CAPITOLO XIV. Ingresso a Napoli — 7 Settembre 1860.

L'ingresso nella grande capitale — ha più del portento, che della realtà — Accompagnato da pochi ajutanti — io passai frammezzo alle truppe borboniche, ancor padrone, e mi presentavano l'armi, con ossequio più rispettoso certamente — che non lo facevano in quei tempi ai loro generali.

Il 7 settembre 1860! E chi dei figli di Partenope, non ricorderà il gloriosissimo giorno? Il 7 settembre cadeva l'aborrita dinastia, che un grande statista Inglese, avea chiamato «Maledizione di Dio!» e sorgeva sulle sue ruine, la sovranità del popolo — che una sventurata fatalità, fa sempre poco duratura.

Il 7 settembre, un figlio del popolo, accompagnato da pochi suoi amici, che si chiamavano ajutanti, entrava nella superba capitale dal focoso destriero acclamato, e sorretto dai cinque cento milla abitatori, la di cui fervida ed irresistibile volontà, paralizzando un'esercito intiero — li spingeva alla demolizione d'una tirannide — all'emancipazione dei sacri loro diritti — la di cui scossa, avrebbe potuto movere l'intiera Italia, e portarla sulla via del dovere — il di cui ruggito, basterebbe a far mansueti i reggitori insolenti ed insaziabili — ed a rovesciarli nella polve!

Eppure il plauso, ed il contegno imponente del grande popolo, valsero nel 7 settembre 1860 a mantenere innocuo l'esercito borbonico, padrone ancora dei forti, e dei punti principali della città — da dove avrebbe potuto distruggerla.

Io entrava in Napoli — mentre tutto l'esercito meridionale, trovavasi ancora ben distante verso lo stretto di Messina — ed il re di Napoli — avea abandonato, il giorno antecedente, il suo seggio per ritirarsi a Capua.

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Il nido monarchico, ancor caldo, venne occupato dagli emancipatori popolani — ed i ricchi tapeti delle reggie, furon calpestati dal rozzo calzare del proletario.

Esempi questi, che dovrebbero servire — a qualche cosa, anche per i governi — che falsamente si titolano riparatori — almeno al miglioramento della condizione umana — ma che non servono per l'egoïsmo, l'albagìa, la cocciutaggine degli uomini del privilegio — che non si correggono nemmeno quando il leone popolare, spinto alla disperazione, rugge alle loro porte, per sbranarli con ira selvaggia, ma giusta, ma figlia dell'odio seminato dalla tirannide -

A Napoli, come in tutti i paesi percorsi dallo stretto di Messina — le popolazioni furono sublimi d'esaltazione e d'amor patrio — ed il loro imponente contegno — contribuì certo moltissimo, a sì brillanti risultati.

Altra circostanza ben favorevole alla causa nazionale — fu il tacito consenso, della marina militare borbonica — che avrebbe potuto: se intieramente ostile, ritardare molto il nostro progresso verso la capitale — E veramente i nostri piroscafi trasportavano liberamente i corpi dell'esercito meridionale, lungo tutto il littorale Napoletano, senza ostacoli — ciocchè non avrebbero potuto eseguire con una marina assolutamente contraria.

In Napoli più potente che a Palermo, aveva il Cavourismo lavorato indefessamente — e vi trovai non piccoli ostacoli — Corroborato poi dalla notizia: che l'esercito Sardo invadeva lo stato pontificio, esso diventava insolente.

Quel partito basato sulla corruzione — nulla avea lasciato d'intentato — Esso s'era lusingato pria, di fermarci al di là dello stretto — e circoscrivere l'azione nostra nella sola Sicilia — Perciò aveva chiamato in sussidio il magnanimo padrone — per cui già un vascello della marina militare Francese era comparso nel Faro — Qui ci valse immensamente il veto di Lord John Russel — che in nome d'Albion imponeva al sire di Francia: di non mischiarsi delle cose nostre.

Ciocchè più mi urtava nei maneggi di cotesto partito — era di trovarne le traccia in certi individui che mi erano cari, e di cui mai avrei dubitato. Gli uomini incorrutibili, erano dominati coll'ipocrita, ma terribile pretesto della necessità! La necessità d'esser codardi! La necessità di ravvolgersi nel fango, davanti ad un simulacro di effemera potenza — e non sentire, non capire, la robusta, imponente, [348] maschia volontà d'un popolo che volendo essere ad ogni costo — si dispone a frangere cotesti simulacri insettivori, e disperderli ne letamajo da dove scaturirono.

Cotesto partito, composto di compri giornali, di grassi proconsoli, e di parassiti d'ogni genere — sempre pronti a servire — con ogni specie d'abbassamento e di prostituzione — chi lo paga — e pronto sempre a tradire il padrone quando questi minaccia di crollare — quel partito dico: mi fa l'effetto dei vermi sul cadavere — il loro numero ne segna il grado di putridume! In ragion diretta del numero di questi vermi — si può valutare la corruzione d'un popolo!

Io ebbi a soffrire delle mortificazioni da quei signori, che da protettori la facean, dopo le nostre vittorie — e che il calcio dell'asino, ci avrebbero dato — come lo diero a Francesco II — se sconfitti — mortificazioni ch'io certo, non avrei tolerato — se d'altro trattatto si fosse, che della causa santa dell'Italia.

Per esempio, giungono due battaglioni dell'esercito Sardo, non dimandati — Il di cui scopo reale, era: il non lasciar fuggire la preda della ricca Partenope, ed assicurarla — col pretesto però di porli ai miei ordini — se richiesti — Io li chiedo — e mi si risponde: che devesi ottenere il beneplacito dell'ambasciatore — questo, consultato — risponde: che si deve chiedere il permesso a Torino!...

Ed i miei prodi compagni — si battevano, e vincevano sul Volturno — Non solamente senza il concorso di un solo soldato di truppa regolare — ma privi dei contingenti che la gioventù generosa di tutta Italia, voleva inviarci — e che Cavour e Farini trattenevano od imprigionavano.

I pochi giorni passati in Napoli — dopo l'accoglienza gentile, fatami da quel popolo generoso — furon piutosto di nausea — giustamente per le mene e sollecitudini, dei sedicenti cagnotti delle monarchie — che altro non sono in sostanza, che sacerdoti del ventre — Aspiranti immorali e ridicoli — che usarono i più ignobili espedienti per rovesciare quel povero diavolo di Franceschiello — colpevole solo d'esser nato sui marciapiedi d'un trono — rovesciarlo, per sostituirlo del modo che tutti sanno.

Tutti sanno le trame d'una tentata insurrezione — che doveva aver luogo prima dell'arrivo dei Mille — e per toglier loro il merito di cacciar il Borbone — e farsene belli poi, presso l'Italia — con poca fatica e merito — Ciò [349] poteva benissimo eseguirsi — se coi grassi stipendi, la monarchia sapesse infondere nei suoi agenti — un po più di coraggio — e meno amor per la pelle — Non ebbero il coraggio di una rivoluzione, i fautori Sabaudi — ed era allora tanto facile di edificare sulle fondamenta altrui — eppure sono maestri in tali apropriazioni — ma ne avevan molto per intrigare — tramare — sovvertire l'ordine publico — e quando nulla avean contribuito alla gloriosa spedizione — oggi, che poco rimaneva da fare — ed era divenuto il compimento facile — la smargiassavano da protettori ed alleati nostri — sbarcando truppe dell'esercito sardo in Napoli — (per assicurare la gran preda s'intende) e giunsero al punto di protezionismo — da inviarci due compagnie dello stesso esercito, il giorno dopo la battaglia del Volturno, il 20 ottobre -

Sempre il calcio dell'Asino!

Trattavasi di rovesciare una monarchia per sostituirla — senza volontà, o capacità di far meglio per quei poveri popoli — ed era bello, veder quei magnati di tutti i despotismi — usar ogni specie di malefica influenza — corrompendo l'esercito, la marina, la corte, i ministeri — servendosi di tutti i mezzi i più subduli — per ottenere l'intento indecoroso.

Sì! era bello il barcamenare di tutti cotesti satelliti, facendola da alleati del re di Napoli consigliandolo — cercando di condurlo a trattative fraterne ed attorniandolo d'insidie, e di tradimenti — E se non avessero tanto temuto per la brutta loro pelle — essi potevano presentarsi all'Italia come liberatori.

Che bello! se potevano far stare con tanto di naso, i Mille, e tutta la democrazia Italiana — Ma sì! sono i bocconi fatti che piacciono a cotesti liberatori dell'Italia, a grandi livree.

Anche a Palermo — com'era naturale — tramavano i fautori Cavouriani — e gettavano contro i Mille la diffidenza tra la popolazione — spingendola ad un'annessione intempestiva.

Essi mi obligarono di lasciare l'esercito sul Volturno — alla vigilia di una battaglia — per recarmi a Palermo — e placare quel bravo popolo, suscitato da loro — Assenza che costò all'esercito meridionale — la sconfitta di Cajazzo — unica, in tutta quella gloriosa campagna.

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3º periodo.

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