I popoli ben governati e contenti non insorgono. Le insurrezioni, le rivoluzioni, sono la risorsa degli oppressi e degli schiavi e chi le fa nascere sono i tiranni.
Vi sono, è vero, delle eccezioni, ma queste hanno generalmente la loro origine in cause che potrebbero aver nome diverso dalla tirannide ma che in sostanza sono sempre il prodotto di tirannide morale o materiale.
La Svizzera, l’Inghilterra, gli Stati Uniti ebbero pure ed avranno forse ancora delle insurrezioni benché quei paesi sieno i meno mal governati.
La Svizzera ebbe il suo Sonderbund e l’Inghilterra ha i suoi Feniani per cagione dei preti cioè per la tirannia morale esercitata dalla negromanzia sulla parte ignorante delle popolazioni.
Gli Stati Uniti ebbero in questi ultimi anni la loro terribile rivoluzione e ne fu cagione la tirannide materiale che i ricchi coloni del Sud esercitavano sui loro schiavi e che avrebbero voluto estendere negli altri Stati dell’Unione. Morale o materiale, è dunque sempre Tirannide la causa delle rivoluzioni. Ed in Roma chi negherà non ci sia materiale e morale tirannia?
Schifosa tirannide è quella del prete! che prostituisce l’Italia allo straniero e la vende per la centesima volta! La più depravata delle tirannidi!
Era una notte d’Ottobre umida, oscura, ventosa. La pioggia avea cessato di grandinare sulla superficie rilucente ed increspata del Tevere. Le sponde del fiume fangose e solcate dagli scoli dei campi dove ogni fosso s’era fatto torrente non presentavano approdo, o ben difficile.
Erano settanta in varie barche armati di revolver e pugnale con alcuni cattivi fucili. Il loro abbigliamento era più semplice assai che non lo comportava la notte fredda e piovosa ma i settanta sentivano il calore dell’eroismo!
In quella notte Roma doveva insorgere. Nella città si erano introdotti molti dei più coraggiosi d’ogni provincia italiana. I nostri vecchi amici Attilio, Muzio, Orazio, ecc., erano al loro posto per capitanare la gioventù romana.
Invano la sbirraglia pretina si travagliava a scoprire i congiurati, arrestare a destra e sinistra chiunque potesse darle il minimo sospetto. Invano! Roma era gremita di generosi pronti a spendere la loro vita per la sua liberazione; e i settanta trascinati dalla corrente del Tevere gonfio dalle pioggie si avanzavano velocemente in soccorso dei fratelli.
All’ombra del monte S. Giuliano approdarono i valorosi sulla mezzanotte tra il ventidue e il ventitré Ottobre 1867.
«Alle quattro a. m. (23) si dovrà marciare su Roma» disse il prode dei prodi, Enrico Cairoli, ai suoi eroici compagni.
«In questo casino della Gloria riposeremo le membra stanche aspettando le relazioni dei nostri di dentro per assaltare simultaneamente i nemici.
Intanto sento il dovere di ricordarvi che l’impresa è difficile quindi degna di voi. Se alcuno però, piagato nei piedi o indisposto, non si sentisse di seguirci, torni. Noi non gliene faremo un addebito; gli diremo: a rivederci in Roma».
«Nella vita e nella morte, noi vi seguiremo» risposero ad una voce quei fortissimi ed uno solo non se ne trovò che volesse tornare indietro.
«Non vedo la guida che dovea condurci a Roma, né alcuno credo sia venuto di là, a darci notizie dell’insurrezione» diceva Giovanni Cairoli al fratello al ritorno d’una perlustrazione. Ed albeggiava, ed erano proprio in bocca al lupo, cioè inoltrati fra gli avamposti dei papalini e col pericolo d’essere assaliti ad ogni momento.
«Che importa! – dicea l’intrepido Enrico. – Noi siamo qui venuti per pugnare e non torneremo senza aver adempiuto il nostro dovere».
A mezzogiorno un messo da Roma annunziava: il moto della sera avanti essere rimasto dubbio e attendersi notizie ed ordini sul da fare.
Il messo fu rinviato per sollecitare l’azione interna e annunziare la presenza dei settanta pronti a correre in aiuto. Ma nessuna risposta venne ed alle cinque p. m. scoperti da due compagnie di papalini ed attaccati i settanta si prepararono a vincere o morire.
Il valoroso Giovanni Cairoli, che alla testa di ventiquattro dei nostri faceva da vanguardia, in una casa rustica della villa, fu il primo ad essere attaccato e ad onta della superiorità de’ nemici, sostenne senza piegare l’urto dei papalini. Ma, temendo che il numero finisse col soverchiare quel pugno di valorosi, il fratello suo Enrico caricò alla riscossa in aiuto dei venticinque e fece piegare co’ suoi risoluti compagni i mercenari imbaldanziti che respinti dai coraggiosi italiani si diedero alla fuga. Ma altre forze nemiche, numerose e fresche accorsero a sostenere e raccogliere i fuggenti pigliando posizione dietro le alture del monte S. Giuliano, donde spaventosamente facevan fuoco colle loro armi superiori.
I Cairoli, coi loro intrepidi compagni, per l’inferiorità delle armi, avendone molte che non facevano fuoco, ebbero ricorso alle baionette e fecero una di quelle cariche che decidono sempre della sorte di un combattimento.
I mercenari volsero le spalle e lasciarono sul campo buon numero di morti e parecchi feriti, ma i valorosi soldati della libertà perdettero il loro eroico capo, il di lui fratello, ed ebbero non pochi gravemente feriti.
La notte mise fine a quella pugna di giganti!