CAPITOLO XIV SICCIO

Tornando ancora al 1849 ed alla scena fatale in cui il nostro povero Muzio all’età di due anni fu derubato del suo patrimonio a beneficio della Compagnia di S. Vincenzo di Paola, ricordiamo ancora che un servo di casa, Siccio, aveva introdotto quel furfante di Don Ignazio con tale piglio che abbiamo creduto necessario doverlo notare.

Siccio era il più antico dei famigliari di casa Pompeo; in quella casa era nato, era stato beneficato in varie circostanze da’ suoi buoni padroni ed amava l’orfano Muzio con affetto di padre.

Buon uomo ma non molto astuto diffidò tuttavia delle mene del paolotto e della sua complice, ma in Roma, al curatore delle anime, al medico spirituale, al confessore della padrona di casa, chi ardirebbe fare uno sfregio?

Ai preti importa troppo la confessione, e per ciò sanno circondarla di particolare prestigio.

La confessione! quell’arma terribile del pretismo, elemento primo delle sue seduzioni, veicolo per cui esso giunge al conoscimento d’ogni cosa, spionaggio infernale ch’egli esercita massime sul sesso debole per il quale egli può signoreggiare ancora, benché disprezzato e maledetto, la maggior parte del sesso più forte!

Il povero Siccio, per l’amore che portava al bambino ed alla casa, fu il primo congedato quando la caterva dei paolotti penetrò nel Santuario domestico per impadronirsi d’ogni cosa.

«E il ragazzo?» dimandava Suor Flavia ad Ignazio.

«Il ragazzo – rispondeva costui. – Non abbiamo noi l’orfanotrofio? Egli là sarà al sicuro dagli sviamenti di questo secolo perverso e dall’eretiche dottrine che oggi dominano il mondo. Poi là noi lo terremo sempre d’occhio, Suora!». E lì nuovo ricambio d’uno di quegli sguardi, cui si preferirebbe una pugnalata.

Fu ventura per Muzio che la ricchezza della preda avesse abbarbagliato i ladri a tal che, dopo quella conversazione del prete colla strega sul conto suo, non ne fecero più caso ed egli rimase in un canto dimenticato come uno straccio, piangendo dalla fame e dal freddo.

Siccio, l’onesto Siccio, non lo dimenticò. Pratico della casa profittò della confusione dei depredatori, e col pretesto di andare per la roba sua menò seco Muzio in una stanza recondita di Roma ove egli aveva preso dimora.

Gioverà sapere che il padre di Muzio era stato antiquario, e che nelle sue peregrinazioni fra i monumenti e le ruine aveva l’abitudine di condur seco Siccio.

Egli dunque nelle escursioni col suo padrone erasi fatto pratico alquanto delle meraviglie di Roma e ciò gli valse per professare il ciceronismo nel presente suo stato di bisogno poiché, col carico del giovine, egli non avrebbe potuto più oltre stare a padrone.

Come cicerone egli poteva vivere miseramente sì, ma indipendente ed il profitto della sua industria serviva al mantenimento proprio e del suo protetto ch’egli amava ogni giorno di più vedendolo crescere vispo, robusto e bello come un Adone. Egli non tornava mai a casa senza portare al suo caro qualche cosa che sapeva gradirgli, e certo egli si sarebbe privato del bisognevole, piuttosto che lasciarne mancante il suo giovane amico.

Così durò vari anni, ma Siccio diventava vecchio, alcuni malanni dell’età lo impedivano sovente di recarsi alle consuete occupazioni, e pur troppo, dal ciceronismo alla mendicità v’è un passo solo. Accattare era doloroso per l’anima onesta di Siccio, ma bisognava pur mangiare e bisognava mantenere il suo protetto.

All’età di quindici anni Muzio era un tipo di perfezione. Gli artisti di Roma che lo videro s’invaghirono delle sue forme e lo richiesero di stare a modello per loro.

Ciò sollevò alquanto la miseria dei nostri poveri congiunti, ma Muzio che aveva imparato la sua storia e conosciuta la propria condizione da Siccio, ripensando alla trama scellerata con cui egli era stato ridotto alla presente poverissima condizione, sdegnava di posare davanti a persone che spesso non conosceva. Avendo sovente seguito Siccio nelle sue escursioni ciceronesche, poteva ei pure condurre un forestiere al campo Vaccino o nel tempio di S. Pietro, e preferiva questa professione. Né Muzio repugnava anche dai lavori manuali, anzi spesso era occupato negli studi degli scultori a muovere massi di marmo; e quando ve n’erano degli enormemente grossi che a mala pena tre uomini potevano levare, Muzio a 18 anni li maneggiava quasi scherzando.

Ma intanto niuno lo aveva mai veduto stendere la mano, ragione per cui gli altri mendichi lo chiamavano con sarcasmo: il signor mendico.

Un giorno una donna velata, entrò nella stanzuccia di Siccio e pose sulla tavola una borsa piena di monete d’oro, dicendo con voce austera al vecchio: «Questo denaro servirà a migliorare la condizione vostra e quella di Muzio. Voi non mi conoscete ma quand’anche giungeste a conoscermi non dite mai al vostro compagno da che parte vi sia venuta questa piccola fortuna» e senza aspettare risposta, disparve.

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