italia a sua volta si ripartì in tre diocesi: l'Italia propriamente detta, il territorio di Roma, l'Africa. Infine la prefettura delle Gallie comprese tre diocesi: la Spagna, la regione delle sette provincie, la Bretagna.

Le due città imperiali conservarono una loro configurazione autonoma.

Questa minuta ripartizione del territorio imperiale creò una burocrazia numerosa e autoritaria, che ebbe al suo vertice un grande consiglio di Stato al fianco dell'imperatore. Esso sostituiva quel consiglio di senatori che agli inizi del governo imperiale aveva dovuto assistere Augusto nel suo governo e che con l'andar del tempo si era trasformato in un piccolo gruppo di favoriti. Scopo precipuo di Costantino fu quello di evitare con ogni cura una qualsiasi confusione e commistione fra il potere civile ed il potere militare, eliminando cosí le forze armate dalla politica, nella quale esse avevano nell'ultimo secolo spiegato una azione tanto preponderante. Separando i poteri civile e militare, Costantino di rimbalzo rafforzava le capacità incontrollabili del sovrano.

Riforme cosí grandiose, rivolgimenti cosí sostanziali, non potevano andare esenti da un inasprimento durissimo del regime fiscale. Il novero delle imposte dirette ed indirette subisce nell'epoca costantiniana un accrescimento impressionante e la fiscalità si fa violenta e sospettosa. Una lotta disperata si delinea tra i bisogni impellenti dell'Impero trasformato e la sterilità crescente della pubblica fortuna. Le leggi finanziarie di Costantino ce lo mostrano di volta in volta preoccupato dei bisogni urgenti del tesoro e della miseria crescente del popolo. Le piú grandi cure sono dal suo governo dedicate alla delimitazione del catasto. Costantino parte dal principio che la proprietà, non la persona, è soggetta al contributo diretto. D'altro canto la proprietà oberata fu piú volte incapace di rispondere all'appello del fisco e tutti gli storici di Costantino ci riportano concordemente che egli dovette piú di una volta rimettere integralmente a provincie intere cospicue somme di contributi arretrati.

Il regime fiscale dell'Impero romano era in qualche modo paralizzato dal fatto che le municipalità provinciali avevano universalmente mantenuto sotto il dominio romano la loro costituzione indipendente. Cosí per principio come per politica Roma aveva lasciato a ciascuna delle città conquistate la libertà della sua organizzazione interna. Purché Roma potesse regolarmente ricavare dai municipi le somme stabilite per il rispettivo contributo al bilancio statale, Roma lasciava a ciascun municipio la libera disposizione delle proprie risorse, gravate dal dovere di provvedere ai propri bisogni. Tutti i borghesi agiati, sotto il nome di curiali o di decurioni, costituivano il consiglio di queste piccole repubbliche e nominavano il potere esecutivo consistente in uno od in parecchi magistrati municipali designati col titolo di Duumviri, di Edili o di Pretori. Il municipio comunicava col potere centrale attraverso questa curia il cui còmpito principale naturalmente era di rispondere dinanzi al pretore imperiale del proprio contributo d'imposte.

Una cosí elastica libertà di organizzazione avrebbe potuto benissimo rappresentare un efficace stimolo alla attività pubblica in un paese laborioso e prospero, ma nella indigenza generale in cui l'Impero andò progressivamente cadendo, essa aprí il varco alle piú inique vessazioni del despotismo. Finché il gettito delle imposte fu abbondante, poteva essere ragione di grande compiacimento per gli abitanti di un municipio mantenerne la gestione incontrollata, ma quando la crisi fu generale, il municipio si trovò al cospetto dello Stato responsabile di tutte le conseguenze del pubblico impoverimento. Il gettito delle imposte diminuiva, sia a causa del decadimento dell'agricoltura municipale, sia a causa dell'attenuarsi della ricchezza cittadina. I curiali non cessarono per questo di aver l'obbligo di provvedere agli oneri municipali e in pari tempo al pagamento dei contributi stabiliti. Dovettero pertanto provvedere di tasca loro. Quando gli amministratori centrali delle provincie avevano fissato sulla base dei loro calcoli l'imposta catastale di ogni municipio, ne facevano conoscere l'ammontare ai decurioni i quali dovevano a loro rischio e pericolo mediante i loro agenti assicurarne la riscossione per farne pervenire il contingente fissato in natura o in moneta nelle casse o nei granai degli ammassi statali.

Lo Stato trovava naturalmente molto comodo garantirsi cosí della riscossione delle imposte e del soddisfacimento dei servizi pubblici attraverso un piccolo comitato di responsabili, anziché dover trattare con la massa della popolazione. Ma ci si può facilmente render conto di quel che dovette accadere alla circoscritta borghesia responsabile, in pari tempo, delle esigenze del fisco al cospetto degli amministrati e del debito pubblico al cospetto dello Stato. I curiali finirono con l'essere in pari tempo le vittime designate di tutte le vessazioni fiscali e di tutto il risentimento popolare. Si finì che tutta questa piccola borghesia, che pure costituiva la forza e la prosperità dello Stato, non ebbe altro ideale che quello di sottrarsi agli onori municipali, che rappresentavano in realtà veri oneri intollerabili. Questa situazione di cose deve aver avuto la sua importanza in quei movimenti ascetici e monastici del quarto secolo che rappresentano bene, molte volte, una sospirata evasione dalle gravose responsabilità della vita pubblica.

A questa tragica situazione di cose le grandi riforme costantiniane non poterono arrecare rimedio. Le sue innovazioni amministrative e monarchiche si arrestarono alla superficie di un corpo corroso fino al midollo. L'ordine che egli ristabilí fu del tutto esteriore. Era un ordine che cambiava, non era un ordine che riformava. Costantino poté edificare una città, modificare i quadri della amministrazione, dare un nuovo indirizzo alle tradizioni della politica. Non riuscì a creare un nuovo Impero. La nobiltà rovinata e per questo stesso piú bisognosa dei favori del sovrano, non conobbe l'autonomia delle vere aristocrazie. L'amministrazione sfruttò l'accrescimento dei suoi poteri per moltiplicare le vessazioni e gli abusi. Generata dalla decrepitudine del mondo, Costantinopoli non ebbe mai neppure per un giorno, pur sotto il fosforescente fulgore dei suoi ori e dei suoi mosaici, il vigore e la sanità della giovinezza.

Non bisogna d'altro canto esagerare nell'attenuare l'efficienza della Bisanzio rinnovellata. Da un cinquantennio a questa parte la storia di Costantinopoli è stata ricelebrata nella sua vera significazione e nella sua genuina grandezza. Se la città di Costantino non vide cominciare per il mondo romano una seconda età di prosperità e di grandezza, tuttavia nello straripamento minaccioso della barbarie ebbe l'insigne merito di offrire un asilo a quasi tutti gli elementi superstiti della civiltà romana. Difesa contro le invasioni barbariche, piú che dal valore dei suoi cittadini, dalla sua ammirabile situazione naturale e dal sapiente meccanismo della sua amministrazione, Costantinopoli minacciata sempre, conquistata mai, poté conservare, fin quasi si direbbe all'albeggiare dell'età moderna, una immagine esatta per quanto sbiadita di tutta la società romana. Costantinopoli salvò tesori inestimabili pur senza avere mai la capacità di trarne direttamente adeguato profitto.

Li conserverà per riconsegnarli piú tardi in eredità alla civiltà rigenerata dell'Occidente. Un'idea appropriata di questa provvidenziale funzione assolta da Costantinopoli ce la possiamo fare ricordando i grandi movimenti del diritto civile che datano da questa epoca. Bisanzio sola infatti ci ha conservato il diritto romano. Le grandi collezioni giuridiche che sono alla base della tradizione legale della nostra civiltà – le Pandette, le Istituzioni, i due codici – sono state compilate nella Bisanzio trasformata. Rappresentano di fatto la distillazione finale di quello spirito di regolarità sistematica che presiede sempre ai tentativi di riforma dei grandi Stati. Senza gli imperatori di Costantinopoli il diritto romano sarebbe stato integralmente sommerso dalle invasioni barbariche. Poté invece sopravvivere colà, modificato senza dubbio dalle postulazioni della nuova religione, ma conservando tutte le sue costruzioni essenziali.

Non appena fondata, Costantinopoli fu infatti una città essenzialmente legale e giuridica. La novella organizzazione imperiale era straordinariamente favorevole agli uomini di legge. Scuole di giurisprudenza furono aperte in tutte le principali città dell'Oriente e i titoli di avvocato e di giureconsulto che vi si potevano conseguire dischiudevano il varco a tutte le cariche dello Stato. Probabilmente fu sotto il regno stesso di Costantino che due eminenti giureconsulti, Ermogene e Gregorio, tentarono per la prima volta di raccogliere in un unico testo gli elementi dispersi del diritto romano cercando di fondere in un tutto sistematico le vecchie leggi della repubblica, insieme con le opinioni dei giureconsulti e gli editti dei sovrani. I giureconsulti del resto non furono a Costantinopoli i soli rappresentanti del diritto: la legislazione ecclesiastica affidata all'amministrazione vescovile apportò il suo valido contributo alla nuova codificazione.

Ci furono infatti a Costantinopoli come in tutte le grandi città del nuovo Impero due diritti e due giustizie alla presenza l'una dell'altra: il tribunale del governatore circondato da giureconsulti e l'udienza del vescovo, circondato dal suo clero. I loro rapporti non potevano essere, specialmente agli inizi, quelli della piú concorde cordialità. I cristiani dovevano conservare una certa repugnanza per un pretorio nelle aule del quale i loro avi non avevano ascoltato che sentenze di condanna. I giureconsulti, dal canto loro, tutti legati ai vecchi ricordi romani, non potevano riguardare che con diffidenza la nuova fede. Ma nella nuova temperie religiosa creata dalle riforme costantiniane la coabitazione e la convivenza delle due forme di giustizia erano automaticamente destinate a concedersi scambi sempre piú copiosi e sempre piú cospicui. Mentre i tribunali ecclesiastici prendevano a prestito la procedura romana, le sue precauzioni molteplici e la sua solenne lentezza, la giurisprudenza civile attinse dall'azione ecclesiastica un piú squisito senso di delicatezza morale e un abito di dolcezza che le era stato fino allora sconosciuto. È su questo terreno che cristianesimo e romanità venivano chiamati al piú proficuo processo di scambievole assimilazione.

Se il programma massimo cristiano rimaneva il sogno di pochi entusiasti e andava a rifugiarsi nelle solitudini care alla vita anacoretica e cenobitica, l'Impero cercava dal canto suo di pagare uno scotto al cristianesimo addolcendo la tecnica del proprio governo, pur di non avere sempre sui propri passi l'ostilità indomabile e pericolosa della coscienza collettiva scaturita carismaticamente dal messaggio evangelico.

Costantinopoli rimase l'asilo della vecchia società convertita. Roma, disertata dalla corte imperiale, in potere ormai esclusivo del capo supremo della Chiesa, poté assurgere in qualche modo alla dignità di città cristiana per eccellenza. Il còmpito di Roma in questa profonda trasformazione della struttura e delle concezioni della vecchia Roma pagana fu quello di garantire una ortodossia che impedisse al messaggio cristiano, tradotto in termini di dogmatica e in canoni di disciplina, di diventare nelle mani dell'Impero un nuovo ed inerte strumento di governo. La nuova civiltà sarebbe stata basata essenzialmente sulla concezione delle due città, che procedono mescolate nel mondo verso la realizzazione dei grandi disegni di Dio sulla storia degli uomini.

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