CAPITOLO I.

Guerra mossa dal Pontefice Paolo IV al Re Filippo per togliergli il Regno: Sua origine, pretesto ed inutile successo.

La guerra, che Paolo IV mosse nel Regno di Napoli, ancorchè avesse molti Scrittori, fu però cotanto accuratamente scritta da Alessandro d'Andrea napoletano, siccome colui, che vi fu presente, avendovi militato sotto il Maestro di campo Mardones, onde ragionevolmente posposti tutti gli altri, sarà da noi seguitato: tanto maggiormente, che il Presidente Tuano, descrivendola ancor egli nelle sue Istorie, seguitò pure questo medesimo Scrittore. Le cagioni però onde nacque, e per quali pretesti fu mossa, è di mestieri che qui brevemente si narrino.

Giovan-Pietro Caraffa figliuolo del Conte di Montorio, datosi nella sua giovanezza agli studi delle lettere, e sopra ogni altro della Teologia e delle lingue, riconobbe le sue fortune dal famoso Cardinal Oliviero Caraffa, che in Roma gli diè ricovero nella sua propria casa, non essendo allora che un semplice Canonico della Cattedrale di Napoli. Per la resignazione che trovavasi aver fatta il Cardinal Oliviero del Vescovado di Chieti, fu da Giulio II nel 1505, ne' primi tempi del suo Pontificato, creato Vescovo di quella città; e per la perizia di molte lingue, che professava della latina, greca ed ebrea, entrò in somma grazia di Lione X, che lo mandò Nunzio in Inghilterra per raccogliere, come era allora il costume, il denaro di S. Pietro. Ferdinando il Cattolico, a riguardo di Lione, l'onorò anche nella sua Corte, ascrivendolo al suo Real Consiglio, e lo creò Vicario del suo Cappellan Maggiore, nelle quali dignità fu mantenuto anche da Carlo V suo nipote; il quale l'offerì anche l'Arcivescovado di Brindisi di molta maggior rendita, che quello di Chieti; ma essendosi dato in questo tempo allo spirito, professando santità, non pur lo refutò, ma resignò anche nelle mani di Clemente VII, allora Pontefice, il Vescovado di Chieti, e fuggendo il cospetto degli uomini si ritirò in Monte Pincio, ove menò vita molto austera da Solitario; ma costretto poi a partir di là, per lo sacco dato a quella città, andò in Verona; indi portossi a Venezia, ove essendosi a lui associati Gaetano Tiene Vicentino, Bonifacio del Colle, Alessandrino, e Paolo Consigliere romano, istituì la Religione de' Chierici Regolari, i quali dal nome della sua Chiesa, che prima avea, si chiamarono (come s'è detto) Teatini; il cui Istituto, essendo stato da poi da Clemente VII approvato, lo rese assai famoso non meno per dottrina, che per santità, e probità della sua vita e costumi; tanto che Paolo III, in quella celebre promozione di nove Cardinali, che fece a' 22 decembre del 1536, lo creò Cardinale, e lo costrinse poi ad accettare la Chiesa di Chieti, innalzata fra questo tempo a dignità Arcivescovile.

Durante il Pontificato di Paolo III, fu da costui avuto in somma stima per la severità de' costumi ed austerità di vita che professava, mostrando gran zelo per la Sede Appostolica, e fu terribile persecutore degli Eretici, che nel suo tempo vedeva germogliare a truppe in varie Regioni in Europa. Egli fu autore a Paolo III d'innalzare il Tribunale dell'Inquisizione di Roma, e renderlo spaventoso per tante rigorose leggi e nuove forme introdotte: ciò che poi nel suo Pontificato accrebbe, che, come si è veduto nel precedente libro, fece venire in orrore quel Tribunale, non pure agli stranieri, ma all'istessa Italia ed a Roma medesima: tanto che, lui morto, i Romani la prima cosa che fecero, bruciarono il Tribunale e le carceri, e a quanti prigioni ivi erano, diedero libertà. Quindi avvenne, che presso noi i Teatini si resero in ciò cotanto insigni, che non predicavan altro, che Inquisizione, e sovente essi erano, che andavano a denunziare i sospetti d'eresia, e proccuravano di farli imprigionare.

Ma mentre questo Cardinale dimorava in Roma presso Paolo III, fu scoverto, che egli, non meno che il Pontefice, era quanto avverso a Cesare ed alla Nazione spagnuola, altrettanto affezionato del Re di Francia, allora nemico di Carlo. L'odio che portava il Cardinale alla Nazione spagnuola, era nato da antiche cagioni: poichè avendo molti de' Caraffeschi, nell'invasione di Lautrec, seguitato il partito franzese, ne furono alcuni, quietato il Regno, aspramente castigati; onde Giovan Pietro non tralasciava odiarla. Anzi gli Spagnuoli tennero allora per certo, che ne' tumulti del 1547, insorti per l'occasione già detta dell'Inquisizione, egli avesse proccurato con tutti gli sforzi possibili (con promettere non pur il suo ajuto, offerendosi d'essere di persona in Napoli, ma anche de' suoi parenti) di persuadere al Pontefice di non lasciar perdere sì opportuna occasione d'occupare il Regno, e che dovea darne stretto conto a Dio, trascurando un tanto acquisto per la sua Chiesa. Ciò che non mancò il Duca d'Alba di rinfacciarglielo, essendo Papa, nella lettera che gli scrisse, prima di moversi questa guerra, la quale vien rapportata tutta intiera nella sua Istoria dal Summonte. Per la qual cosa avendo gli Spagnuoli fatto avvertito Cesare dell'inclinazione del Cardinale verso i Franzesi, e dell'avversione agli Spagnuoli, fecion sì, che Cesare lo cassasse dal numero de' suoi Consiglieri. Ed oltre a ciò, avendo l'istesso Pontefice Paolo III, a preghiere del Cardinale, conceduto il Priorato Gerosolimitano di Napoli a Carlo Caraffa suo nipote, gli fu dal Toledo, allora Vicerè, proibito poterne prendere il possesso.

Ma essendo nell'anno 1549 per la resignazione fatta da Ranuccio Farnese, vacata la Chiesa di Napoli, Paolo III tosto la concedè al Cardinale, il quale avendosi fatte spedir le Bolle, si credette di doverne tosto esser posto in possesso; il Vicerè Toledo negò alle Bulle l'Exequatur Regium, e non volle mai permettere, che se gli si fosse dato; ed essendosene pochi giorni da poi morto il Pontefice Paolo, e rifatto in suo luogo, a' 8 febbrajo del nuovo anno 1550, Giulio III, questi scrisse una ben calda e pressante lettera all'Imperador Carlo V, pregandolo a non far differire più la possessione al Cardinal Caraffa della Chiesa di Napoli: esagera fra l'altre cose in questa lettera, che si legge presso il Chioccarello, che fu tutta calunnia ed impostura, ciò che di lui s'era falsamente divolgato d'aver pensato in proximo Neapolitano tumultu, illud tuum Regnum nostro praedecessori tradere: nec vero nos (e' testifica) quid tale de hoc viro andivimus, etc. Nec is tantum rem moliri; tantos motus concire, pertenuibus ipse facultatibus, ausus esset. Lo pregava perciò a non fargli impedire il possesso, e gli mandò a questo fine un Nunzio a trattar di questo affare.

L'Imperadore, che col nuovo Pontefice non avea quell'inimicizia, che passava col suo predecessore, diede orecchio alle preghiere di Giulio; ed avendo fatto mettere in trattato questo affare, non meno in Roma, che in Ispagna ed in Napoli, dopo lungo pensare provando il Cardinale, quanto fosse tediosa la solita tardità degli Spagnuoli, finalmente ottenne alle sue Bolle l'Exequatur Regium, e venne ordine da Cesare, che se gli fosse dato il possesso.

Ma il Cardinale conoscendo, che venendo a Napoli, gli Spagnuoli non gli avrebbero data molta soddisfazione, mandò a prendere possesso il Vescovo Amicleo, che fece suo Proccuratore, il quale lo prese a' 2 luglio del 1551, e lo creò anche suo Vicario. Resse in questa maniera la Chiesa di Napoli per quattro anni per mezzo di questo Vicario, nè mai volle egli venire a risedere. Di che accortisi gli Spagnuoli, non lasciarono al suo Vicario di contrastargli spesso, e movergli sovente quistioni di giurisdizione, tenendolo sempre agitato ed inquieto.

Essendo a Giulio III succeduto Marcello II, che poco tempo tenne quella Sede, costui morto, venne il Caraffa a' 23 maggio del 1555 assunto al Pontificato col nome di Paolo IV. Fu maravigliosa cosa ad udire, come appena giunto a quella dignità, quella severità de' costumi la cangiasse tosto in superbia ed alterigia; e dimandato, come restava d'esser servito intorno al modo di vivere egli co' suoi nipoti, rispose, come conviene ad un Principe . Gli Spagnuoli rimasero mal soddisfatti dell'elezione; onde il Re Filippo reputò far trattenere il Cardinal Pacecco in Roma, non permettendogli, che tornasse al suo governo di Napoli, affinchè colla sua prudenza ad accortezza proccurasse, o di raddolcire l'animo del nuovo Papa, ovvero scorgendo più da presso i suoi andamenti, farlo avvertito di ciò, che si meditava, per prevenirsi, in caso d'insulto, alla difesa.

Ma non passò molto tempo, che si scovrì l'animo del nuovo Pontefice essere tutto rivolto a vendicarsi degli Spagnuoli, ed a meditar nuove leghe con Errico Re di Francia per l'impresa del Regno, di che avvisato il Re Filippo, opportunamente mandò al governo di Napoli D. Ferdinando Alvarez di Toledo Duca di Alba, che allora essendo Governatore di Milano, avea il comando supremo delle armi spagnuole in Italia: quel famoso Capitano, che per le tante sue famose gesta si rese glorioso non meno in Germania ed Italia, che in Fiandra ed in Portogallo.

Il Duca d'Alba giunto in Napoli in qualità di Vicerè nella fine di quest'anno 1555, si pose ad osservar più da presso gli andamenti del Pontefice; il quale non meno per ingrandire i suoi nipoti; che per maggiormente premunirsi all'impresa, che meditava sopra il Regno di Napoli, avea, con pretesto che teneva pratiche segrete con gli Spagnuoli, tolto a Marcantonio Colonna lo Stato di Palliano in Campagna di Roma, concedendone l'investitura a Giovanni Caraffa Conte di Montorio suo nipote, con titolo di Duca di Palliano, e ciò quasi nel medesimo tempo, che avea investito Antonio Caraffa altro suo nipote del Contado di Bagno, e datogli titolo di Marchese di Montebello; ed a Carlo Caraffa, altro suo nipote, di Cavaliere Gerosolimitano creatolo Cardinale. Abbassava tutti coloro, ch'erano dipendenti di Spagna, ed esaltava quegli di contraria fazione; anzi accarezzava tutti i fuorusciti del Regno, e mal contenti del Re, che si ricovrarono da lui in Roma; siccome infra gli altri accolse Bartolommeo Camerario nostro famoso Giureconsulto. E passò tanto innanzi, ch'essendo state intercettate alcune lettere, fece carcerare e crudelmente tormentare Giovanni Antonio de Tassis Maestro delle Poste, privandolo di quell'Ufficio, che i Re di Spagna erano stati sempre soliti mantenere in Roma: ed oltre a ciò, fece carcerare Garcilasso della Vega Ambasciadore di Filippo, come Re d'Inghilterra, in Roma, siccome faceva vegghiare addosso a tutti gli amici e servidori del Re e de' suoi ministri, ch'erano in Roma.

E fu cotanta la sua imprudenza, che mal sapendo covrire il suo astio e mal talento contra il Re, e contra gli Spagnuoli, pubblicamente minacciava, che l'avrebbe privato del Regno, come decaduto alla S. Sede. Era Paolo IV secondo ciò, che ne scrisse anche Bacon di Verulamio, un uomo superbo ed imperioso, e di natura aspro e severo, e perciò frequentissimamente passava a parole piene di vituperio contra il Re e l'Imperadore, in presenza d'ogni sorta di persona, e ritrovandosi alcun Cardinal spagnuolo presente, le diceva più volentieri, comandando anche, che gli fossero scritte. Ed un dì in pubblico Concistoro fece far istanza dal suo Proccurator Fiscale, e da Silvestro Aldobrandino Avvocato Concistoriale, dimandando doversi il Regno dichiarar devoluto alla S. Sede: alla quale istanza egli rispose, che a suo tempo vi avrebbe data provvidenza. Ciò che il Duca d'Alba, come d'un temerario attentato non lasciò di rinfacciarglielo in quella lettera, che gli scrisse, dicendo: Ha permettido V. S., que en su presencia el Procurador, j Abocado Fiscal de essa Santa Sede hà hecho en Concistorio tan injusta, iniqua, y temeraria instancia, y domanda: que al Rey mi Senor fuesse quitado el Reyno, accettando, y consentiendo a quella F. S. con dezir, proveheria à su tiempo. Ma questo fatto non si rimase nella sola istanza del Fiscale, poichè si procedè più innanzi con farsene processo, e si venne insino alla sentenza.

Il Presidente Tuano, ed il Soave rapportano, che la cagione, onde si mosse il Papa a dichiarar devoluto il Regno fosse, perchè Filippo avea, secondo lui, commesso delitto di Maestà lesa, per aver favoriti e ricevuti sotto la sua protezione li Colonnesi di lui ribelli. Ma il pretesto, che si fece apparire, e sopra il quale appoggiossi la sentenza, fu per cagione di censi non pagati. Il Re Filippo, prima che fossegli giunta la notizia dell'elezione del Papa in persona del Cardinal Caraffa, avea scritta una lettera a' 25 giugno del 1555 al suo Ambasciatore di Roma, nella quale gl'incaricava di dover trattare col Papa che sarà eletto, di dovergli rimettere i censi de' ducati settemila l'anno pretesi dalla Sede Appostolica; poichè nel Concordato fatto tra Clemente VII coll'Imperador Carlo V suo padre, fra l'altre cose fu pattuito, che facendo l'Imperadore restituire alla Sede Appostolica dalli Vineziani, e dal Duca di Ferrara alcune città e Terre, che tenevano occupate, delle quali la Sede Appostolica n'era stata spogliata, non dovesse più egli, nè i suoi successori pagare il suddetto censo di ducati settemila l'anno; ma solo consignare alla Camera Appostolica ogni anno un'Achinea bianca in segno di ricognizione; e già che l'Imperadore avea adempito alle sue promesse, e fatto rilasciare da' Vineziani e dal Duca di Ferrara quelle città e Terre, ch'erano della Sede Appostolica, se gli dovea osservare detta promessa, e rimettere il censo; incaricandogli di vantaggio, che non essendo ancora eletto il nuovo Papa, e durando la Sede vacante, facesse deposito del censo di quell'anno, già che si accostava il tempo del pagamento, con protesta di doversegli restituire, per non essere tenuto.

Qualunque altro de' Cardinali, che fosse stato eletto Papa, avrebbe riputata la dimanda ragionevole; ma a Paolo IV questa pretensione di Filippo servì opportunamente per pretesto di quel, che intendeva di fare: poichè rifiutandola come ingiusta, non solo pretese i censi decorsi, non ostante il Concordato di Clemente VII, ma quelli non essendosi, contra il suo volere, pagati, fece far la riferita istanza dal suo Fiscale, per dichiararsi Filippo per ciò decaduto dal Regno; e fabbricatosi il processo, promulgò egli sentenza nel nuovo anno 1556, colla quale dichiarò il Regno di Napoli devoluto alla S. Chiesa Romana, per non essersi per molti anni pagati i censi suddetti, e ne fu stesa Bolla. Non fu però la sentenza pubblicata, nè mai uscì fuori, poichè, come vedremo, il Duca d'Alba strinse colle armi sì bene il Papa, che ebbe a gran favore, colla mediazione de' Vineziani, di deporre la sua boria, e starsi in pace. Alessandro d'Andrea rapporta, che quella non fu pubblicata per consiglio di Bartolommeo Camerario da Benevento, il quale, come si è detto, esule dal Regno, dimorava allora in Roma protetto dal Papa.

Ma da alcune lettere intercette si scoverse, onde veniva tanta boria e fasto del Papa, che parlava non meno di quello si operasse con tanta pubblicità, ed alla svelata contra il Re e contra il Regno, con animo aperto d'invaderlo. Si scoverse in fine il trattato e la lega ch'egli per mezzo de' Cardinali di Tournon e di Lorena avea fatta col Re di Francia d'assaltare il Regno; anzi si pubblicò allora, che avendovi avuto in ciò anche parte il Principe di Salerno, che da Costantinopoli erasi ritirato in Francia, il Papa, per mezzo del Re Errico, e del Principe, avesse anche fatta lega col Turco, affinchè assaltando costui, o almen travagliando il Regno per via di mare, se gli rendesse più facile l'impresa e la conquista per terra. Fu fama ancora, che per maggiormente ingrandire i suoi nipoti, avesse concertato col Re di Francia di dar Maria sua nipote sorella del Cardinale e del Duca per isposa ad un suo figliuolo, colui che dovea investirsi del Regno, secondo le capitolazioni, che si diranno; e l'investitura fosse come per dote della medesima, e si credette allora, che il matrimonio avrebbe effetto, se le cose della guerra di Napoli gli fossero riuscite prospere; e se Maria, che non era più che di nove anni, non fosse troppo intempestivamente morta.

I Capitoli della lega conchiusa in Roma a' 15 dicembre del 1555, rapportati dal Summonte, furono infra gli altri questi.

Che il Re Cristianissimo fosse obbligato difendere con tutte le sue forze la Santità di Papa Paolo IV contra qualsivoglia persona, che lo volesse offendere, e, quando ciò avvenisse, di calare egli, o mandare eserciti in Italia per sua difesa.

Che pigliasse perpetua protezione del Cardinal Caraffa, del Conte di Montorio, e D. Antonio Caraffa suoi nipoti, e loro descendenti; e rimunerasse, e ricompensassegli de' Titoli e beni, che potessero perdere, per conto di questa lega, nel Regno, dando loro altri Titoli e beni in Italia, o in Francia, convenienti alla loro nobiltà ed alla real sua magnanimità.

Che il Re facesse passar in Italia diece a dodicimila fanti forastieri, più o meno, secondo che di comun avviso sarebbe giudicato neccessario, e cinquecento lanze franzesi, e cinquecento cavalli leggieri.

All'incontro che il Papa desse dello Stato della Chiesa, o di altri diecimila fanti più, o meno, secondo che sarà giudicato espediente, co lor Capitani e Generali, e mille cavalli.

Che desse il passo, vettovaglie, artiglierie e munizioni ed altre comodità, che aver si potranno nello Stato della Chiesa, all'esercito della lega per loro denari.

Che la guerra si cominci nel Regno o in Toscana, come sarà più espediente al ben comune.

Che acquistandosi il Regno di Napoli e di Sicilia, il Papa abbia da investirne uno de' Serenissimi figliuoli di S. M. Cristianissima, purchè non sia il Delfino, quando e quante volte ne sarà richiesto dal Re Errico, riserbandosi la città di Benevento e suo Territorio e Giurisdizione; e con condizione ancora, che i confini dello Stato della Chiesa s'abbiano da dilatare e stendere di qua all'Appennino, insino a S. Germano inclusive, ed al Garigliano; e di là dell'Appennino, sino al fiume di Pescara, talmente che tutta quella Terra, ch'è di dentro a predetti confini della Provincia d'Apruzzo, o sia chiamata di qualunque altro nome, o reputata di qualunque altra Provincia fin a Pescara, e nella Provincia di Terra di Lavoro sino a S. Germano inclusive, ed al fiume Garigliano, s'intenda essere, e sia della Giurisdizione della Chiesa; ed i confini del Regno si termineranno con essi fiumi, e con retta linea, dividendo parimente il Monte Appennino da S. Germano al nascimento del fiume di Pescara, ne' quali confini è compresa la Città, Fortezza e Porto di Gaeta, la qual sia della Chiesa, come l'altre Terre e luoghi contenuti fra' sopradetti termini.

Che s'accresca il censo a ventimila ducati di oro di Camera, oltre alla solita Achinea.

Che la Sede Appostolica abbia nel Regno uno Stato libero di rendita circa scudi venticinquemila d'oro, ed in luogo conveniente da eleggersi per Sua Santità.

Che si dia all'Illustrissimo Signor Conte di Montorio uno Stato similmente con condizione libera, et pieno jure, e che sia a soddisfazione di Sua Santità, e che renda venticinquemila scudi d'entrata, e sia suo e di suoi eredi, quali e quanti ne vorrà lasciare ed istituire, maschi o femmine, e ne possa far testamento pleno iure, e donarlo e venderlo come più gli piacerà, e morendo ab intestato s'intenda, che gli eredi più prossimi succedano.

Che similmente al Signor D. Antonio Caraffa si dia un altro Stato simile, o almeno di quindicimila scudi d'entrata.

Che il Re debbia mandare questo suo figliuolo, per investirlo del Regno quanto prima si potrà, ad abitare, ed allevarsi in alcun de' predetti Regni, i quali abbiano da esser governati ed amministrati a suo nome. Il Consiglio, quanto all'amministrazione e governo dello Stato, debba comporsi di Consiglieri fedeli e devoti del Papa e della S. Sede; e siano eletti o deputati di comune consenso, fin che il predetto Re pervenga nell'età che da se stesso possa reggere e governare detti Regni: gli altri Governadori, quanto alla cura della sua persona, debbano deputarsi ed eleggersi dal Re Cristianissimo, e li Capitani Generali dell'esercito debbano esser benevoli e devoti del Papa e della S. Sede, ed eletti di comun consenso.

Che 'l Serenissimo Principe da investirsi, suoi eredi e successori, non possa essere eletto, o nominato Re o Imperadore de' Romani o Re di Germania o di Francia o Signor di Lombardia o di Toscana.

Che sin a tanto, che colui, il quale dee essere investito, non giunga a questi Regni, siano quelli governati ed amministrati di comun consenso, e secondo la volontà del Papa e del Re, da uno o da più: dei quali l'uno e l'altro di loro si confidino, a nome però del detto Principe, e quegli, nel quale saranno convenuti o prete, o secolare, sia Vicereggente, come Legato o come Governadore di Sua Santità e del Re Cristianissimo, e debba prestare il giuramento all'uno ed all'altro di bene e fedelmente amministrare secondo la volontà d'amendue.

Che non essendo esso Serenissimo figliuolo, che dovrà investirsi, di tal età, che possa prestare il giuramento ed omaggio al Papa, ed alla S. Sede, debba il Re come padre e tutore, per lui prestarlo, quando gli sarà data l'investitura di detti Regni; il qual giuramento sia giusta la forma degli altri giuramenti, che per altri Re si sono prestati a Pontefici passati, ed alla Sede Appostolica, spezialmente a Papa Giulio III, alla qual forma s'aggiunga, e si muti tutto quello, che per li presenti articoli si trova aggiunto e mutato.

Che in ricognizione di questa prima investitura, che dovrà ricevere, debba edificare nella Chiesa di S. Pietro in Roma una delle maggiori Cappelle; e quando esso Re sarà pervenuto all'età legittima, sia tenuto esso medesimo prestare il ligio omaggio al Papa e suo successore.

In fine, che sia obbligato l'investiendo lasciar cavare dal Regno di Sicilia ultra Pharum diecimila tomoli di grani, ogni qual volta che la città di Roma n'avrà bisogno, senza pagamento alcuno di tratta o d'altra gravezza.

Queste Capitolazioni, così ben ideate dal Papa, lo facevano parlar con tanta fidanza e disprezzo; ed intanto non perdeva tempo di premunirsi in ogni cosa, ciò che maggiormente insospettì il Duca d'Alba, poichè alla scoperta il Cardinal Caraffa col Duca suo fratello erano tutti intesi a fortificar Palliano, e v'aveano condotto Pietro Strozzi Capitano del Re di Francia, che trovavasi in Roma, per prendere il suo parere sopra le fortificazioni da farvi; e tuttavia pervenivan a Napoli novelle delle commessioni date fuori dal Papa per assoldar gente. Avea anche chiamato al suo soldo Camillo Orsini, Capitano sperimentato di que' tempi, e mandato Paolo suo figliuolo con mille fanti in Perugia, oltre a mille e duecento fanti Guasconi del presidio di Corsica, che gli si mandavano dal Re di Francia in ajuto: si travagliava anche in far bastioni, e faceva fare a molte altre Piazze dello Stato della Chiesa nuove fortificazioni.

Il Duca d'Alba, seriamente a tutto ciò pensando, si risolvè alla fine, da ben esperto Capitano, di prevenirlo, e per più sicuramente difendere il Regno attaccar lo Stato Ecclesiastico, con trasferir ivi la sede della guerra. Non tralasciava intanto con messi e con lettere scritte al Duca di Palliano, lamentarsi del Papa suo zio di queste novità, offerendogli pace; ma in vece di risposta, si videro assai più continuare i preparamenti di guerra, e s'intese ancora la partenza del Cardinal Caraffa per Francia, per sollecitare quel Re all'impresa.

Allora questo valoroso e savio Capitano, non volendo aspettare, che il turbine cadesse in casa propria, dando minuto ragguaglio al Re Filippo in Ispagna dell'imminente guerra, che il Papa per occupargli il Regno preparava, unì, come potè meglio, dodicimila fanti, trecento uomini d'armi e millecinquecento cavalli leggieri, con dodici pezzi d'artiglieria, e si mosse nel primo del mese di settembre di quest'anno 1556 verso lo Stato della Chiesa, e giunto a S. Germano, occupò Pontecorvo. Prima di passar avanti volle tentar di nuovo l'animo del Pontefice, e mandò in Roma Pirro Loffredo con lettere drizzate a lui, ed al Collegio de' Cardinali, dove offerendogli pace, altamente si protestava, che tutto il danno, che ne riceverebbe la Cristianità, s'imputerebbe alla sua coscienza.

Ma il Papa tutto alieno dalla concordia, fidato ai trattati con Francia, più altiero che mai disprezzò le lettere; onde il Duca proseguendo le sue conquiste occupò Frosolone, Veruli, Bauco, ed altre Terre di que' contorni. Il Papa maggiormente sdegnato fece imprigionare nel Castello S. Angelo Pirro Loffredo, e se il Collegio de' Cardinali non l'avesse impedito, l'avrebbe fatto crudelmente morire; ed il Duca intanto seguitando il suo cammino, s'impadronì dell'importante città d'Anagni, di Tivoli, di Vicovaro, di Ponte Lucano, e di quasi tutte le Terre de' Colonnesi sino a Marino, e minacciava d'assediare Velletri, facendo far scorrerie dalle sue truppe insino alle Porte di Roma.

Questo Capitano ci lasciò un gran documento ed illustre esempio, come debba guerreggiarsi col Pontefice romano, qualora le congiunture portassero, per difendere il Regno di dovere assalirlo in casa propria. Egli, oltre i tanti rispettevoli ufficj passati prima col Pontefice, occupando le città e Terre dello Stato della Chiesa, acciocchè non gli si potesse imputare, che si facessero quelli acquisti per spogliare la Chiesa, faceva dipignere nelle Porte de' luoghi, che andava di mano in mano occupando, le armi del Sacro Collegio, con protestazione di tenergli in suo nome, e del Papa futuro, come s'era fatto a Pontecorvo, a Terracina, a Piperno ed a gli altri luoghi, che s'erano resi: se bene, come dice Alessandro d'Andrea, non mancò chi dubitasse non questa fosse una arte, con la quale proccurasse il Duca d'indurre a sospetto ed a discordia il Collegio col Papa.

Dall'altro canto il Re Filippo, al suo modo, e secondo la sagacità degli Spagnuoli, fece porre questo affare in consulta; e siccome nell'impresa di Portogallo ricercò il parere de' più insigni Giureconsulti di quelli tempi, e delle più insigni Università di Spagna e d'Europa per render la conquista più plausibile, così in questo fatto con Paolo IV, ricercò consulta da Teologi come dovea postarsi, e che conveniva fare contra un Pontefice che in molte occasioni, ed essendo Cardinale, ed ora essendo Papa, erasi mostrato suo nemico e dell'Imperador Carlo suo padre, e che si era scoverto aver fatta lega col Re di Francia per assaltare il Regno di Napoli. Mostrava dispiacergli sommamente questa nuova briga, e con grande rincrescimento veniva tirato a questa guerra; considerava che la tregua fatta col Re di Francia, veniva ora per opera d'un Papa, a cui dovrebbe essere più a cuore la pace tra' Principi Cristiani, a rompersi: parevagli cosa molto scandalosa, che per mezzo del Cardinal Caraffa avendo promesso al Re franzese, che nella nuova promozione sarebbe tal numero di Cardinali parziali della Francia e nemici degli Spagnuoli, che avrebbe sempre un Pontefice dalla sua parte, avea data l'assoluzione del giuramento per romper la tregua, onde si fosse quel Re risoluto a movergli guerra, con tutto che i Principi del suo sangue, e tutti i Grandi della Corte abborrissero l'infamia di rompere la tregua, e ricevere l'assoluzione del giuramento. Considerava, che appena avendo cominciato a regnare nel primo anno del suo Regno, la sua disavventura portava di avere da mover le armi contra il Vicario di Cristo. Fece adunque porre in consulta i seguenti Capi.

Se poteva il Re ordinare, che nessuno naturale dei suoi Regni andasse o stasse in Roma, ancorchè fossero Cardinali; che tutti i Prelati venissero a far residenza nelle loro Chiese; e li Cherici, che tenevano beneficj, venissero a servire nelle proprie Chiese, e non volendo venire, si procedesse a privarli delle temporalità.

Se si poteva impedire, che durante la guerra che si faceva col Papa, nè per cambio, nè per altro modo, o direttamente, o indirettamente andasse denaro in Roma per ispedizioni o altro.

Se era bene e conveniva fare in Ispagna, o in altro Stato di S. M. un Concilio Nazionale per la riforma e rimedio delle cose Ecclesiastiche, e qual forma e modo si dovesse tenere per convocarlo.

Se presupposto lo stato, nel qual restò il Concilio di Trento, e quel che nell'ultima sessione di quello si dispone, si potria dimandare la continuazione del detto Concilio, e l'emendazione nel capo e nelle membra, e proseguire il di più, a che fu convocato; e se essendo impedito dal Papa, si potria resistere a quello, ed inviare, non ostante il suo dissenso, li Prelati de' suoi Stati a tenerlo; e quali diligenze s'avrebbero da fare per detta continuazione, ancorchè li Prelati d'altri Regni mancassero.

Non essendo stato Paolo IV canonicamente eletto Papa, ma intruso di fatto in quella Sede, se della sua elezione poteva dirsi di nullità, e qual modo e diligenza potria usare S. M. in tal caso.

Se stante tanti travagli, spese ed inconvenienti, che a' sudditi e naturali de' suoi Regni di Spagna, ed al pubblico di quella sieguono in andare alla Corte di Roma per liti e negozj, si potesse dimandare, che il Papa nominasse un Legato in detti Regni, che spedisse in quelli i negozj gratis, e che si ponesse una Ruota in Ispagna per determinar le liti, senza che fosse necessario mandar in Roma, e non essendo questo concesso, che potria fare.

Essendosi veduti i tanti abusi, che si praticano in Roma nella provvisione de' beneficj, prebende e dignità, ed essendo a tutti notorio, che poteva il Re dimandare di lasciarsi la provvisione di quelli agli Ordinarj, e reprimere gli altri abusi; qual rimedio potrebbe ora praticarsi per togliere tanti disordini ed eccessi, che a questa materia della provvisione de' beneficj sono annessi e dependenti.

Se gli Spogli, e frutti che il Papa si piglia ne' suoi Regni, particolarmente delle Chiese vacanti, sia giusto, che se gli pigli: e se il Re debba permetterlo, e che debba far in questo; poichè negli altri Regni s'intende, che se n'astenga, ed in quelli di S. M. s'è ciò introdotto fra pochi anni.

Se si potria giustamente domandare e pretendere, che il Nunzio Appostolico, che è ne' suoi Regni, spedisse gratis i negozj e non in altro modo; e che si potria e dovria fare in questo.

Furono al Re Filippo sopra ciascheduno de' capi suddetti da un eccellente Teologo di Spagna date le congrue ed affirmative risposte; onde reso per ciò più animoso, scrisse al Duca d'Alba, che proseguisse egli con vigore l'impresa, ed usasse tutti gli espedienti economici per ridurre il Papa a dovere, perch'egli dall'altra parte non avrebbe mancato (se non s'emendava) ne' suoi Regni di Spagna di far valere le sue pretensioni in que' capi dedotte.

Il Duca pertanto avendo ne' restanti mesi dell'anno 1556 fatti gran progressi nello Stato Ecclesiastico, e posta tanta confusione e terrore in Roma istessa, che infinite famiglie fuggivano dalla città, credeva di aver ridotto per questa via il Pontefice a quietarsi, e non maggiormente inasprir la guerra; ma egli niente mutando il suo proponimento, anzi per la felicità dell'armi del Duca vie più infiammandosi alla vendetta, diede ordine al Marchese di Montebello d'assaltare le frontiere del Regno dalla banda del Tronto, sperando di fomentar negli Apruzzi qualche rivoluzione, per portare la guerra nel Reame, e toglierla dal suo Stato. Ma fattoglisi incontro D. Ferrante Loffredo Marchese di Trivico, che governava quella Provincia, a cui il Vicerè avea mandata nuova gente per soccorso, non solamente il costrinse a rinchiudersi in Ascoli, ma gli prese e saccheggiò Maltignano.

Il Papa sollecitava il Re di Francia, che mandasse la gente promessa, e gridava contra il Duca d'Alba, maledicendo ed anatematizzando; il Duca all'incontro, mentre il Papa gridava, vie più mordeva; poichè portatosi verso Grottaferrata e Frascati, ebbe in una imboscata a man salva il Conte Baldassarre Rangone con centocinquanta de' suoi; poscia si fermò sotto Albano, donde mandò Ascanio della Cornia ad occupare Porcigliano ed Ardea. Quindi passò verso il mare, e con poca fatica s'impadronì di Nettuno: di là andò ad Ostia, ed essendosi resa, si pose ad abbatter la Rocca, la quale dopo qualche contrasto ricevè presidio dal Vicerè; e già la sua cavalleria scorreva senza contrasto sino alle vicinanze di Roma.

Il Cardinal Caraffa, ch'era ritornato di Francia, vedendo le cose in questo stato, per mezzo del Cardinal di S. Giacomo, zio del Duca Vicerè, fece proporre un abboccamento, affine di conchiudere qualche trattato di pace: s'abboccarono in effetto il Duca ed il Cardinal Caraffa nell'Isola di Fiumicino; ma niente si conchiuse, se non che una triegua di quaranta giorni, più per potere l'uno ingannar l'altro, che dovesse conchiudersi pace alcuna. Ciascuno in questa triegua gli parve trovare il suo conto: il Cardinale voleva guadagnar tempo, perchè avea avuta notizia, che il Re di Francia avea già spedito il Duca di Guisa con dodicimila fanti, quattrocento uomini d'arme e settecento cavalli leggieri, con un gran numero di Cavalieri in ajuto di suo zio, ed aspettava ii suo arrivo, trattenuto dalla rigidezza della stagione in Piemonte. Il Vicerè dall'altra parte accertatosi della venuta de' Franzesi, desiderava, che cessassero l'ostilità, non solo per far provvisione di viveri da mantenerne l'esercito, giacchè per i venti contrarj non potevano le Galee condurli; ma anche per potere ritornare a Napoli, e quivi fare que' preparamenti, che bisognavano per opporsi al Duca di Guisa.

Lasciate pertanto le sue genti a Tivoli sotto il comando del Conte di Popoli, che creò suo Luogotenente, tornò il Duca in Napoli per far i dovuti preparamenti ad una spedizione cotanto importante: fece in prima ragunare il general Parlamento de' Baroni e delle Terre demaniali, ove avendo esposto i bisogni che occorrevano, ottenne un donativo d'un milione di scudi a beneficio del Re, e d'altri venticinquemila per se medesimo. Con questo mezzo formò egli la pianta d'un esercito proporzionato al bisogno, dando gli ordini necessarj per l'unione delle milizie, che doveano arrivare a trentamila fanti Italiani, dodicimila Tedeschi e duemila Spagnuoli, oltre alla cavalleria del Regno, che accrebbe sino al numero di 1500. Fece in oltre tutte le provvisioni che bisognavano, così per lo sostentamento d'un esercito così grande, come per la difesa delle piazze più importanti, e particolarmente degli Apruzzi, che stavano raccomandate alla fedeltà e vigilanza del Marchese di Trivico.

Ma quello in che mostrò maggiormente la sua prevedenza, fu di provvedere, che il Papa dall'istesso Regno non ricavasse profitto, ed all'incontro, che il Re, de' beni degli Ecclesiastici, potesse, se la necessità lo portasse, valersi per difesa del Regno, contra un ingiusto invasore. Per ciò egli avendo a' 15 del mese di gennaio del nuovo anno 1557 ragunato appresso di se il Consiglio Collaterale, spedì in suo nome e del Collaterale una lettera Regia diretta al Tribunale della Regia Camera, dicendogli, che conveniva al servigio di Sua Maestà, che si sequestrassero li frutti ed entrate d'alcuni Arcivescovadi, Vescovadi, Badie ed altri beneficj del Regno, e d'alcuni Prelati, e che si dovessero esigere in nome della Regia Camera; per ciò gli comandava, che spedisse ordini al Tesoriero generale, ed a tutti i Percettori delle Province del Regno, che esigessero dette entrate e le tenessero sequestrate in nome d'essa Regia Camera, e gli mandasse nota di detti Arcivescovadi, Vescovadi, Badie e Beneficj, che s'aveano da sequestrare, e delli Prelati e persone Ecclesiastiche, da cui si possedevano. E poichè il Papa con nuova disciplina Ecclesiastica, vacando l'Arcivescovado di Napoli per la sua assunzione al Pontificato, non volle dargli successore, ma diceva; che quella Chiesa voleva esso governarla ancora da Arcivescovo, ancorchè fosse Papa, ed avendovi mandato un suo Vicario, si pigliava tutte l'entrate della Chiesa suddetta, per ciò furono anche sequestrate l'entrate dell'Arcivescovado di Napoli.

Parimente in nome suo e del Collaterale, a' 21 gennaio del medesimo anno, mandò un'altra lettera Regia a tutti i Governadori delle province del Regno, dicendo loro aver inteso, che il Papa avea imposto in questo Regno due decime, e che quelle si proccuravano esigere senza il suo beneplacito e Regio Exequatur; per ciò lor comandava, che dovessero ordinare alli Capitani ed Ufficiali delle loro province, che dovessero dar ordine a tutte le Chiese, Monasterj, Arcivescovi, Vescovi ed altre persone Ecclesiastiche beneficiate, sotto pena delle temporalità, che non dovessero pagare dette Decime agli Esattori di quelle: nè per altra via girare e far pagare in Roma quantità alcuna di denari, sotto qualsivoglia colore, nè per qualsisia causa, senza espressa licenza del Vicerè.

Scrisse ancora in detto nome, a' 22 febbraio del medesimo anno, a Cristoforo Grimaldo Commessario di Terra di Lavoro, che compliva al servizio di Sua Maestà per beneficio e conservazione di questo Regno di sapere tutto l'oro ed argento, ch'era nel Regno delle Chiese di qualsisia Dignità, Badie e Monasterj: per ciò gli ordinava, che dovesse far nota ed inventario per mano di pubblico Notaro di tutto l'oro ed argento, ch'era nelle Chiese, Monasteri e Badie, notando pezzo per pezzo, la qualità ed il prezzo; ed inventariati che saranno, gli debba lasciare in potere delli medesimi Prelati e Detentori, con cautela di non farne esito alcuno, ma di tenerli e conservarli all'ordine d'esso Vicerè, ed esibirli sempre, che comanderà per servizio del Re, e per la difensione e conservazione del Regno, usando in questo la debita diligenza a trovar tutto l'oro ed argento, affinchè non siano occupati, e che glie ne dia subito avviso dell'eseguito.

E stringendo tuttavia il bisogno della guerra, e gli apparati de' nemici vie più sentendosi maggiori, stante l'invito fatto anche al Turco, perchè colla sua armata travagliasse il Regno, fu d'uopo al Vicerè in suo nome, e del Collaterale scrivere, al primo marzo di quest'istesso anno, a tutti i Governadori delle province del Regno, dicendo loro, che per gli andamenti e grandi apparati di guerra, che ha fatti e faceva il Papa con leghe d'altri Principi, con aver anco invocata l'armata Turchesca contra Sua Maestà per assaltare questo Regno, bisognava per difesa e conservazione di quello provvedere di genti a cavallo ed a piedi, per rinforzare e mantenere l'esercito, ed andare a ritrovare i nemici fuori del Regno, ed anco provvedere le Terre di marina per difensione contra detta armata del Turco; il che tutto risultando a maggior servigio del Re, alla conservazione e beneficio universale del Regno, per le spese grandi, che sono necessarie per detto effetto, bisognava aver danari assai; e poichè li Baroni e Popoli di questo Regno si trovavano oppressi per li gran pagamenti che faceano e dell'ultimo donativo, che il Regno avea fatto a sua Maestà di due Milioni di ducati, del quale anticiparono il terzo di Pasqua, avea pensato, che gli Arcivescovi, Vescovi ed altri Prelati, Monasterj ed Abati del Regno dovessero prestare alla Regia Corte delli frutti ed entrate loro del terzo di Pasqua, delle tre parti due, conforme alle note che lor si mandavano, del quale impronto potevano soddisfarsi sopra il terzo di Natale primo venturo del detto donativo, ed in caso, che detti Prelati, Monasterj ed Abati, ricercati da essi in nome del Vicerè graziosamente, non volessero fare detto prestito, detti Governadori di province subito l'abbiano da esigere da dette loro entrate e frutti, per la rata, conforme alle dette note.

Pochi giorni da poi, premendo assai più la necessità della guerra, spedì Commessione in suo nome e del Collaterale a' 4 del detto mese di marzo, a diversi Commessarj, che andassero con ogni prestezza e diligenza ad eseguire quanto era stato per prima commesso alli Governadori delle province, a costringere li detentori dell'oro, ed argento delle Chiese e Monasterj del Regno, e pigliarseli per inventario a peso, acciò si potessero mandare in Napoli, per conservarli nell'Arcivescovado di quella città, in nome delli Padroni d'essi, ad ordine del detto Vicerè; ed anco a costringere li debitori degli Arcivescovadi, Vescovadi, Badie e Beneficiati a pagare li due terzi della terza parte delle loro entrate, per prestito alla Regia Camera.

E poichè questa commessione, essendo generale, veniva eseguita anche per li Calici e Patene; per ciò a' 9 del detto mese spedì lettera a' Governadori delle province, che debbiano eseguire il suo ordine degli ori, ed argenti, riserbandone li Calici e Patene, e quelli che avranno pigliati e fatti consignare alli Percettori, li facciano restituire. Siccome riuscendo questo trasporto d'oro ed argento in Napoli molto strepitoso, a' 18 marzo ordinò a tutte le Regie Audienze, che dall'ora innanzi non pigliassero più oro ed argento dalle Chiese, ma che solo lo tenessero sequestrato, e restituissero il preso in potere delle persone Ecclesiastiche delle medesime, con ordinar loro che quello tengano in sequestro, insino ad altro suo ordine.

Parimente ordinò, che per le occorrenze della guerra presente, si pigliasse tutto il metallo delle Campane delle Chiese e Monasterj di Benevento per fonderlo e tutti i pezzi d'artiglieria di bronzo, e falconetti, ch'erano in detta città, come dal Convento de' Frati di S. Lorenzo di Benevento, si pigliasse tutto il metallo delle Campane e si liquidasse il prezzo di tutto per poi pagarlo finita la guerra.

Dopo aver dati questi provvedimenti per una tanta espedizione, a' 11 aprile di quest'anno 1557 partì il Duca da Napoli per la volta d'Apruzzo per opporsi a' Franzesi, lasciando per Luogotenente Generale D. Federigo di Toledo suo figliuolo, il quale fino al ritorno, che fece nel mese di settembre del detto anno, dopo la pace conchiusa col Papa, governò Napoli ed il Regno.

Dall'altra parte il Cardinal Caraffa partì da Roma per Lombardia, per abboccarsi in Reggio co' Duchi di Ferrara e e di Guisa e consultare del modo e del luogo, dove dovea portarsi la guerra. Furono i pareri varj, chi consultava l'espugnazion di Milano, chi la liberazione di Siena, e chi l'impresa del Regno; ma protestandosi il Cardinale, che qualunque risoluzione si pigliasse differente dall'invasione del Regno di Napoli, non sarebbe approvata dal Papa suo zio; il Duca di Guisa, che avea commessione dal suo Re di far la volontà del Pontefice, provveduto dal Duca di Ferrara suo suocero d'alcuni pezzi d'artiglieria, spinse il suo esercito nella Romagna, e passando per lo Stato d'Urbino, si portò per la Marca nelle vicinanze del Tronto.

Intanto, essendo spirata la tregua tra 'l Pontefice ed il Vicerè, si cominciarono le ostilità, e si vide in breve ardere la guerra, non meno nell'Apruzzo, che nella Campagna di Roma. Il Duca di Palliano con Pietro Strozzi uscito con seimila fanti tra Italiani e Guasconi, seicento cavalli leggieri e sei pezzi d'artiglieria, e portatosi sotto Ostia, ricuperò la Rocca col bastione innalzatovi dal Vicerè. Ricuperò Marino, Frascati e l'altre circostanti Terre. Nettuno fu abbandonato da' Spagnuoli, e se gli Ecclesiastici nel calor della vittoria si fossero più avanzati, avrebbero anche ripreso Frosolone ed Anagni. Giulio Orsini era parimente tutto inteso a discacciar gli Spagnuoli dallo Stato di Palliano; ma occorsivi Marcantonio Colonna, secondato da' Terrazzani ben affezionati de' Colonnesi il costrinse a lasciar in abbandono l'impresa.

Ma dalla banda del Tronto meditava il Duca di Guisa d'assediar Civitella, e trattenevasi in Ascoli per aspettare l'artiglieria, che dovea venire da lontano; della qual tardanza si doleva molto col Marchese di Montebello; e per non parere di starsene ozioso, fece entrare nel Regno millecinquecento pedoni, ed una compagnia di cavalli, comandati dal mentovato Marchese e da Giovan-Antonio Toraldo, che saccheggiarono Campoli, occuparono Teramo, e danneggiarono la campagna sino a Giulia Nova. Giunto poscia il cannone, assediò Civitella, dove alla fama dell'avvicinamento de' nemici, era entrato prima Carlo Loffredo figliuolo del Marchese di Trivico, poscia 'l Conte di Santa Fiore speditovi dal Vicerè; fu dal Duca di Guisa incessantemente la Piazza battuta: ma con non disugual valore dagli assediati fortemente difesa: e mancando a' Franzesi il bisognevole per replicar gli assalti, il Duca lamentandosi col Marchese di Montebello del Cardinal suo fratello, ch'avea posto al ballo il suo Re, e poi mancava alle promesse; avendogli questi superbamente risposto, vennero fra di loro a tali parole, che il Marchese partì dal campo, senza nè meno licenziarsi. Accorse tosto per riparar a questi disordini il Duca di Palliano con Pietro Strozzi con soldatesca, colla quale pareva, che si fosse in qualche parte adempito all'obbligazione del Papa; ma essendo il soccorso assai picciolo, e tuttavia mancando molte cose, ch'erano necessarie per ridure l'impresa ad effetto, i Franzesi impazienti cominciarono a maledire non solamente coloro, che aveano consigliato il loro Re a collegarsi con Preti, i quali non s'intendevano punto del mestier della guerra, ma anche a parlar malamente del Cardinal Caraffa, ch'era andato ad empire di vane speranze l'animo del Re, ajutando, come suol dirsi, i cani alla salita.

Intanto il Duca d'Alba se ne veniva per soccorrere Civitella con ventimila fanti e duemila cavalli, con apparecchio sufficiente di munizioni e d'artiglierie, ed entrato a Giulia Nova s'attendò dodici miglia lontano dalla Piazza: alla fama della venuta di questo Capitano con sì poderoso esercito, Pietro Struzzi non perdè tempo di consigliare al Duca di Guisa, che sciogliesse l'assedio: onde dopo il travaglio di 22 giorni, verso la metà di maggio fu quello sciolto, ritirandosi il Duca ad Ascoli, seguitato dal Vicerè, il quale entrato nelle terre del Papa, occupò Angarano e Filignano.

Mentre queste cose accadevano in Apruzzo, Marcantonio Colonna con non minore felicità s'avanzava in Campagna di Roma; poichè avendogli il provido Vicerè mandati in soccorso tremila Tedeschi, de' seimila venuti coll'armata del Doria, prese la Torre vicino Palliano, Valmontone e Palestrina, e pose in fine l'assedio alla Fortezza di Palliano. Le genti Papali tentavano di soccorrerla, ed uscirono a quest'effetto da Roma il Marchese di Montebello e Giulio Orsini con quattromila fanti Italiani, duemila e due cento Svizzeri, ch'erano stati assoldati dal Vescovo di Terracina, alcune compagnie di cavalli e molti carri di vettovaglie per provvedere la Piazza; ma sopraggiunto al Colonna un nuovo soccorso di Tedeschi Spagnuoli, ed uomini d'arme, che dopo la liberazione di Civitella gli erano stati mandati dal Vicerè, si fece incontro al nemico; da picciole scaramucce si venne in fine al fatto d'arme, nel quale rimasero le genti del Papa rotte e dissipate, e Giulio Orsino ferito, fu fatto prigione. Marcantonio sapendosi ben servire della vittoria, procedè innanzi; espugnò Rocca di Massimo, ed occupò Segna, senza tralasciare l'assedio di Palliano.

Il Papa allora sbigottito da questo successo, vedendo l'inimico avvicinarsi troppo, chiamò il Duca di Guisa alla difesa di Roma; ma il Duca d'Alba, lasciate ben munite le frontiere del Regno, e qualche numero di soldatesche al Marchese di Trivico, per guardar que' confini, passò anch'egli nella Campagna di Roma. Alloggiò tutto l'esercito sotto le mura di Valmontone, donde se ne passò alla Colonna, e volendo porre Roma in timore, spinse la notte precedente al giorno de' 26 agosto, sotto il comando d'Ascanio della Cornia, trecento scelti archibugieri, con una scorta di soldati a cavallo, e con buona provvisione di scale, affinchè assaltassero le mura di Roma vicino Porta Maggiore, e proccurassero d'impadronirsi di quella Porta, nel tempo istesso, ch'egli con tutto l'esercito sarebbe sopraggiunto per favorire l'impresa. Ma svanì il disegno, per aver ritardata la spedizione una lenta pioggia, che impedì i fanti quella notte di potersi avvicinare alle mura di Roma; onde sopraggiunto il giorno, furono costretti a ritirarsi subito, per non esporsi, faticati dal notturno viaggio, a combattere con le milizie franzesi, alloggiate nelle circostanti Terre.

Quando in Roma videro i perigli esser così vicini, cominciaron tutti ad esclamare contro al Papa, ed a far sì, che si trattasse d'accordo, e si proccurò la mediazione de' Principi vicini a trattarlo; furono per ciò impegnati il Duca di Fiorenza e la Repubblica di Venezia, i quali portarono i loro ufficj al Re Filippo II per indurlo alla pace. Il Re Filippo allora, che per la vittoria ottenuta contro a' Franzesi nella giornata di San Quintino, stava ben pago e soddisfatto d'aver contra i medesimi presa vendetta, come Principe pio, e che mal volentieri sofferiva questa guerra, rispose alla Repubblica Veneta, dandole parte della vittoria di S. Quintino, ed insieme dichiarando, che non fu mai sua voglia di continuar guerra contro alla Chiesa e che molto volontieri accettava la sua mediazione, acciò che s'interponesse per la pace tra 'l Pontefice e 'l Vicerè, soggiungendole, che quante volte fosse insorta nel conchiuderla qualche controversia, avesse ella preso l'assunto di superarla; giacchè si rimetteva a quanto avesse ella determinato. Scrisse parimente al Vicerè con questi medesimi sentimenti, imponendogli di soddisfare al Pontefice in tutto quello, che avesse desiderato, purchè non ne sentissero pregiudicio i suoi interessi, nè quelli de' suoi servidori ed amici. All'incontro il Papa, vedendo l'esito della guerra poco felice, e che il Re di Francia, per quella gran rotta ricevuta presso S. Quintino, richiamava il Duca di Guisa d'Italia con le genti che aveva, dandogli libertà di pigliar quel consiglio, che gli paresse per se più utile; vedendo svanita l'invasione del Regno, e ridotte di nuovo l'arme sopra le Terre dello Stato Ecclesiastico, non si mostrò punto alieno come prima, d'acconsentire alla pace; voleva però, che si fosse conchiusa con riputazione della Sede Appostolica, e che in tutti i modi il Duca d'Alba dovesse andar personalmente a Roma a dimandargli perdono, e ricever l'assoluzione, dicendo che più tosto voleva veder tutto il Mondo in rovina, che partirsi un filo da questo debito; che non si trattava dell'onor suo, ma di Cristo, al quale egli non poteva nè far pregiudicio, nè rinunziarlo.

Il Cardinal di Santa Croce, veduta l'inclinazion del Papa, spedì tosto Costanzo Tassoni al Duca di Fiorenza, ed al Vicerè Alessandro Placidi, affinchè il trattato si cominciasse, e mandò parimente al Vicerè le proposizioni fatte dal Papa, le quali si riducevano, oltre a venir il Duca a dimandargli perdono, a dimandare la restituzione dell'occupato; promettendo egli all'incontro di licenziare i Franzesi, e perdonare l'ingiurie ricevute.

Il Duca d'Alba, che non avea ancora esperienza della gran differenza, ch'è tra 'l guerreggiar con gli altri Principi e con gli Papi, co' quali finalmente niente si guadagna, anzi si perdono le spese, sentendo queste proposizioni, s'alterò non poco, rispondendo, essere tanto stravaganti, che peggiori non si sarebbero potute fare da un vincitore al vinto. Ma la Repubblica di Venezia, che con molto vigore avea intrapresa la mediazione, per persuadere il Duca alla pace, spedì al medesimo a quest'effetto un suo Segretario; dall'altra parte si mossero da Roma Cardinali Santa Fiore, e Vitellozzo Vitelli per trattarla col Vicerè. Vi si portò ancora il Cardinal Caraffa, il qual fu ricevuto dal Duca con grand'onore nella Terra di Cavi, dove dibattutosi l'affare per alquanti giorni, finalmente a' 14 settembre fu la pace conchiusa, con queste condizioni.

Che il Vicerè in nome del Re Cattolico andasse in Roma a baciare il piede a sua Santità, praticando tutte le sommessioni necessarie per ammenda dei disgusti passati; e che il Papa all'incontro dovesse riceverlo con viscere di clementissimo padre.

Che il Pontefice dovesse rinunziare alla lega fatta col Re di Francia, con rimandarne i Franzesi, e dovesse in avvenire far le parti di padre e di comun pastore.

Che si restituissero Anagni e Frosolone e tutte le Terre occupate della Chiesa, e vicendevolmente tutte l'artiglierie che dall'una parte e dall'altra fossero state prese nel corso di questa guerra.

Che si rimettessero da amendue le parti tutte le pene e contumacie incorse da qualsivoglia persona o Comunità, eccettuandone Marcantonio Colonna, Ascanio della Cornia ed il Conte di Bagno, i quali dovessero rimanere nella lor contumacia a libera disposizione del Pontefice.

E per ultimo, che Palliano si consegnasse a Giamberardino Carbone nobile Napoletano confidente delle due Parti, il quale dovesse guardarlo con 800 fanti da pagarsi a spese comuni, e dovesse giurare di tenerlo in deposito insino a tanto, che dal Papa e dal Re Cattolico unitamente ne fosse stato disposto.

Furono ricevute in Roma queste capitolazioni con universale allegrezza; onde partiti i Franzesi, si portarono in quella città il Duca d'Alba con suo figliuolo, li quali furono dal Papa ricevuti con tenerezza, ed assoluti dalle censure, nelle quali credeva per i preceduti successi essere incorsi, siccome ad intercessione del Duca liberò tutti gli amici e dependenti del Re, ed alla Duchessa d'Alba mandò sino a Napoli la Rosa d'oro, regalo solito in que' tempi di presentarsi a' Principi grandi, la quale con gran pompa e stima fu da quella religiosissima Dama ricevuta nel Duomo di Napoli.

Il Duca accompagnato dal Cardinal Caraffa, e dal Duca di Palliano partì di Roma, il quale di tutto datane contezza al Re Filippo, questi con soddisfazione accettò la pace, rimunerò largamente tutti coloro, che s'erano in questa guerra distinti. Al Conte di Popoli fu dato il titolo di Duca con provvisione di tremila ducati, e facoltà di poter disporre dello Stato, che sarebbe decaduto al Fisco per mancanza di successori. Ad Ascanio della Cornia una provvisione d'annui ducati seimila, sin tanto che ricuperasse i suoi beni, statigli occupati dal Papa, oltre mille altri scudi dati alla madre, e molte entrate ecclesiastiche concedute al Cardinal di Perugia suo fratello. Gli abitanti di Civitella ottennero molte prerogative in ricompensa della costanza mostrata. E fu offerta al Duca di Palliano la Signoria di Rossano in Calabria, acciò rinunziasse lo Stato a Marcantonio Colonna, al che non avendo voluto acconsentire il Papa, il Duca restò privo dell'uno e dell'altro; perchè nella Sede vacante Marcantonio ricuperò lo Stato.

Il Duca d'Alba ritirato in Napoli fu ricevuto dai Napoletani con tanto applauso e gioja, che era meritamente riputato il loro liberatore. Ma mentre s'apparecchiava a discacciare i Franzesi dal Piemonte, per più gravi e premurosi bisogni della Monarchia gli fu dal Re Filippo comandato, che si portasse nella sua Corte, per dove partì nella Primavera del nuovo anno 1558, lasciando di se un grandissimo desiderio; poichè era stata poco tempo goduta la sua presenza, chiamata altrove dalle cure di Marte: pure in que' pochi anni ci lasciò quattro Prammatiche, ed al governo del Regno lasciò suo Luogotenente l'istesso D. Federico suo figliuolo; ma la sua reggenza fu molto breve, poichè il Re Filippo, quando chiamò in Ispagna il Duca, avea comandato a D. Giovanni Manriquez di Lara, che si trovava suo Ambasciadore in Roma, che passasse al governo di Napoli, per insino che si fosse previsto di nuovo Vicerè, il quale non vi durò che cinque mesi; poichè vi fu mandato da poi il Cardinal della Cueva per Luogotenente, che parimente poco più che D. Giovanni vi stette, poichè richiamato in Roma per l'elezione del nuovo Pontefice, stante la morte seguita di Paolo IV, fu finalmente dal Re Filippo, savio discernitore dell'abilità e merito de' soggetti, mandato per Vicerè D. Parafan di Ribera Duca d'Alcalà, quel gran savio Ministro fra quanti ve ne furono, del di cui lungo e prudente governo più innanzi ragioneremo.

Ecco il fine della guerra cotanto ingiustamente mossa da Papa Paolo IV e come mal finisse con tanto danno del Regno, ed immenso sborso di denari per sostenerla; ecco il vantaggio, che hanno i Papi, quando guerreggiano, che oltre la restituzion dell'occupato loro, non si parla dell'ammenda di tanti danni e mali irreparabili, che si cagionano a' Popoli, alla quale dovrebbero almeno esser obbligati. Allora il Regno di Napoli non solo per mantener questa guerra sborsò due milioni, ma per supplire a' bisogni di quella, e pagare i debiti contratti, in tempo che governò D. Federico di Toledo, lasciato dal padre per suo Luogotenente, furon fatti dalla città due altri donativi, l'uno di ducati quattrocentomila, l'altro di ducati centomila. In oltre dovendosi restituire il prezzo del metallo della campana presa di Benevento, bisognò che la Regia Camera facesse far la liquidazione di quello, e pagasse il prezzo, siccome furono restituiti i pezzi dell'artiglierie, e falconetti presi.

Ma tutto ciò è nulla a' danni gravissimi, che si sentirono da poi per l'occasion di questa guerra, la quale sebbene fosse terminata per questa pace, rimase l'impressione perciò fatta col Turco, il quale invitato, come si disse, dal Re di Francia collegato col Papa, ad assalire per mare il Regno, sebbene tardasse la sua armata a venire al tempo opportuno, ch'essi desideravano, tanto che bisognò conchiuder la pace, non per ciò il Turco avendo preparato il tutto, ancorchè alquanto s'astenesse d'inquietarlo; poichè appena partito il Duca d'Alba per la Corte, pervenuto a governar il Regno D. Giovan Manriquez questo infelice Ministro, non erano passati ancora otto giorni dopo la sua venuta, seguita a' 5 giugno di quest'istesso anno 1558, che vide ne' nostri mari comparir l'armata Ottomana numerosa di centoventi Galee sotto il comando del Bassà Mustafà, la quale dopo aver saccheggiata la città di Reggio in Calabria, entrata fin dentro il Golfo di Napoli, posta di notte la gente a terra diede un sacco lagrimevole alle città di Massa e di Sorrento; facendo di quest'ultima un miserabilissimo scempio per esser stati posti in ischiavitù quasi tutti i lor Cittadini, che portati in Levante, bisognò poi riscattarli a grave prezzo; onde quel misero avanzo de' loro congiunti, che rimasero venduti i loro campi e le loro tenute a vilissimo prezzo, fu costretto andare insino a Casa il Turco per riaverli: disavventura, della quale insino al dì d'oggi mostra Sorrento le cicatrici, mirandosi per ciò tuttavia povera e di facoltà e d'abitatori.

Ma non passò guari, che la mano vendicatrice del Signore non si facesse sentire sopra la persona del Pontefice, e de' suoi nipoti e congiunti, autori di tanti mali: poichè il Pontefice, prima di morire, ebbe a soffrire molte angoscie per le tante scelleraggini scoverte de' suoi nipoti, e fu quasi per morir di doglia, quando costretto a sbandirli di Roma, intese le tante laidezze in casa del Duca suo nipote, che furono cagione di morti crudeli e violente, e di lagrimevoli tragedie. Ed appena morto a' 18 agosto del 1559, anzi spirante ancora, per l'odio concepito dal popolo e plebe Romana contra lui e tutta la Casa sua, nacquero così gran tumulti in Roma, che i Cardinali ebbero molto più a pensare a quelli, come prossimi ed urgenti, che a' comuni a tutta la Cristianità. Andò la città in sedizione: fu troncata la testa alla Statua del Papa e strascinata per la città: furono rotte le prigioni pubbliche: fu posto fuoco nel luogo dell'Inquisizione, e abbruciati tutti i processi e scritture, che ivi si guardavano; e poco mancò, che il Convento della Minerva, dove i Frati soprastanti a quell'Ufficio abitavano, non fosse dal popolo abbruciato. Assunto poi al Pontificato Pio IV, furono imprigionati i Caraffeschi, e fabbricatosi contro ad essi più processi, per le loro scelleratezze furon sentenziati a morte. Il Cardinal Carlo fu fatto strangolare, il Duca di Palliano fu decapitato, e degli altri loro congiunti ed aderenti, furon praticati castighi sì severi, che gli ridussero in istato cotanto lagrimevole, quanto la lor Istoria racconta.

Share on Twitter Share on Facebook