Scena diciottesima

Camerieri di locanda che portano tovaglia, tovaglioli, tondini, posate, vino, pane, bicchieri e pietanze in

bottega di Pandolfo, andando e tornando varie volte, poi Leandro, Lisaura e detti.

UN CAMERIERE Signori, la minestra è in tavola. (va cogli altri in bottega del giuoco)

EUGENIO (a don Marzio) Il Conte dov'è?

DON MARZIO (batte forte alla porta di Lisaura) Animo, presto, la zuppa si fredda.

LEANDRO (dando mano a Lisaura) Eccoci, eccoci.

EUGENIO (a Lisaura) Padrona mia riverita.

DON MARZIO Schiavo suo. (a Lisaura, guardandola con l'occhialetto)

LISAURA Serva di lor signori.

EUGENIO (a Lisaura) Godo che siamo degni della sua compagnia.

LISAURA Per compiacere il signor Conte.

DON MARZIO E per noi niente.

LISAURA Per lei particolarmente, niente affatto.

DON MARZIO Siamo d'accordo (piano ad Eugenio) (Di questa sorta di roba non mi degno.)

EUGENIO (a Lisaura) Via, andiamo, che la minestra patisce; resti servita.

LISAURA Con sua licenza. (entra con Leandro nella bottega del giuoco)

DON MARZIO Ehi! che roba! Non ho mai veduta la peggio. (ad Eugenio, col suo occhialetto, poi entra nella bisca)

EUGENIO Né anche la volpe non voleva le ciriege. Io per altro mi degnerei. (entra ancor esso)

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