Avvertimento

Narra il Viviani, che tra i vari trattati stesi da Galileo «per utile e diletto de' suoi discepoli» fu un «Compendio di Sfera», il quale, al pari degli altri, andò attorno manoscritto; e di tale argomento noi sappiamo essersi il Nostro ripetutamente occupato, tanto nel pubblico quanto nel privato insegnamento, durante il suo soggiorno in Padova. Non possiamo però indicare con esattezza l'anno in cui la presente scrittura venne da lui stesa.

Dopo la morte di Galileo, e sotto il suo nome, fu dato alle stampe in Roma nell'anno 1656 un «Trattato della Sfera» da frate Urbano Daviso, che si celò sotto l'anagramma di Buonardo Savi; ma il trovare in esso sostenuta la immobilità della terra fu portato come argomento per tenerlo apocrifo. Il Nelli, ricordando la parte avuta dal Viviani nella prima edizione delle opere di Galileo, curata dal Manolessi in Bologna, e non trovando in essa questo trattato della Sfera, giudicò non averlo il Viviani stimato opera del suo Maestro. Il Libri, più recisamente ancora del Nelli, sentenziò apocrifo questo trattato, insinuando anzi che potesse essere opera dello stesso Daviso, frate peripatetico, il quale si sarebbe indotto alla pia frode, per far credere che Galileo avesse modificate le sue opinioni intorno al sistema del mondo. Ma è agevole provare che queste argomentazioni sono prive di fondamento.

Anzitutto, il trovare che nel testo edito dal Daviso sono esposte dottrine contrarie al sistema copernicano, che Galileo professava, per lo meno, fin dal 1597, non vale ad impugnarne l'autenticità; anzi questo fatto è conforme a quanto fu ad esuberanza dimostrato, vale a dire che egli nel suo insegnamento si attenne del tutto al sistema tolemaico. E a torto fu invocata contro l'autenticità stessa la indiretta testimonianza del Viviani, il quale anzi ebbe esplicitamente ad affermarla. Che tale trattato non sia fattura del Daviso, dimostrano ancora i manoscritti sincroni che ne abbiamo rinvenuti; e che, infine, sia veramente opera di Galileo, lo dimostra luminosamente il fatto, che in uno dei capitoli della «Sfera», quale fu pur edita dal Daviso, la dove si tratta «Delle longitudini e latitudini», i termini delle definizioni, la trattazione dell'argomento e perfino gli esempi (fatta soltanto astrazione dal luogo al quale si riferiscono) sono quei medesimi usati da Galileo per la determinazione delle longitudini in mare, la quale egli fece inviare, per via diplomatica, nel 1612 al Governo Spagnuolo, e che fino al 1818 rimase inedita negli Archivi Toscani di Stato.

Il sapere tuttavia, per l'una parte, che Galileo aveva steso un trattato della Sfera, ed il vedere, per l'altra, come da grandi autorità veniva impugnata l'autenticità di quello edito dal Daviso, doveva condurre ad attribuire al Nostro alcuni dei trattati anonimi di Sfera, dei quali v'ha dovizia nelle biblioteche: e così avvenne che fossero creduti scritture di Galileo quelli contenuti nel codice della Biblioteca Nazionale di Firenze segnato II. IV. 683, nell'Ashburnhamiano 623 (già 692) della Medicea Laurenziana, e nell'Add.i 22786 del British Museum. Nessuno però di tali scritti, diversi l'uno dall'altro, ha alcun che di comune con l'opera di Galileo, che qui pubblichiamo.

Di questo Trattato della Sfera ovvero Cosmografia, come all'Autore piacque di chiamarlo, ci son noti i seguenti manoscritti:

a =Bibl. Naz. di Firenze; Mss. Gal., Par. III, T. II, car. 28-69.

m= Bibl. Naz. Marciana di Venezia, Cl. IV. ital., n. CXXIX; pag. 1-96.

r = Bibl. Gasanatense di Boma, cod. E. III. 15&. 675.

c = Bibl. dell'Università Jagellonica di Cracovia, cod. 571; car. 2-45.

Di questi esemplari, il codice a, che sulle due guardie (car. 28 r. e 69 v.), in mezzo a diverse parole scritte, o incominciate a scrivere, senz'ordine alcuno, quasi per trastullo, porta ripetuto più volte il nome di Niccolò Giugni, ed una volta quello di Vincenzio Giugni padre di lui, si può ritenere sia appartenuto a Niccolò, che fu discepolo di Galileo in Padova negli anni 1604-1605; così che, ammesso che Niccolò lo portasse da Padova a Firenze, si potrebbe crederlo esemplato non dopo il 1605; alla qual data conviene perfettamente la forma della scrittura. II codice m, che appartenne già alla Libreria dei Chierici Regolari Somaschi di Venezia, porta, a piè della pag. 1, e sotto il titolo «Sfera dell'Ecc.mo S.r Galileo Galilei, Matematico di Padova», la data «1606», della mano medesima che esemplò il Trattato. Alquanto più tarda è la mano dell'esemplare che segniamo r: esso è compreso in una miscellanea di scritture del geografo siciliano Giovanni Battista Nicolosi, che si vede essere appartenuta al Nicolosi medesimo, del quale contiene lettere con le date 1648 e 1653. Finalmente, il codice c appartenne già a Giovanni Broscio (Jan Brózek), scienziato polacco che fu a Padova dal 1620 al 1624; e di sua mano offre il titolo «Principia Astronomiae Galilaei de Galilaeis», scritto sul verso del cartone. Se, com'è probabile, fu portato in Polonia dal Broscio stesso, si dovrebbe dire anteriore al 1624; e certamente, come conferma l'esame della scrittura, non è posteriore alla prima metà del secolo XVII, tranne forse i titoli dei capitoli, che sembrano di mano alquanto meno antica.

Collazionando diligentemente detti esemplari, ci siamo persuasi ch'essi formano, quanto al testo, una sola famiglia, pur avendo ciascuno suoi particolari caratteri. Più speciali affinità offrono tra di loro a ed m da una parte, ed r e c dall'altra. I due primi sono deturpati da molti e gravissimi errori di senso. Il cod. a fu, con molta probabilità, esemplato da copista toscano: mentre però, sotto questo rispetto, si raccomanda alla nostra attenzione, essendo probabile che meglio abbia conservato le forme genuine dell'Autore, presenta, e in larghissima copia, altri fatti che lo rendono meno commendevole: come sarebbero l'inserzione viziosa dell'i dopo gn davanti a, e, o, p. e. in ingegniandoci, campagnia, segnio, ecc.; lo scempiamento del v in avenire, avicinarsi, ecc.; le desinenze - aremo - aranno, ecc. nei futuri e condizionali della prima coniugazione; per non dire di certe deformità, come andasserono, abitasserono, procedesserono, ecc. D'altra parte, il colorito veramente toscano che presenta questo codice, ci parve in alcuni particolari alquanto esagerato, tanto da farci nascere il sospetto che l'amanuense avesse caricato la tinta trovata nell'originale. Il codice m, sebbene per antichità molto rispettabile, trascorre spesse volte ad alterare la parola genuina, qualche volta ad ammodernare, spessissimo a riordinare i costrutti, togliendo specialmente certi iperbati piaciuti all'Autore, per ridurli ad una sintassi piana e regolarissima: e per tali motivi non merita alcuna fede. Il codice r dà spesso buona lezione dove a ed m sono guasti, ma in altri luoghi si perde in istrani guazzabugli. Alcune forme dialettali, che vi si notano, inducono ad attribuirlo a copista romano; e sappiamo invero che il Nicolosi, a cui abbiamo visto che appartenne, dimorò a lungo in Roma. Assai più corretto degli altri è il codice c, anche se in qualche luogo abbia esso pure bisogno dell'opera critica: e mentre non presenta le arbitrarie mutazioni di m, ed è di età più antica che r, la tinta dialettale veneta, data qui al Trattato per opera del copista, è così leggera e superficiale che facilmente si può detergere. Poichè, dunque, quello che ci ispirava maggior fiducia era il codice c, lo abbiamo preso a fondamento del nostro testo; e soprattutto con la sua scorta abbiamo potuto correggere molti e gravissimi errori che correvano nelle stampe precedenti, come potrà facilmente avvertire chi con queste vorrà confrontare la nostra: il medesimo codice c abbiamo seguito poi, e ben s'intende con le solite cautele ed eccezioni, anche per quel che risguarda le forme linguistiche e l'ortografia, preferendolo dopo qualche esitazione ad a, la cui toscanità, come sopra dicemmo, ci sembrò alquanto sospetta.

Registrammo poi, conforme al nostro costume, le più notabili varietà degli altri codici; non avvertendo però mai, sebbene fossero in istampe precedenti, le gravi differenze del codice m, persuasi e, possiamo dire, sicuri, come eravamo, che non sia da attribuir loro altra origine all'infuori dell'arbitrio del copista. E delle varietà offerte dalle stampe neppure ci occorse di tenere alcun conto: chè l'edizione principe, romana del 1656, la quale fa menzione di un manoscritto ch'era appresso «il Sig. Scipione Santronchet», mostra d'essere stata condotta sopra un codice assai affine ad r, il quale r sospettammo essere scritto a Roma ed in quelli anni medesimi; e nella raccolta Padovana delle Opere, che fu la prima ad accoglier la Sfera, questa fu ristampata sul codice m, venendo però alterate alcune forme, o per arbitrio dell'editore, o per errori di lettura a cui il carattere, punto facile, del codice potè dar origine; e l'ultima edizione Fiorentina riprodusse la Padovana, variandola in questo o quel luogo col riscontro del codice a.

Stabilendo il nostro testo sul codice c, abbiamo su di esso riprodotto anche la Tavola dei climi, con voci latine. Questa, sebbene da quanto è esposto nel capitolo che la precede, sia assolutamente richiesta, manca negli altri tre codici, alcuno de' quali lascia in sua vece uno spazio bianco; è poi con voci italiane nell'edizione principe: ma ci attenemmo anco in questo particolare, con maggior fiducia al codice. Non abbiamo tuttavia dato luogo, per seguire il codice, ad una seconda Tavola, che pure vi si trova, dei sette climi di Tolomeo; sembrandoci questa un'aggiunta erudita, ma non necessaria, nè in armonia col capitolo dell'opera in cui si parla de' climi, e nel quale soltanto l'altra tavola, e questa in termini molto particolareggiati, viene annunziata.

Nel Trattato della Sfera, che più propriamente chiameremo Cosmografia, prima, sì come in tutte l'altre scienze, si deve avvertire il suo suggetto, ed in oltre toccare qualche cosa dell'ordine e metodo da osservarsi in esso.

Diciamo dunque, il suggetto della cosmografia essere il mondo, o vogliamo dire l'universo, come dalla voce stessa, che altro non importa che descrizione del mondo, ci viene disegnato. Avvertendo però, che delle cose, che intorno ad esso mondo possono esser considerate, una parte solamente appartiene al cosmografo; e questa è la speculazione intorno al numero e distribuzione delle parti d'esso mondo, intorno alla figura, grandezza e distanza d'esse, e, più che nel resto, intorno a i moti loro; lasciando la considerazione della sostanza e delle qualità delle medesime parti al filosofo naturale.

Quanto al metodo, costuma il cosmografo procedere nelle sue speculazioni con quattro mezzi: il primo de' quali contiene l'apparenze, dette altrimenti fenomeni: e queste altro non sono che l'osservazioni sensate, le quali tutto 'l giorno vediamo, come, per essempio, nascere e tramontar le stelle, oscurarsi ora il sole or la luna, e questa medesima dimostrarcisi ora con corna, ora mezza, or tonda, ed or del tutto stare ascosa, moversi i pianeti di moti tra loro diversi, e molte altre tali apparenze. Sono nel secondo loco l'ippotesi: e queste altro non sono che alcune supposizioni appartenenti alla struttura de gli orbi celesti, e tali che rispondino all'apparenze; come sarà quando, scorti da quello che ci apparisce, supporremo il cielo essere sferico, muoversi circolarmente, participare di moti diversi, la terra essere stabile, situata nel centro. Seguono poi, nel terzo luogo, le dimostrazioni geometriche; con le quali, per le proprietà de' cerchi e delle linee rette, si dimostrano i particolari accidenti, che all'ippotesi conseguiscono. E finalmente, quello che per le linee s'è dimostrato, con operazioni aritmetiche calculando, si riduce e distribuisce in tavole, dalle quali senza fatica possiamo poi ad ogni nostro beneplacito ritrovare la disposizione de' corpi celesti ad ogni momento di tempo. E perchè siamo nei primi principii di questa scienza, lasciando da parte ora i calcoli e le dimostrazioni più difficili, ci occuperemo solamente circa l'ippotesi, ingegnandoci di confermarle e stabilirle con l'apparenze.

Pigliando dunque il nostro totale soggetto, ciò è il mondo, cominciamo primamente a distinguerlo nelle sue parti: le quali principalmente troviamo esser due, tra di loro molto diverse e quasi contrarie. Perciò che s'è vero che l'intelletto nostro sia guidato alla cognizione delle sostanze per mezzo de gli accidenti, noi troveremo nelle parti dell'universo notabil differenza, presa dalla diversità de gli accidenti principalissimi: poi che se noi considereremo la diversità tra 'l moto retto e 'l circolare, de i quali questo è infinito, grandissima distinzione doveremo assegnare tra quelle parti dell'universo che eternamente vanno a torno, e queste che non possono, se non per breve tempo, muoversi per dritta linea: e perciò diremo, la parte elementare essere totalmente diversa dalla celeste, essendo di quella il moto retto, e di questa circolare; e tanto più, venendo tal diversità confermata dal veder noi esser gli elementi supposti a continue mutazioni, alterazioni, generazioni e corruzioni, restando la parte celeste ingenerabile, incorruttibile, inalterabile, ed insomma impassibile d'ogni altra mutazione, eccetto che del moto locale circolare.

Per lo che assegneremo dell'universo queste due parti principali, ciò è la regione celeste, e l'altra elementare; e questa, suddividendola, verrà distinta in quattro parti, delle quali due averanno il moto retto verso 'l centro, e l'altre verso la circonferenza. Il numero delle quali ci viene non meno dal senso scoperto, che dalla ragione confirmato; vedendo la terra gravissima giacer sotto l'acqua, ed ambedue esser circondate dall'aria, sopra la quale doviamo credere essere l'elemento del fuoco, sì perchè vediamo molte essalazioni tenui e sottili salire in alto per l'aria, sì perchè sopra essa appariscono molte impressioni ignee, come di stelle cadenti, crinite e barbate: come ancora per le combinazioni delle quattro prime qualità, perchè se dal freddo e secco vien constituita la terra, dal freddo ed umido l'acqua, e l'aria dal caldo ed umido, doviamo credere esser un altro corpo tale, costituito dal caldo e secco; e questo non sarà altro ch'il fuoco.

E circa la distribuzione di questi quattro elementi, veggiamo i più gravi esser circondati da i men gravi, ma non però la terra esser del tutto immersa nell'acqua; di che diremo essere causa l'asprezza e disugualità della superficie terrestre, nella quale essendo molte preminenze di monti ed altre parti rilevate, e molte concavità di valli e luoghi bassi, ed essendo piccolissima in proporzione della terra la mole dell'acqua, sono solamente inondate le parti basse, restando discoperte le più alte; e ciò farsi per salvezza de gli animali terrestri.

Poi che s'è distinta la regione elementare nelle sue parti, resta che distinguiamo ancora la celeste, investigando il numero e l'ordine degli orbi. Per il che fare, prima doviamo supporre, insieme con tutti i filosofi ed astronomi, non potere uno stesso corpo semplice aver più di un sol moto, proprio e naturale. Secondariamente supponiamo, le stelle esser fisse ne' proprii orbi, al moto de' quali esse vengono portate, di maniera che non possino per loro stesse andar nel proprio orbe vagando, a guisa d'uccelli per aria. Fatte queste due supposizioni, tanti per necessità diremo esser gli orbi celesti, quanti sono i movimenti diversi che nelle stelle appariscono: di maniera che, se in tutta la moltitudine delle stelle non apparisse altro movimento che questo diurno da oriente a occidente, un solo orbe saria stato bastante, il quale tutte insieme le portasse; ma perchè, osservando esquisitamente tutta la moltitudine delle stelle, se ne veggono cinque, ed oltr'ad esse il sole e la luna, che non servano e mantengono il medesimo sito rispetto all'altre, ma vanno in diverse parti vagando, quindi è, che non in uno solo orbe si devono constituire, ma assegnare tanti, quanti sono i moti che appariscono. Ed acciò che meglio s'intenda quanto si dice, daremo un essempio d'una delle più facili osservazioni: e sarà, che se noi questa sera osserveremo il sito, verbi gratia, della luna, la quale, poniamo caso, ci apparisce vicina al Cuor di Leone, tornando diman da sera a riguardarla, la vederemo essersi dalla detta stella slontanata verso le parti orientali; adunque non può la luna esser fissa nel medesimo orbe che la già detta stella. E parimente, osservando il sito presente, verbi gratia, di Giove, e tornando a rimirarlo fra un mese o due, lo troveremo, non più appresso alle medesime stelle fisse, ma in altro luogo esser situato; dal che si conchiude, ancor esso esser portato da un orbe particolare. Ed ancor che non si possa il sole in tal guisa osservare, non apparendo egli in compagnia dell'altre stelle, nulladimeno s'è osservato muoversi ancor esso di moto proprio. Perciò che se, verbi gratia, questa sera noi, poco doppo il tramontar del sole, osserveremo qualche stella fissa, che nasca in oriente, troveremo, tra 15 o 20 dì, la medesima nel tramontare del sole non pure esser nata, ma assai alta; il che di necessità argomenta, essersi l'intervallo fra essa ed il sole diminuito, e, per conseguenza, il sole aver moto proprio ed orbe particolare.

E perchè con le medesime osservazioni si comprende, ciascuna di queste stelle vaganti non solamente aver moto diverso da quello dell'altra moltitudine, ma ancora tra di loro esser differenti; quindi è che per necessità si sono posti otto orbi: uno, ciò è, per tutte le stelle che non mutano sito tra di loro, e perciò sono dette fisse; ed altri sette per quelle che vanno di moti proprii vagando, e perciò vengono dette pianeti.

Ma osservando ancora più esquisitamente gli astronomi li moti celesti, dalle apparenze, che più a basso dichiareremo, sono venuti in opinione doversi sopra l'ottavo orbe aggiungere ancora il nono, ed altri anco il decimo.

Questo è quanto al numero de gli orbi celesti: resta che dichiariamo l'ordine. Il quale è stato investigato, oltre all'altre cause, dalla maggiore o minore velocità de i moti proprii de' pianeti; in guisa che siano più a noi propinqui quelli, de' quali li moti sono più veloci, già che così vengono a descrivere minori cerchi, e meno ad esser impediti dall'universal moto diurno. E per queste ragioni, la Luna è vicinissima a noi; sopra essa stimasi esser Mercurio, poi Venere, quindi il Sole, poi Marte, Giove e Saturno. Ed oltre a ciò, evidenti argumenti della propinquità della luna sono l'arrivare ad essa l'ombra della terra, e non ad altra stella, ed il veder lei occultare il sole ed altre stelle, nel passargli sotto.

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