GIUSEPPE MAZZINI

Pei grandi fattori della patria l’omaggio più sincero e più degno è lo studio amoroso della loro vita, del loro carattere. Questo attende sopratutto da noi Giuseppe Mazzini: la figura del quale, dopo più di 30 anni dalla sua scomparsa, non è ancora liberata dai contorni romanzeschi della leggenda, non si delinea ancora nella realtà storica con pienezza di tratti autentici, e manca perciò il substrato indispensabile d’un imparziale giudizio.

Varrà il primo centenario della sua nascita ad accrescere questa conoscenza positiva biografica?

Auguriamolo: e la cerimonia sarà feconda di utili insegnamenti, dove non si risolva in torneo d’oratoria, con vano luccichio di frasi, con rinverniciamento di vecchi preconcetti; ma ci si porga invece nuova messe di fatti, di documenti, che ci immettano nel segreto dell’anima di Mazzini, accertino le motivazioni interne ed esterne della sua azione politica, diradino i misteri di cui l’agitatore fu costretto a circondarsi.

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Le fonti, da cui solo potrebbero scaturire gli elementi sicuri e genuini d’una biografia scientifica, sono ancora purtroppo o neglette, o inaccessibili, o a mala pena dischiuse.

Delle 40 mila lettere, che disseminò con attività febbrile di cospiratore e di apostolo, conosciamo piccola parte, pubblicata con irritante lentezza e con assoluta povertà critica.

La serie continuata e regolare del suo carteggio con la madre, vissuta sino al ’52, arriva, per adesso non più oltre del 1837: e ci tarda di sorprendere, per gli anni più procellosi, quelle adorabili effusioni, fatte con abbandono quasi infantile alla sua mamma dal fosco congiurato, il cui nome incuteva spavento in tutti i governi della penisola.

Ignota ma non perduta è la corrispondenza – chi sa come riboccante di rivelazioni storiche e psicologiche – di Mazzini con Giuditta Sidoli: con la donna soave, che fu l’ispiratrice prima del fondatore della Giovane Italia e gli diè gioie tormentose di passione sino alla frenesia.

Non scevro di errori, e non integralmente prodotto nella sua forma genuina è il delizioso carteggio dei Ruffini – gli amici più diletti della giovinezza di Mazzini, che il tempo convertì in gelidi e talvolta malevoli critici. Polvere e tenebre avvolgono i processi della Giovane Italia con le relazioni sesquipedali di Paride Zajotti: inediti giacciono i copialettere dell’associazione, tenuti con diligenza di segretario dal fido Acate del maestro, Giuseppe Lamberti; inediti parimenti sono i diarii di Piero Cironi, l’archivista coscienzioso e leale del partito mazziniano.

Sottoposto a vincolo di trentennale segreto è il carteggio di Mazzini col Kossuth, depositato nel Museo Nazionale di Pest, come apprendo da una cortese comunicazione del figlio del Dittatore ungherese. (Vedi nota B).

Inesplorati sono gli archivi d’Austria, d’Inghilterra, di Svizzera, di Francia, in cui pur devono serbarsi i documenti dell’epica guerra di 30 anni tra il cospiratore genovese e la reazione europea....

Non è dunque una strana allucinazione – per non dir fatua presunzione – quella del Bolton King, che nella sua biografia di Mazzini esordiva con l’esprimere il convincimento essere ormai già fissato il giudizio dei posteri, nè parer probabile che future pubblicazioni abbiamo sostanzialmente a modificarlo?.

Di Francia si è annunciato il felice rintracciamento della corrispondenza di Mazzini col Melegari – preteso complice nell’attentato immaginario di Gallenga a Carlo Alberto –: e pur ora mi è fatta balenar la speranza di altri documenti mazziniani preziosi da ripescare tra le carte di Emilio Ollivier. (V. nota C).

Il destino, che si piacque ad avvicinare Mazzini con le più disparate individualità del secolo XIX, volle che uno de’ suoi primi amici e protettori fosse Demostene Ollivier: il padre appunto dell’eloquente e funesto oratore, che seppellì il secondo Impero, quando credeva di averlo ribattezzato nelle acque purificatrici del liberalismo dottrinario.

Può esser curioso indagare quale efficacia avessero, se non gli insegnamenti diretti, l’esempio immediato di Mazzini, sull’adolescenza di quell’immaginoso francese: ma importa qui solo rammentare che la Giovane Italia in Marsiglia fu accolta nella casa paterna di Ollivier – là passò Mazzini il tempo più felice del suo primo e forse unico amore – e con il suo ospite, che per lungo tempo lo sottrasse, in una villa suburbana, a tutte le ricerche della polizia di Luigi Filippo, mantenne quindi confidenziale carteggio, per vent’anni!

Parte di questa corrispondenza fu sequestrata a Demostene Ollivier nel colpo di Stato del ’51 – quella probabilmente, che rispecchiava gli accordi di Mazzini co’ radicali francesi contro Luigi Bonaparte – e sarebbe stata distrutta dalla polizia napoleonica. Ma le lettere anteriori – quelle in ispecie in cui Mazzini versava tutta l’amarezza per la fallita impresa di Savoja – esisterebbero ancora, affogate nel mare magnum dell’archivio privato di Emilio Ollivier.

Chi sa che realmente i venturi eruditi siano più fortunati di noi – e che da qualche angolo di Francia possano quandochessia uscire anche le Reliquie d’un ignoto – il libretto in cui Mazzini per molti anni, sino al ’49, aveva fermato giorno per giorno il tumulto de’ suoi pensieri sui più alti problemi dell’umanità, e sulla religione segnatamente. Quel libretto fu perduto dall’ex-triumviro di Roma che attraversava profugo la Francia: ed era l’unico scritto suo, che Mazzini deplorasse smarrito.

Ciò ne raddoppia il valore agli occhi nostri, dacchè ogni manifestazione dell’anima sua ce ne svela l’altezza morale, e sperde come nebbia al sole le accuse e le calunnie, propagate da governi reazionari, ed alle quali anche nobili e intemerate coscienze fecero eco talvolta, ingannate da apparenze o fuorviate da pregiudizi politici.

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Chi spogli i giornali di mezzo secolo fa, o compulsi atti ufficiali, o consulti gravi pubblicazioni di storici – e di filosofi, – come il Farini, il Gualterio, Nicomede Bianchi – e sopratutto Gioberti – non può non stupire che si sconoscesse a tal segno l’individualità di Mazzini da contestargli non solo e valore intellettuale e senno politico, ma da foggiarne poco meno che un mostro morale per l’ambizione crudele, per l’orgoglio sfrenato.

La storia non presenta forse uguale esempio d’ingiustizia de’ contemporanei: nè contrasto più stridente tra la realtà e la leggenda.

Egli era gabellato per un Lucifero di superbia; – bello e tenebroso come il Lucifero di Milton, e l’accusa di ambizione gli veniva lanciata persino dai suoi più cari.

«Quest’accusa (diceva perciò mestamente al Rosales) anche i futuri la gitteranno sulla mia sepoltura se mai parleranno di me; perchè questa è l’unica vendetta che i tiepidi di tutti i tempi possono trarre dei caldi: e non pertanto io per mia sventura son nato d’una argilla insensibile alla lode e forse al biasimo.... Non intendo l’ambizione se non come un basso e meschino individualismo, contrario a tutte le mie credenze....» (Epistolario, I, 249.)

Con eguale candore di sincerità scriveva a sua madre – e ad una madre non si mènte mai – d’essersi interrogato giudice severo di sè stesso ne’ momenti più favorevoli allo sviluppo dell’io: e aver dovuto compiangersi quasi d’esser privo anche di quella sorgente di conforti che han tanti, che pur non è vanità, ma gioia pura del bene e dell’approvazione altrui. «Non ho nemmen quella, non ho avuto mai una gioia al mondo per lode proferita: io nè temo nè spero per me....» agisco per debito, per impulso prepotente, per «stimolo religioso». (Epistolario, I, 365.)

Una affettività squisita – spinta sino all’iperestesia – e bisognosa di riversarsi su ogni creatura vivente, tanto da ricordare il «cantico del sole» del poverello d’Assisi – era la nota psichica, dominante del cospiratore, designato dalle polizie come un Veglio della Montagna, un efferato Sultano, avvezzo a sguinzagliare per ogni dove i suoi sicari, i suoi giannizzeri, mentre egli dal sicuro covo di Londra o di Svizzera gavazzava nelle ricchezze accumulate a spese di illusi. Questa accusa ridicola al Mazzini – quasi sempre vittima di osceni usurai, e prodigo della ricca sostanza che mai godette per sè e tutta sacrificò alla attuazione della sua idea –: questa sciocca calunnia era il leit-motiv di tutte le proclamazioni de’ governi, con a capo l’austriaco.

Radetzky ogni terzo giorno vi ricamava sdegnose invettive a freddo con la penna elegante del gen. Schönhals – il quale tuttavia nelle Memorie d’un veterano austriaco mostrava per primo di non credere alle sue declamazioni, e rendeva omaggio ai «grandi talenti» dell’«uomo straordinario».

Mettemich stesso col suo fiuto poliziesco aveva intuito sino dal 1832 il fascino pernicioso esercitato da Mazzini con la sua infiammata eloquenza, col suo disinteresse d’apostolo: e si faceva premurosamente mandare i fascicoli della «Giovane Italia», nei quali annusava il nemico più formidabile della mala signoria austriaca.

A destare gli allarmi del Metternich avevan contribuito le tante spie, piantate a’ fianchi di Mazzini, e autorizzate in casi urgenti a corrispondere direttamente co’ ministri di Vienna. In un accesso d’onestà un confidente marsigliese aveva scritto il 24 maggio 1832 che il carattere di quel genovese entusiasta era dei più pericolosi «perchè scevro d’ogni vista d’interesse particolare: egli non sospira che per la rigenerazione d’Italia; pronto, onde procurargliela, ad affrontare qualunque pericolo e sacrificar tutto anche la vita.»

Aveva buoni occhi e migliori orecchi – questo spione: e nella lode al Mazzini s’accorda in fondo con tutti gli infiniti colleghi, che Giuda Iscariota delegò a suoi speciali rappresentanti presso il maestro della nuova fede.

Da’ primi tentativi della Giovane Italia sino agli ultimi eventi che trassero Mazzini alla prigione di Gaeta, egli fu sempre circuito da miserabili che lo sorvegliavano e lo tradivano – per molto meno di trenta denari; – e tuttavia la purezza della sua vita non potè essere offuscata neppure dalla bava velenosa di questi delatori, dei quali potrei far sfilare un’intera galleria dinanzi agli occhi vostri.

Per citarne alcuni, l’avv. Mocchetti dal 1832 al 1838 annunziava via via al Torresani le pubblicazioni, fatte e da farsi, dalla Giovane Italia: palesava i modi escogitati per introdurle e diffonderle oltr’alpi, richiamando particolarmente l’attenzione su que’ poveri figurinai, le cui statuine di gesso – chiuse alla base – nascondevano nel cavo interno bollettini sovversivi.

I rapporti del Mocchetti erano redatti in stile Tacitiano, con gergo liberalesco esaltato, con apostrofi tribunizie contro la polizia, con raccomandazioni grottesche al supposto amico – cui erano indirizzate le lettere – di serbare per carità il segreto, e di operare con prudente zelo per la causa italiana.

— È tanta – diceva – l’importanza che hanno i fascicoli della G. Italia – ai quali ben più che ad altro dovrà attribuirsi il risorgere delle nazionali speranze – che io voglio li abbiate ad ogni maniera: desidero li spieghiate e commentiate agli amici; e se mai la posta o la polizia sarda vi defraudasse di que’ frutti prelibati dell’ingegno di Mazzini, avvertitemene per carità, saprò ben io eludere gli occhi d’Argo de’ nostri nemici, e procurarvi quelle squisite primizie!....

Il Torresani – se rideva a crepapelle di queste commedie di mariolo perfetto – restò poi non so se più stupefatto o atterrito dalla proposta di un altro spione famoso, Raimondo Doria, il quale nel dicembre 1832 si prometteva di consegnargli nelle mani Giuseppe Mazzini, attirandolo con un pretesto ai confini lombardi.

«Il noto March. Raimondo Doria – riferiva Torresani al ministro di polizia in Vienna – mi ha verbalmente dato affidamento che saprà ben egli farci impadronir di Mazzini, se a ciò sia autorizzato: adescandolo ad un abboccamento oltre confine. Io feci osservare al signor Marchese che l’accettazione della proposta esorbitava dalle mie facoltà, e che io dovevo prender prima gli ordini dell’E. V. In attesa delle superiori risoluzioni, debbo rimessamente far osservare che Mazzini è suddito piemontese.».

Lo scrupolo di legalità del Torresani e le burocratiche lentezze di Vienna fecero sì che la scellerata profferta del Doria fallisse: e che lo Spielberg non spezzasse per sempre le cospirazioni e le audacie di Mazzini.

Emissari austriaci accompagnavano la spedizione di Savoia, riferendone ogni progresso – come se fossero corrispondenti di guerra –; e l’opera de’ confidenti ed agenti provocatori che andò crescendo d’intensità e di turpitudine con l’estendersi dell’influenza della Giovane Italia può dirsi culminasse nell’episodio di un emigrato mantovano morto a Parigi nel 1845.

Costui dal 1840 al 1845 consegnava quotidianamente alla polizia austriaca, col tramite dell’ambasciata di Parigi, tutti gli atti del comitato mazziniano, le comunicazioni di Mazzini a Lamberti; denunciò, un anno prima che avvenisse, la spedizione de’ Bandiera!

Possiedo questa corrispondenza, che Giuseppe Finzi trascrisse di suo pugno – quando fu per caso scoperta dopo la morte del traditore (accompagnato al cimitero tra dimostrazioni solenni degli esuli): e varrebbe la pena di pubblicar per intero que’ documenti dell’estrema abbiezione a cui può giungere la umana nequizia. (Vedi nota D).

Per qualche centinaio di franchi al mese, colui, protetto dal ricordo della prigione sofferta nel ’21 e nel ’31, insidiava tutti i membri più influenti dell’emigrazione italiana; e ne’ rapporti alla polizia austriaca si vantava – come Sparafucile – dello zelo e della probità onde adempieva l’assunto mandato.

Inviava talvolta all’Ambasciata gli originali stessi de’ documenti riservati, passanti tra le sue mani, che non aveva tempo di ricopiare – scongiurando gli fossero restituiti al più presto.

Si compiaceva di tutti gli screzi, di tutte le gelosie tra’ cospiratori: si industriava, da onesto Iago, ad acuire i dissidi: dava le indicazioni necessarie per arrestare i viaggiatori della Giovane Italia, per sorprenderne la corrispondenza.

Se qualche consiglio di guerra dello stato maggiore rivoluzionario era indetto a Lione, Marsiglia, Ginevra, il Giuda s’arrabattava per essere scelto lui a delegato del Comitato di Parigi: e in pari tempo chiedeva all’Ambasciata austriaca il rimborso di quelle piccole spese, che il modesto assegno – corrispostogli dalla cassa dell’emigrazione – non bastava a coprire. L’Austria in queste occasioni straordinarie lo compensava generosamente, ed è perciò che il confidente, sul suo letto di morte, non aveva che un cruccio – quello di non poter servire i suoi padroni, perchè inchiodato all’Ospedale difettava di notizie. Ma anche agonizzante sussulta di gioia il giorno che una visita pietosa di amico gli fornisce informazioni interessanti da spedire all’Ambasciata austriaca, e con tremula mano scarabocchia l’ultimo rapporto di spia impenitente. L’amico, che gli rese, senza sospetto, quell’incauto servigio era il Conte Ricciardi, uno dei Minossi più severi nel flagellare le imprudenze di Mazzini, e nel proclamarlo incapace di «conoscer gli uomini»!

Un altro spione, sfuggito sinora all’infamia, è dal Gualterio designato con un X negli Ultimi Rivolgimenti, ove asserisce che costui «trovavasi a fianco di Mazzini, e i suoi servigi costarono in più tempi al Governo romano meglio di 40 mila scudi. Niuno lo sospettò giammai neppure nel tempo delle posteriori vicende: e ciò spiega quali fossero le cause che in altri tempi lo portarono a sostenere gelosi offizi negli Stati Romani. L’autorevole testimonianza del Pontefice stesso (Pio IX) che alla presenza di più persone asseriva questo gravissimo fatto ci confortò (conclude il Gualterio) a registrarlo».

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Con questi documenti sott’occhio, e ripensando agli orrori delle inquisizioni politiche contro la Giovane Italia – condotte in Piemonte dal Galateri con bestiali ferocie (vedi nota E) e dallo Zajotti a Milano con implacabile zelo – è facile spiegarsi la vera, intima ragione degli insuccessi di quelle cospirazioni. Non sarebbe però equo addebitare al solo Mazzini la leggerezza d’accogliere nel partito così gran numero di elementi sospetti, dacchè in genere i suoi luogotenenti e rivali non erano più accorti e più cauti. Molti di que’ tristi egli anzi smascherò: odorò le spie ne’ travestimenti spesso stranissimi che assumevano; aveva un concetto pessimista degli esuli che lo attorniavano, tanto da scrivere crudamente al Rosales nel 1836: «tranne te, i Ruffini alcuni altri giovani, quasi ignoti, che nessuno forse degna di uno sguardo.... a me consta che una gran parte degli esuli è composta non da’ migliori ma da’ peggiori.» (Epistolario, II, 390.)

Egli sperava perciò più che altro nella gioventù avvenire: nell’azione del tempo che avrebbe suscitato via via nuove forze vigorose e vergini. «La cause que vous soutenez – gli aveva detto il Lamennais – a pour auxiliaires le berceau et la tombe; la tombe qui dévore le passé, le berceau qui contient les germes de l’avenir. Prenez courage, Monsieur; les mères enfantent pour vous.» (Epistolario, 1, 846.) E fidente in queste reclute future, Mazzini frattanto adoperava gli strumenti purchessia, che la sorte affidava alle sue mani. «Se io non dovessi conoscere che de’ Catoni, dove li troverei?» chiede al Lamberti; ma questa necessità di impuri contatti rattristava mortalmente Mazzini, facendo germogliare una strana misantropia dallo stesso intenso suo amore dell’umanità. «Per amar gli uomini, e consacrarmi quanto è in me al loro bene – diceva alla madre nel 1836 – io ho bisogno di non vederli.» E al Lamberti ripeteva più tardi: che il contatto gli faceva odiar gli uomini..... «Alcuni giorni sono costretto a parlar loro senza guardarli perchè dai loro occhi esce qualche cosa che mi reca una insormontabile repugnanza.... Io, salvo pochissime eccezioni, non stimo i miei compatrioti, non stimo gli uomini, benchè io veneri l’uomo, l’uomo avvenire, e in questo sentimento sta la morte di ogni gioia, di ogni entusiasmo, d’ogni conforto.» (Giuriati, p. 8.)

L’anima di Mazzini si andava per così dire fasciando d’uno strato di ghiaccio superficiale, che rendeva più vivida e divorante la fiamma interna: e da ciò procedeva un elemento di debolezza e di forza in pari tempo per lui.

Debolezza, in quanto si diminuivano gli addentellati con la realtà: e Mazzini era tratto a soverchia fidanza in sè stesso e nella forza astratta delle idee; in quanto la misantropia, degenerando in orrore della folla, impediva al capo partito di aver solida presa sugli uomini, gli inspirava invincibile riluttanza a parlare in pubblico, a parader in manifestazioni solenni: riduceva ad ombrosa ritrosia e timidezza nel commercio sociale lo scrittore «gigante a tavolino».

Questa debolezza però poteva considerarsi compensata ad usura dalla forza morale che nell’isolamento si centuplicava in Mazzini – sotto l’influsso prepotente delle idee che padroneggiavano l’esser suo sino all’ossessione; gli scavavano il cranio (com’ei dice), gli si raggiravano nel cervello come serpenti chiusi in vetro.

A Mazzini le idee agivano dentro anche fisicamente: da acuto osservatore di se stesso, notava di aver quasi abitualmente la testa calda e malata (iperemia al cervello): non poteva piegar il capo senza che fosse costretto a rialzarlo, dacchè gli pareva che cascasse e fosse come minato; mentre il cuore sobbalzava per acute trafitte. (Giuriati, p. 2.)

Tale il solco profondo fatto nella sua psiche dalle idee assorbenti, che s’accentravano nella risurrezione d’Italia – nell’ansioso sforzo di galvanizzare il cadavere – rifar degna di Dante, di Foscolo una nazione morta e dilaniata: vederla balzar «gigante, angelo di vita ai popoli dal suo Sepolcro». (Epistolario, II, 38.)

La creazione di questa terza Italia era la missione che s’era imposto e che doveva attuare, postergando ogni interesse proprio, ogni aspirazione di felicità, di soddisfazioni personali.

Pochi hanno sacrificato di più di Mazzini per una idea: pochi inflissero con la vita intera più solenne mentita alla dottrina del materialismo storico.

È giovane, ricco, ammaliante di persona, di genio, e getta via tutti i doni della fortuna per inseguire il suo sogno. Se la madre lo circondò – e viva e morta – del suo provvido affetto, assicurandogli pensioni inalienabili che lo mettessero al riparo dal bisogno, Mazzini ebbe però il grande dolore di urtarsi con le convinzioni rigidamente conservatrici del padre. All’annunzio della morte di lui nel dicembre ’48, l’amarezza pel vuoto che gli si faceva attorno gli era resa più grave dal pensiero di «non aver dato mai gioia a suo padre».

Vi fu un momento in cui Mazzini credè di scorgere nell’attitudine del babbo codino un’insofferenza de’ sacrifici pecuniari addossatigli dalla sua esistenza randagia, e con fiera delicatezza s’impose le più dure privazioni. Il giovane abituato a tutte le agiatezze non si spaventò di affrontare l’indigenza. Le sue operazioni con gli strozzini di Londra erano regolarmente sulla base del 100 per 100: impegnò sin l’anello di sua madre, ipotecò ogni risorsa avvenire, tanto da augurarsi che una buona volta lo togliesse a quegli strazi la prigione per debiti.

I compagni d’esilio o snervati dalla povertà mormoravano filisteicamente come i Ruffini contro il sognatore impenitente che si rovinava per gli altri: o disillusi e beffardi, come Gustavo Modena, gli affibbiavano il nomignolo irrisorio di Pestalacqua nel mortaio: o bisognosi essi stessi di soccorso abusavano senza scrupoli della sua inesausta bontà. In tutto il suo carteggio sono incessanti le querimonie rassegnate pe’ miseri, per gli indiscreti che lo spremono, lo sfruttano, ed a’ quali non sa rifiutare l’ultimo spicciolo della sua borsa.

I soli suoi giornali ed opuscoli gli consumarono una ingente sostanza: non trovava mai il verso di rientrare nelle spese di stampa e di porto, a que’ tempi onerosissime. Molti collaboratori delle sue effemeridi o vivevano a totale suo carico, o percepivano modesto compenso – egli, mai! Anche nel ’60 scriveva al Saffi che il giornale l’Unità Italiana di Genova gli apportava la letizia d’un bilancio in deficit di 200 lire la settimana: deficit tutto addossato alle sue spalle, dando magrissimi risultati la caccia ad azionisti, abbonati. (Saffi, p. 218.)

Mazzini soleva dire che gli italiani offrono più volentieri il sangue che non il denaro – si lasciano cavar più volentieri dei denti che non una modica somma dal portafoglio –: e quel motto, tra scherzoso e sarcastico, rappresentava la sua esperienza penosa di 40 anni, durante i quali – se aveva trovato generosi seguaci come il Rosales, il Mayer, ecc. – aveva pur anco constatato la sordida avarizia di molti patrioti, a cominciare da qualche reduce dallo Spielberg, che rifiutava un obolo mensile per l’Apostolato nazionale. Caratteristico l’aneddoto di un ricchissimo esule – ricusatosi a prendere nel ’50 una cartella del prestito mazziniano, non già perchè lo rattenesse il timore di rischi inesistenti per chi dimorava all’estero, ma solo mosso dal gretto desiderio di risparmiare 25 franchi. S’intende bene che il recalcitrante era un propugnatore del prestito!

Spese di corrispondenza, la fatica stessa materiale dello scrivere, del copiare, del corregger bozze ricadevano in gran parte su Mazzini, che se ne sfoga irritato col suo buon Aurelio Saffi. «Che fra tanti amici non ve ne sia un solo che possa darsi la noia di correggere le prove de’ miei articoli – mentre io correggerei quelle de’ miei nemici – è una singolare illustrazione della natura umana. Se non per me, fatelo pel giornale. Sono in una fase d’umor nero verso tutta quanta l’umanità: e ciò mi colpisce come un argomento addizionale. Del resto de’ miei articoli non m’importa un fico. Soltanto che un giornale di repubblicani non possa esser stampato con senso comune, è male». (Saffi, p. 24.)

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Nel lasciar solo Mazzini a dibattersi con tante difficoltà materiali e perdersi in quisquiglie, che avrebbero fiaccato e nauseato ogni volontà più tenace – molti correligionari adducevano lo specioso pretesto che così egli avrebbe rinsavito: avrebbe dedicato interamente agli studi quell’ingegno meraviglioso, pieno di presentimenti moderni, che poteva spaziare sovrano nel campo della critica letteraria, delle discipline morali, e aprir nuovi orizzonti persino alla critica musicale.

La gloria di scrittore si presentava, per vero, come l’ambizione più tentatrice per Mazzini, che tanto agognava di svecchiare la coltura italiana, mettendola a contatto con le letterature straniere: che primo parlò all’Italia di capilavori tedeschi e inglesi ignoti fra noi; e antesignano dell’odierno culto di Dante, entusiasta di Byron, di Foscolo, vagheggiava su essi de’ libri, sempre incominciati e sempre interrotti dal suo lavoro di Sisifo per la propaganda politica. (Vedi nota F).

Amici e avversari lo catechizzano a lasciare le cospirazioni, sorgente per lui di soli imbarazzi e insuccessi: a darsi tutto alle lettere in cui non avrebbe incontrato che ammiratori plaudenti, giovando a sè stesso e al nome italiano. Mazzini freddamente risponde nel novembre 1836 al Rosales per tutti: che «onorar l’Italia con la penna non ha senso alcuno per lui. Come s’onori lo schiavo, non intende. Bisogna tendere a rigenerare quest’Italia, a crearla, poi ad onorarla. Se, come credi, io avessi ingegno, genio, potrei onorar me, non l’Italia; onorar me non l’ho mai voluto nè lo vorrei; se tu mi togli dall’avvenire e dall’intento non capisco cosa sia gloria, onore; non sento lode, non sento nulla». (Epistolario, II, 392.)

Con magnanima abnegazione – tanto più rara in un latino – Mazzini rinunciava alle seduttrici carezze di fama, all’alloro di artista, per mettere a servizio della causa la sua potenza di scrittore.

Senza mai sciupar tempo nelle incertezze tormentose e ne’ rabeschi sapienti dello stilista, lasciava correr vertiginosa la penna per ore ed ore, prodigando piccoli capolavori di pensiero e di sentimento: e la sua malìa di scrittore – che par quasi impallidita o antiquata in Italia – desta ancora ammiratori entusiasti in Inghilterra.

L’ultimo storico inglese della Repubblica Romana – il Johnston, tutt’altro che benevolo alla politica mazziniana, si confessa affascinato dagli scritti del triumviro. Sebbene – egli dice – soverchiamente prolisso «come tutti i suoi compatrioti» Mazzini scriveva magistralmente: quando santa indignazione lo accendeva per le iniquità e gli infortuni, ond’era bersagliata la sua patria, «saliva alle massime altezze di commossa e commovente eloquenza».

Per un lettore del Nord v’è forse eccesso di passione: ma chi può dubitare che le migliaia di italiani non si sentissero sconvolti e trascinati da quel torrente di lava, che fluiva dal petto e dalla penna di Mazzini?

Quelle pagine incandescenti sgorgavano spesso tra’ maggiori travagli e disagi personali: dacchè Mazzini, coll’improvvido «altruismo», aveva finito per rendersi mancipio del bisogno quotidiano – per diventare, com’egli amaramente diceva, un ciabattino letterario, – ciabattino o non pagato affatto, o per pochi soldi costretto in certi giorni ad accettare qualunque penso più ingrato e macchinale. Sulla fine del 1846 confessava al Lamberti d’essersi ridotto a «manifatturiere d’articoli inglesi, traduttore, correttore» – per 4 sterline aveva corretto 12 immensi quaderni di manoscritti altrui. A ciò bisognava aggiungere tutte le lettere che scombiccherava come amanuense gratuito di operai italiani – le commendatizie pe’ bisognosi di occupazione, per la sua stessa padrona di casa, a cui cercava del lavoro di cucitrice – i discorsi che teneva alla scuola fondata pe’ nostri connazionali a Londra, ed altre infinite seccature; e vedrai (concludeva) come io mi trovi quasi infranta tra mano quella penna che era pur l’arma mia principale.

«Io mi sento (esclama) pensieri in testa che potrebbero, non dirò darmi fama. Dio sa se ci penso – ma produrre bene nell’avvenire; in filosofia, in storia, in politica, mi pareva d’esser chiamato a dar luce alla missione italiana... Dovrei star continuamente sulla breccia, ad opuscolo rispondere con opuscolo, a volume con volume; dovrei essere come O’ Connel per l’Irlanda, non occupato d’altro che della nostra causa nazionale. E non v’è modo, non posso scrivere non dirò opere ma opuscoli. Sono indotto a dire: felice Gioberti, felici Balbo, Azeglio, quando vedo i loro volumi» mentre io «siedo al tavolino intorno a lavorucci che mi danno nausea, sento le mie facoltà consumarsi nell’ira, nella delusione, e nella fatica» e cerco invano districarmi dalla piovra dell’usura. «Al nome di Dio, Lamberti, dammi merito, se non dispero apertamente, e se persisto come posso sulla mia strada». (Giurati, p. 166.)

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Qual’è l’uomo anche superiore, che non sarebbe rimasto sfinito da queste opprimenti condizioni, per le quali Mazzini si paragonava a una macchina da scrivere?

Un filosofo, un letterato assurgono a tutta la potenza del loro genio – nel raccoglimento tranquillo del loro gabinetto, della loro biblioteca: co’ mezzi di studio e di ricambio intellettuale arricchiscono la mente; elaborano, maturano le idee.

Un uomo di Stato si vale di tutti gli istrumenti che l’esercizio del potere mette a sua disposizione e che, liberandolo dalle minuzie degli affari, gli permettono di preparare gli avvenimenti e dominare dall’alto uomini e cose.

Un capo partito ha per lo meno una schiera di fidi, che curano l’organizzazione, lo obbediscono disciplinati nell’attuazione dei suoi disegni.

Ebbene tutto ciò mancò sempre, o interamente o in gran parte a Mazzini – condannato a mendicare a frusto a frusto il cibo del corpo e quel della mente; a impiegare il massimo sforzo per ogni minimo risultato; a esaurirsi in improvvisazioni febbrili; a vedersi troppo sovente intralciato più che aiutato dai suoi immediati cooperatori. «Non ho tre uomini di buon senso attorno a me (dice a Lamberti): debbo far io tutto, tutto, e la mia povera vita si consuma nell’impotenza.» (Giuriati, p. 306.)

L’indisciplina è una malattia endemica italiana: e Mazzini la sperimentò largamente tra’ suoi discepoli – non esclusi i migliori: il Lamberti ed il Saffi. Non discutevano soltanto i suoi piani d’azione, ma piluccavano le parole de’ suoi manifesti, gli facevano una guerra di parole, di sillabe fastidiosa, pretendendo correggere la sua prosa superba. Egli longanime discute, persuade – inascoltato, si vendica tutt’al più col chiamare il Saffi «il signor Conte letterato» – ma non assume pose irate di Nume, non trascende a scomuniche di pontefice: raccomanda anzi di rispettare le suscettività de’ minori gregari. (Saffi, p. 37.)

Tra le spicciole, uggiose bisogne d’una vita di sacrifici non perde però mai l’elasticità della mente per le più audaci e geniali concezioni, sa essere egualmente l’Eolo, il Briareo della rivoluzione italiana: conserva intatta l’alacrità dello spirito fra tensioni angosciose perenni, disinganni sempre più crudeli col volger del tempo; dalle disfatte attinge maggior lena per ricominciare.

In quest’epoca di crisi quasi generale della volontà – tanto che si è dovuta coniare una parola nuova per designare questo stato patologico – Mazzini è un esempio eccezionale di ferreo volere, a cui gli abulici dovranno guardare invidiando e arrossendo. Anche vecchio serbava inalterata questa tempra d’acciaio. Saffi ce lo descrive nel 1861 affetto da «dolori nevralgici atroci allo stomaco. Ne’ momenti di tregua però ripigliava il lavoro, dettando o scrivendo. Lo scrivere di suo pugno gli inaspriva il male. Era un martirio: ma tra quei tormenti fisici la forza del pensiero e della volontà non lo abbandonava mai».

Da giovane la sua volontà s’affermava anche più baldanzosa – a segno ch’ei credeva sinceramente che neppure le malattie avessero presa sul suo esile corpo. La mamma si affannava per le privazioni del suo Giuseppe – per quel domicilio coatto di anni interi in grame stanzette, con stuoie alle finestre, dove, pressochè al buio, scriveva da mane a sera, sino ad aver i crampi alla mano, le vertigini al capo, con scarso cibo, con abuso di alimenti nervosi (caffè è sigaro): si preoccupava che l’organismo affievolito divenisse più facile preda del morbo cholerico, allora imperversante per la prima volta in Occidente; e Mazzini la conforta sorridendo. Egli non s’ammalerà, non deve, non vuole ammalarsi. La sua missione lo reclama: ad essa potrà dedicare intatte le energie giovanili cercando dal suo carcere volontario l’ubi consistam per muovere il mondo e conquistar l’avvenire.

In quella concentrazione del volere che centuplicava (ripeto) le sue facoltà – in quell’auto-suggestione permanente, che è il tratto fondamentale della personalità di Mazzini – egli aveva eretto a sistema il gutta cavat lapidem: l’opera sua poggiava sul calcolo degli imponderabili, sul principio granitico che una serie di tentativi falliti fosse la condizione sine qua non del successo finale immancabile. L’applicazione di questo principio era proseguita da lui con una pertinacia industriosa nel tesoreggiare ogni mezzo più insignificante: nel raccogliere, come formica, qualunque pagliuzza, qualunque chicco da riporre nel suo sotterraneo granaio.

Da quell’«audacia tenace ligure» che a l’alto mirava, irradiandosi nell’ideale, non andava, no, disgiunto il senso pratico, innato ne’ genovesi: nè l’idealismo mistico di Mazzini escludeva il sano concetto del valor del denaro, e l’arte sapiente di cavarlo... fin dalle pietre.

Gli amici suoi erano bersagliati per oblazioni, volontarie o no, sotto mille forme: quote mensili, azioni, cartelle. «Non vincerete in un giorno, ma vincerete» – era la scritta, che campeggiava su alcune di quelle cedole de’ prestiti mazziniani: cambiali tratte audacemente sull’Italia futura.

«Follia», dicevano crollando il capo i pavidi, i prudenti: ma non può pensarsi più magnanimo gesto di quello di Mazzini, dopo i rovesci del ’48-49, nel protestare contro l’Austria e le sue contribuzioni forzate nel Lombardo-Veneto. Egli gridava all’oppressore «tu non hai diritto a questa nuova spogliazione», nel tempo stesso che esortava gli oppressi a non subirla, e ad acquistare in cambio le cartelle nazionali per affrettar la riscossa.

«Italiani del Lombardo-Veneto – diceva il manifesto del 15 ottobre 1850. – Mentre l’Austria vi impone prestiti a mantenervi il giogo sul collo, gli uomini che lavorano a romper quel giogo fanno appello fiducioso al vostro concorso. Alla resistenza passiva accoppiate la forza dell’azione, e sarete in brev’ora padroni della vittoria.»

Nè quella voce restò inascoltata. Le cambiali erano accettate e scontate non di rado col sangue: ma prima o poi, Mazzini lo sapeva e lo credeva con ferma fede, la nazione avrebbe fatto onore alla sua firma. Le ricevute che A. Saffi rilasciava a’ sovventori della Cassa del Comitato Nazionale erano così stilate: «dichiaro io sottoscritto, d’aver ricevuto da N. N. la somma tale: le partite si regoleranno in seguito come debito sacro della nazione: i membri del Comitato Nazionale s’impegnano per quanto sta in loro di far riconoscere il credito dal futuro governo dell’insurrezione italiana».

Mazzini predicava con l’esempio, come contribuente della cassa rivoluzionaria: e s’azzuffava col tutore lasciatogli dalla madre che gli impediva di spogliarsi di tutto, alienando la sua pensione, per versarne il capitale agli scopi della causa.

I maggiori oblatori li scovò tra gli inglesi: James Stansfeld, che fu poi ministro, nel gabinetto Palmerston, era l’agente londinese del prestito, il cui recapito era stampato sulle cartelle; e qualche altro uomo di Stato britannico fu udito dire che ripensava con un brivido alle solidarietà compromettenti cui l’aveva trascinato quel mago. Una schiera di collettrici era a’ suoi ordini, instancabili nel racimolare offerte, sia fisse mensili, sia date una volta tanto. «Uno scellino (insinua Mazzini alla moglie di Saffi) uno scellino per una volta si chiede e si dà facilmente tra lo scherzoso e il serio. Una donna può tener la lista sul tavolino e farla firmare a’ visitatori ai quali essa non vorrebbe chiedere d’impegnarsi a versamenti patriottici». (Saffi, p. 267.)

Giorgina Saffi – consentitemi di mandare un riverente saluto a questa veneranda gentildonna, inglese di nascita, italiana d’affetto, che vive appartata a Forlì nel culto delle memorie della sua giovinezza – Giorgina Saffi e sua sorella Caterina Craufurd erano le confidenti di Mazzini pe’ suoi progetti di concerti monstre, di lotterie, di bazar, di conferenze a beneficio della causa italiana. Ed è bello udir Mazzini discuter bonariamente con loro, con quella vena d’umorismo, che non mancava alla sua indole piena di contrasti. L’agitatore afflitto da tragica insanabile tristezza, diveniva nell’intimità caricaturista argutissimo: la sua conversazione era uno scoppiettio di frizzi, di aneddoti umoristici; felicissimo tra l’altro si mostrava nell’imitare, con sobrietà di vero artista, il canto italiano di certe inglesi laceratrici di ben costrutti orecchi.

Con la Saffi, donna di squisita coltura e di forte sentire, Mazzini dibatteva il modo di combinare artisti e programmi di serate musicali – la scelta de’ premi da offrire in lotteria – le pratiche necessarie per radunar oggetti da esporre e vendere in un Bazar.

«Non v’è limite – le dice – alla natura degli oggetti: da lavorucci di donna sino a vecchi oggetti di mobilia medio-evo, come se ne trovano a Perugia e altrove, tutto è buono. Vorrei avere costumi locali pittoreschi di contadini: prodotti del suolo: fotografie e autografi di sommità se ne esistono»; di tutto insomma che attragga gli inglesi a un Bazar, destinato a interessarli per Roma e Venezia ancor schiave. (Saffi, p. 287.)

Il rispetto cavalleresco di Mazzini per la donna gli attirava infinite ammiratrici – fiduciose in lui come nel più discreto e indulgente confessore spirituale (a cominciare dalla moglie di Carlyle) e quelle devote inglesi lo aiutavano nella sua scuola domenicale per gli operai, influivano sulla stampa, guadagnavano simpatie all’Italia con pubbliche conferenze, scritti profusi dappertutto.... persino ne’ piccoli magazines in 32° pe’ fanciulli. (Giuriati, p. 135.)

L’acume di Mazzini nello studiare le vie di accaparrarsi l’opinione pubblica onnipotente in un libero paese emerse luminosamente nell’episodio delle sue lettere manomesse e comunicate al Governo Borbonico che ne profittò per schiacciare la spedizione dei fratelli Bandiera. Fu un obbrobrio per l’Inghilterra che de’ suoi ministri scendessero a tale complicità: e non occorreva meno dell’ardor battagliero di Mazzini per lanciare, egli proscritto, così grave accusa al governo del paese suo ospite. Ma non invano contò sul profondo sentimento di libertà e di probità degli inglesi: a cui, dopo un’ingegnosa istruttoria da lui organizzata per procurarsi le prove palmari, Mazzini denunciò fieramente i ministri colpevoli. Nell’insurrezione della stampa ufficiosa contro l’importuno, la più solenne testimonianza fu resa a Mazzini dal Carlyle – il quale proclamava dalle colonne del Times: «checchè io possa pensare del suo senso pratico e dell’abilità sua negli affari del mondo, posso in tutta coscienza testimoniare che egli è un uomo di genio e di virtù; di veracità genuina, di umanità e nobiltà di mente; uno di quegli uomini sventuratamente rari, anzi unici in terra, che siano degni di esser chiamati anime martiri». (Vita della Mario, p. 300.)

Un ministro che aveva osato difendersi, rinnovando contro Mazzini viete calunnie di mandante di assassinî politici, dovette farne ammenda con pubbliche scuse!

Nelle sue confidenze al Lamberti, Mazzini precisava tutto il suo piano di campagna in quel clamoroso incidente. «È sorta – gli dice – una guerra violenta dei giornali del Ministero contro di me, andando sino a minacce di cacciarmi via: ciò di che rido. Intanto la settimana ventura circolerà una petizione generale al Parlamento, che otterrà, – spero – un numero prodigioso di firme.... Ma ciò che ho in vista alla lontana è un’altra cosa più importante assai per noi: lo stabilimento di un’associazione pubblica inglese, diretta ad aiutare la causa italiana. Questo è il vero scopo di tutto il mio chiasso qui e spero riuscirvi. Quest’affare delle lettere mi dà quel che io cercava da tanto tempo, ma senza volerlo mendicare: un nome pubblico qui... Non temere: ho il mio termometro dalle lettere che ricevo da persone indipendenti: lavoro a far che esca da questo affare una propaganda inglese» per la nostra Italia! (Giuriati, pp. 75-77.)

Ed invero il pubblico inglese, il più positivo, il più refrattario ad ogni nebuloso misticismo, ad ogni intrigo settario, finì per subire il fascino di Mazzini, per rimaner conquiso dalla sua austera moralità: e nell’asilo inviolato che già gli accordava gli elevò una rispettata tribuna da cui parlare all’Europa. Una società di amici d’Italia – Friends of Italy – si fondò sotto i suoi auspicî: furono tenuti comizi per forzar la mano ai ministeri conservatori, per incorare i gabinetti liberali; riviste e giornali autorevoli accolsero scritti dell’agitatore italiano.

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Questa attività di Mazzini in Inghilterra non è forse prova che l’impulso vero del suo carattere – meglio che ai tenebrosi misteri delle congiure – lo portava alle aperte e feconde discussioni della vita pubblica? Lo dichiarò esplicitamente egli stesso al Montanelli in una lettera che il prode ferito di Curtatone inserì nelle sue «Memorie sull’Italia dal 1814 al 1856». (I, p. 263.)

«La cospirazione – gli osservava Mazzini ribattendo le sue censure – la cospirazione non è per me un principio; è un tristissimo fatto, un derivato da una condizione di cose che la rende indispensabile. Tutte le mie tendenze individuali stanno per la pubblicità: e voi dovreste farmi giustizia e ricordare che lasciandomi spesso tacciare d’imprudente ho aggiunto fino dalle mie prime mosse la pubblicità al lavoro segreto: che la Giovane Italia si mise subito in aperto contrasto con la vecchia Carboneria, fissa a voler procedere in tutto e per tutto nell’ombra; che da noi si fece segretamente quello che non poteva farsi pubblicamente, ma che innalzammo una bandiera e ci cacciammo a tenerla levata a viso aperto e come predicatori di principii. E se vi è chi mi apre una via di predicare unità di nazione in Italia io lo benedirò e verrò immediatamente» tra voi!

Di queste dichiarazioni avrebbe a tenersi pur conto, prima di ripetere lo stereotipo clichè che Mazzini avesse la monomania del congiurato. Certo, neanche la sua natura privilegiata poteva sfuggire alla deformazione di un’inveterata abitudine, all’influsso della vita appartata tra quattro mura, con scarse visite di amici, che per entrare dovevano valersi di speciali segni di riconoscimento.

Era fatale che a lungo andare, fuori del contatto della realtà, si annebbiasse nell’esule, nel recluso la visione nitida delle cose; si creassero delle lacune nel suo meraviglioso cervello (p. e. la memoria precisa di luoghi e di date era un «organo che gli mancava affatto», lo riconosceva egli stesso): era fatale, ripeto, che il suo intelletto si irrigidisse in formule dogmatiche nè avvertisse tutta la sproporzione tra’ mezzi ed il fine.

Ma l’abitudine contratta del cospirare era in Mazzini più colpa de’ tempi e delle circostanze che sua: egli non aveva il temperamento settario; l’indole schietta e leale rifuggiva da mezzi obliqui. Da giovane aveva deriso le farse carbonaresche: non appartenne mai a logge massoniche; vecchio deplorò che la Massoneria accogliesse «uomini d’idee contradittorie, si appagasse di vuote formule, di simboli senza idee; si restringesse a banchetti e atti di carità verso i fratelli, non altro». (Politica segreta italiana, p. 383.)

Nel suo pensiero la Giovane Italia doveva chiuder l’éra delle sette, per aprir quella dell’associazione educatrice; e solo gli ignari possono disconoscere qual salutare distacco rappresentasse la nuova società al confronto della Carboneria che avrebbe finito d’imbestialire le masse italiane con la sua selvaggia propaganda, co’ suoi mezzi atroci o immorali, dallo stilo al veleno, dall’incendio al tradimento domestico. Ond’è che Mazzini dipinto dalle polizie per un Marat o poco meno, era dalle vecchie barbe del Carbonarismo sprezzato e combattuto come un utopista, un rêveur troppo dolce e religioso.

A quel tristissimo fatto del congiurare si piegò dunque dapprima riluttante, dacchè nella legittima fidanza del valor suo era ben conscio della dittatura morale che avrebbe potuto conquistarsi facilmente in un libero campo di attività feconda pel rinnovamento politico-sociale.

Ma dov’era questa palestra dal 1831 al ’48 in Italia?

Bisognava allora occultarsi nelle catacombe del patriottismo: ed è appunto da’ primi cristiani che Mazzini derivò esempi ed incoraggiamento, per non arretrarsi dinanzi ad ostacoli.

«Se avessero detto – soleva osservare – ai primi cristiani: volete mutare il mondo, volete abolire la schiavitù, volete stabilire la carità e l’uguaglianza della natura umana, in mezzo a questo fango d’uomini senza fede, senza entusiasmo, rosi dall’egoismo, dal libertinaggio e dalla viltà, come erano i romani a que’ tempi – essi avrebbero risposto: non guardiamo al risultato, guardiamo al dovere nostro; non guardiamo alla difficoltà, guardiamo alla verità..... Così hanno a rispondere tutti gli uomini che hanno credenze»: così devon pensare gli italiani che intendono risollevare la patria e devono pensarlo non solo in un fugace momento d’entusiasmo, ma «freddissimamente, pacatamente, profondamente» per tutta la vita. (Epistolario, II, 390.)

L’azione di secoli non può esser vinta in pochi anni: dobbiamo fare un gran lavoro preparatorio intellettuale e morale di educazione per cancellare le traccie di servitù dell’anima italiana.

L’educazione d’un bambino rivela dopo alcuni anni i suoi effetti: ma per l’educazione de’ popoli, una generazione intera nol può. Gli effetti sono insensibili, ma tuttavia infallibili. (Epistolario, II, 238.)

Queste le massime che Mazzini ripete per trascinare gli ignavi, acquetare i dubbiosi: e mostrava con ciò un senso perspicuo del reale e del possibile, adombrava in fondo la teoria della evoluzione.

L’errore sorgeva nella valutazione del tempo e de’ mezzi che sarebbero occorsi a conseguire gli effetti voluti: ma i fattori morali, su cui contava Mazzini, erano acutamente intuiti e indicati – ne aveva anzi una percezione squisita, che non sempre possiedono i così detti uomini di Stato. Carlyle, che ne’ convegni amichevoli aveva tante volte deriso le imbecillità all’acqua di rose di Mazzini, ne riconobbe lealmente la vittoria, con l’esclamare da ultimo: «l’idealista ha vinto, e ha tradotto la sua utopia in patente e potente realtà». Aveva vinto con la propaganda intensa, con l’acre desiderio della rivincita – inoculato negli italiani, scacciando l’abbattimento consueto delle disfatte e rendendo anzi queste un incentivo di nuovi sforzi; – aveva vinto col modificare il carattere nazionale, obblioso e accomodante, trasfondendo in esso le febbri del suo patriottismo; – aveva vinto con la fede indomita nella dinamica delle idee, nella forza esplosiva de’ sentimenti.

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La politica a grandi linee di Mazzini guardava al di là dell’immediato successo e squarciava con lampi divinatori il buio dell’avvenire.

Certe sue iniziative parvero spacconate o pazzie: quella ad esempio della Giovane Europa – ma ora domanda uno storico sereno, lo Zanichelli, «chi oserà negare che gli stati europei liberi e democratici hanno in parte attuato quella follìa, creando una specie di solidarietà mutua con la somiglianza degli ordinamenti e questa integrano e fortificano con la complessità de’ loro rapporti? Chi ora in Italia non vorrebbe che i nostri uomini politici, i nostri ministri tenessero presenti nella lotta de’ popoli balcanici gli insegnamenti di Mazzini che aveva preveduto il fatale irrompere della marea slava?....».

L’avvenire della Germania – che un giorno avrebbe sbalordito il mondo – si disegna al pensiero di Mazzini, sino dal 1836: e nel 1851 Anselmo Guerrieri Gonzaga, l’ex-ministro del governo provvisorio di Milano, riceve credenziali per avviare tra italiani e tedeschi un’alleanza contro il comune nemico, l’Austria. (V. nota G). Strana coincidenza: quelle istruzioni al Guerrieri precorrono di 17 anni le considerazioni svolte da Bismarck in un Memorandum destinato a Mazzini del 1868, allorchè il cancelliere di ferro – lo sprezzante adoratore della forza – riputò non sconvenire ad suoi disegni contro l’impero napoleonico lo sfruttare anche l’influenza dell’agitatore idealista italiano. (Politica segreta italiana, p. 346.)

Mazzini anticipava i tempi non soltanto in quel suo pensiero di un’alleanza italo-prussiana, ma anche nell’idea più ardita di associare a quell’alleanza i magiari. La stretta sua amicizia col Kossuth non poco giovò a svigorire la compagine austriaca col cuneo delle aspirazioni ungheresi; e l’impero degli Absburgo ne risentì gli effetti nel ’59 e nel ’66.

Ora queste eran concezioni di vero uomo di Stato: e pochi come Mazzini erano dotati della ingenita facoltà di abbracciare a colpo d’occhio tutte le conseguenze che dovevan scaturire dalla logica ineluttabile dei fatti. Dove non lo sviassero le premesse di informazioni inesatte, le sue deduzioni avevano una lucidità profetica, da atterrire.

Degli entusiasmi fittizi suscitati da Pio IX ei vede subito ab initio, l’inanità, ma segna a’ suoi fidi la via da battere, secondando la corrente popolare per dominarla.

La fortuna di Luigi Bonaparte non lo abbarbaglia, poichè ne presagisce la spaventosa catastrofe; e nel ’49 gli preannuncia: «signore, abbandonato, schernito da quei che oggi s’avviliscono più di menzogne e di lodi davanti a voi, andrete vittima espiatrice di Roma a morire in esilio». (Scritti, VII, 134).

Le attitudini di Mazzini al governo brillarono, appunto, in Roma nel ’49, associate a quella rara semplicità di costumi, per cui egli viveva insieme al Saffi con parsimonia antica, «schivo d’ogni mostra di potere e di lusso».

Tutto il peso del governo gravava su Mazzini: che doveva contenere gli elementi generosi ma indisciplinati, affluiti a Roma per difenderla; frenare le velleità di dittatura garibaldina (vedi nota H); imporre rispetto alle leggi; punire gli oltraggi alla libertà da parte delle fazioni estreme; esigere rigida probità amministrativa; sferzare i fannulloni e i declamatori.

A’ così detti quarantottisti, a coloro che facevano la guerra «a ciarle ne’ caffè o tra bottiglie di vino bevuto all’Italia» le più fiere rampogne vennero da Mazzini. «Siamo in momenti supremi, scrive al Lamberti (al quale invano offerse il portafogli della guerra). Facciamo in faccia all’Europa una figuraccia di dottrinari, di inetti, di agitatori senza senno; e in questo ha tutte le ragioni il Papa.... È una vergogna che un 70 mila austriaci con l’Impero sfasciato dettino legge all’Italia: e che invece di organizzarsi, dar denaro, correre all’armi come invasati, gli italiani discutano e sragionino». (Giuriati, pp. 298, 306.)

Il Giusti – moderato sino alla pusillità, rifuggente con orrore da’ demagoghi – che vide il Mazzini nel marzo 1849, e assistè al suo colloquio con Gino Capponi, n’ebbe l’impressione più favorevole. «Conobbi il Mazzini, scrive ad un amico di Pescia. Non fummo d’accordo in tutto ma c’intendemmo. Egli sta più alla teoria che al fatto, io più al fatto che alla teoria; può essere che tutti e due abbiamo ragione o torto a vicenda. Egli è sulla scena, io in platea». (Epistolario, ed. Martini, III, 286.)

Temperanza notevole di giudizio in uno spirito così pronto alla critica, per non dire al terrore, d’ogni menomo eccesso delle fazioni popolari: – e l’esperimento, troppo breve, di Mazzini al potere, provò che sulla scena dei grandi attori politici sapeva figurar degnamente. Ministri inglesi gli riconobbero qualità di statista e citavano come modelli di eloquenza e di dialettica i suoi dispacci di protesta per l’occupazione francese; Palmerstone e Gladstone difesero la probità di Mazzini alla Camera inglese....

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Mancò quindi a Mazzini l’esercizio del governo, non l’attitudine: ed anche ristretta l’opera sua nella cerchia ingrata e inceppata del cospiratore, pare a me semplicemente miracoloso come talento d’organizzazione, e come fecondità di espedienti che in tempi primitivi di comucazioni, fra tante polizie occhiute e destituite di scrupoli, con amici tiepidi o infidi, con mezzi così esigui da non aver spesso il denaro per la corrispondenza postale, Mazzini sapesse allacciare così vaste relazioni, e dirigere i più avventurosi tentativi, egli, ramingo da un nascondiglio all’altro, camuffato sotto nomi e travestimenti diversi e bizzarri.

Già quelle stesse metamorfosi erano un’opera d’arte per le astuzie impiegate da Mazzini nel procurarsi falsi passaporti, nel far girare col suo nome de’ compagni che gli somigliassero, nello sviare i segugi con false denuncie. Al Saffi scrive da Ginevra nell’ottobre 1850: «possibile che non vi sia modo di provocare con falsi rapporti qualche perquisizione a Losanna per me! Sarebbe utilissimo ad aprirmi più facilità di soggiornarvi poi.» Egli sgrida Saffi per l’imprudenza di farsi scorgere e quanto a sè era così spavaldamente sicuro della sua abilità nel trasformarsi che nel 1832 a Marsiglia passava tra’ birri in uniforme di guardia nazionale, e dopo il moto di Genova del 1857 uscì da casa Pareto, come nulla fosse, a braccio di Cristina Profumo: e chiese in sulla porta ad una delle guardie che ivi stava vigilando che gli accendesse il sigaro.

V’era in ogni suo atto quella stessa tranquilla audacia, onde i più rischiosi disegni parevan possibili a lui, che li architettava nella sua cameruccia d’affitto, mobiliata appena di un letto e di poche sedie ingombre di libri.

Eppure di là, o poco o tanto, la mano sua si stendeva dappertutto: dalle lettere al Saffi si ha la certezza che Mazzini mandò denaro per la fuga d’Orsini dal castello di Mantova; e quella strepitosa evasione gli faceva accarezzare la speranza di procurarne delle altre. Vedi – dice al Saffi – di aiutare nel tuo cerchio d’amiche e di amici «un tentativo di fuga di 8 o 9 de’ nostri migliori prigionieri, tra’ quali il fratello di Grioli, Arpesani, ecc.; hanno tutte probabilità se avessero 3 mila lire che chiedono a noi. Di questi, mille son già trovati. La fuga d’Orsini dovrebbe provare che si può».(Saffi, p. 119.)

Questo organizzatore di prim’ordine – che in una giornata trovava modo di scrivere dozzine d’articoli, di lettere, in cifre o con inchiostri simpatici, in lingua italiana, francese, inglese, non disorientandosi mai tra’ gerghi convenzionali variabili de’ suoi corrispondenti – designati quasi sempre con disparati pseudonimi o col solo prenome; quest’organizzatore di prim’ordine, ripeto, non va giudicato dagli apparenti insuccessi. Tanto varrebbe voler misurare la valentia d’un direttore d’orchestra da tutte le stonature e le cacofonie che straziano l’orecchio nelle prove generali.

La storia obbiettiva (s’io mal non m’appongo) farà ammenda de’ facili biasimi scagliati a Mazzini pe’ troppi infausti tentativi, onde si accrebbe il martirologio italiano.

In molti di quegli infelici conati Mazzini dovè accettare piani altrui che non approvava ed aveva recisamente sconsigliato.

Una volta confida a Lamberti che si tramava non so che cosa, e ch’egli scongiurava inutilmente a desistere. «È possibile (dice) perdere la testa in quel modo? Ma se il diavolo vuole, bisogna pure che io cerchi coadiuvare. Tant’e tanto sarei perduto a ogni modo. Chi mai vorrà credere che non mossero per ordine mio?» (Giuriati, p. 210.)

Questo sentimento generoso gli fece addossare innanzi a’ contemporanei responsabilità che a rigore non gli spettavano: nella sua nobiltà d’animo Mazzini sdegnava sconfessare nell’infortunio i discepoli – non voleva degradarsi ad imitar coloro che reclamano i benefici della vittoria ne’ moti popolari, ma si affrettano a rimuover dal loro nome l’onta della disfatta. Con furbe palinodie non palliò mai gli intenti veri dell’opera sua: riconobbe che ogni movimento mal riuscito – se non al suo diretto consiglio – aveva ottemperato alla sua massima fondamentale di tentare a tutti i costi, con mezzi anche inadeguati, nella incrollabile convinzione che quelli non fossero sperpero di forze, ma avviamento a sicuro trionfo.

Che alcuni di que’ tentativi fossero quasi folli, perchè calcolati su vaghe promesse, su voci troppo leggermente raccolte di probabili insurrezioni – è indubitato: gli esuli son creduli, scambiano la possibilità col desiderio; e Mazzini doveva spesso servirsi di informatori mal accorti, basarsi su notizie false del tutto o già non più vere al momento in cui gli pervenivano dopo lunghi giri di corrispondenza di contrabbando.

Taluno però di que’ tentativi era stato concertato con uomini competentissimi di scienza militare, il Pisacane – che aveva composto studi critici profondi di storia militare; – Calvi, che nel Cadore e a Venezia aveva vôlto in fuga que’ nemici la cui divisa aveva un tempo a forza indossato.

Non può quindi pesar su Mazzini esclusivamente il rimprovero di quegli insuccessi; ma pur volendo oggi a cose fatte esser severi per le illusioni del capo della Giovane Italia, sia permesso domandare:

— Senza la propaganda mazziniana sarebbe accaduta l’esplosione vulcanica del ’48-49? E dopo Novara nel lungo decennio d’attesa, avrebbe potuto la diplomazia di Cavour portar dinanzi all’Europa la questione italiana senza il concorso efficace indiretto de’ tentativi mazziniani repressi ferocemente dall’Austria, e senza l’appoggio dell’opinione pubblica inglese?

L’Austria era tutt’intenta ad avvolger nelle sue reti Napoleone III, a rendere il nuovo Cesare solidale d’una politica di compressione nella penisola; e il quietismo, la rassegnazione de’ popoli avrebbero favorito le mire de’ governanti di Vienna.

Per sventarne i calcoli non v’era che un modo: «l’azione ripetuta continua. Se i letterati militari e civili – scriveva Mazzini nell’aprile 1853 al suocero di G. Acerbi (Vedi nota I) – non avessero perduta metà dell’anima, basterebbe a destarli questa parola ch’io vorrei ripetuta al loro orecchio ogni mattina: i tedeschi bastonano gli italiani. Noi che le intendiamo queste parole, abbiamo la febbre.»

Questo convulso patriottismo, insofferente d’indugi, di cautele, giovava dunque da un lato a scavar più profondo l’abisso tra oppressori e vittime: come d’altro canto l’ostinata campagna Unitaria di Mazzini spazzava in anticipazione il terreno da tutti gli intrighi separatisti, muratiani, lorenesi, borbonici, clericali, che dopo Villafranca avrebbero potuto ostacolare il compimento dell’edificio nazionale.

Nè sarebbe stata concepibile l’impresa leggendaria de’ Mille se le prove fallite dalla spedizionie de’ Bandiera in poi non avessero spianato la via trionfale all’epopea garibaldina: se Mazzini non avesse insegnato all’Italia le sublimi imprudenze, non l’avesse educata a calcolare sulla forza trascinante di generose iniziative, sul fascino irresistibile d’una prima vittoria.

Un caso felice mi ha fatto scovare gran parte dell’archivio della spedizione de’ Mille – nelle case di G. Finzi e di G. Acerbi –: e là con l’eloquenza delle cifre può misurarsi che eroica follìa fosse quella degli argonauti che partivan da Quarto con pochi fucili rugginosi, senza quasi munizioni e con una cassa di guerra di 90 mila lire avute dal Comitato di provvedimento di Genova. Nella relazione inedita dell’Intendente generale Acerbi (V. nota K) è precisato che dal 6 maggio al 31 maggio 1860 si spesero solamente 70 mila lire: le 20 mila lire residue furono versate nelle mani del Dittatore. Venuta Palermo in potere delle armi liberatrici, quando ancora fumavano le rovine del bombardamento s’instaurò un’amministrazione regolare – presieduta appunto da Acerbi, con a latere Ippolito Nievo: e questa, malgrado lo smisurato accrescimento della forza numerica, che da’ Mille di Marsala salì nell’ottobre a più di 45 mila combattenti, provvide ad ogni spesa con la somma complessiva di 26 milioni, 174241 lire e 77 centesimi. I quali 26 milioni furono ottenuti con le sovvenzioni di 5 milioni e 206 mila lire del Banco di Palermo, 2 milioni e mezzo circa del Banco di Messina, e quasi 18 milioni del Banco di Napoli: di cui oltre 5 milioni furono erogati, sulla fine del ’60, per le gratificazioni rese necessarie dal disciogliersi dell’esercito meridionale.

A queste cifre del resoconto Acerbi vanno aggiunti i 6 milioni e 200 mila lire dell’Amministrazione Bertani: i quasi 2 milioni dell’Amministrazione Finzi-Besana pel fondo de’ fucili; (ove figurano pure 10 mila lire versate da Vittorio Emanuele a mezzo del gen. Türr, «erogabili – dice il resoconto – a pro’ de’ feriti bisognosi»): e si arriva a un totale di meno di 35 milioni.

Questi resoconti finanziari insospettabili provano come non fossero punto fantastiche le previsioni di Mazzini, allorchè non disanimato dagli insuccessi affermava con piena sicurezza dell’avvenire a Giorgina Saffi nel 1857 (pagina 126): «si può fare. Vi sono elementi più che sufficenti. Una vittoria li porrebbe tutti in moto. Con questa convinzione è dovere il tentar sempre.»

Non è vanteria una nota di Mazzini a Re Vittorio, dell’aprile 1864, nella quale gli dice: «se chi scrive crede d’aver qualche cosa in sè è l’istinto della situazione. Quando feci in modo che s’iniziasse un moto in Sicilia, ebbi quest’istinto. Senza quel piccolo moto, forse a quest’ora il mezzogiorno non farebbe parte della Monarchia italiana.» (Politica segreta italiana, pag. 25.)

Per accendere quella favilla, che avrebbe fatto saltare in aria il governo borbonico, Mazzini spese gli ultimi resti della sua fortuna – contrasse debiti con amici inglesi, ad approntare la spedizione di Rosolino Pilo «gentil sangue che vantava Angiò.» Nell’epistolario Saffi si accenna a 30 mila franchi dati al Nicotera brevi manu da Mazzini: e questi ricorda (pagina 380) che in Genova, interdettogli il soggiorno palese, passava le notti da mezzanotte alle quattro in casa Bertani per aiutarlo alle spedizioni Medici, Cosenz.... – ricorda tutto il lavoro compiuto da lui e da’ suoi per creare quelle correnti d’entusiasmo, che Garibaldi avrebbe inalveate e dirette all’urto supremo vittorioso.

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A buon diritto perciò rivendicava alla sua propaganda quell’efficacia che gli avversari e gli stessi amici intiepiditi disconoscevano. «Perchè chiami – dice al Lamberti – il nostro lavoro improduttivo? Credi tu pure che siamo stati inutili? Non m’esagero affatto la nostra importanza, ma ti dico che sbagli. Non abbiamo prodotto quello che volevamo: inoltre i prodotti non s’attribuiscono a noi, e questo è il solito. Ma credi che senza la Giovane Italia, la nostra predicazione, il ’33, le agitazioni del ’43, ecc., staremmo dove noi siamo? Bensì volendo dieci, abbiamo prodotto due: e questa è ragione per tirare innanzi, quando anche le apparenze ci dicono che non abbiamo eco..... Abbiamo invecchiato in questo nostro lavoro: vorresti abbandonarlo? Saresti meno infelice per questo? Noi non possiamo rifarci egoisti; abbiamo intravveduto l’idea e l’idea ci tormenterebbe dovunque: siamo suoi, nati a incarnarla in noi, e vada come sa andare.» (Giuriati, pagina 239.)

Enrico Tazzoli non parlò mai col Mazzini, col quale ebbe solo carteggio per mezzo di Scarsellini e di Finzi: ma ed egli e Tito Speri, suggellandola col sangue, raffermavano la loro fede nel verbo mazziniano. Lo Speri vaticinava le felici conseguenze della cospirazione del ’51-52 «poggiata – egli diceva – su fondamenti assai saviamente costrutti»; e Tazzoli volgeva questa magnanima apostrofe a’ giovani: «nelle commozioni dal ’21 in poi è facile riconoscere un progresso del principio nazionale. La moltitudine delle vittime non tolse l’animò e nol torrà, finchè si raggiunga la vittoria; la causa de’ popoli non trionfa che per le virtù dei martiri. Giovani, montate animosi su’ corpi de’ caduti per meglio salire la breccia: voi vincerete, e se di tanto ci basterà la vita, nella vostra vittoria ci consoleremo delle membra calpeste.».

Non altrimenti pensava il Sirtori – lo scarno asceta, che pur dissenziente da’ metodi di Mazzini, dopo il 6 febbraio dichiarava al Saffi –: «la sua gran fede lo assolve da ogni malsuccesso. Egli crede ed ama come un santo. L’Italia deve alla sua costanza la coscienza di sè medesima e finirà col vincere.»

Il capitano De Cristoforis – il teorico della guerra – alla vigilia del ’59 fu udito esclamare: «noi vediamo oggi le conseguenze anche del 6 febbraio.».

L’eroico ufficiale caduto a San Fermo abbracciava forse allora con rapida sintesi tutto quel complesso di azioni e reazioni – la cui risultante fu la redenzione nazionale – e dal cui esame spassionato può soltanto desumersi la parte che va fatta all’ascendente di Mazzini. Un ascendente incontrastabile e duraturo, pure tra le ecclissi frequenti e le grandi oscillazioni della sua popolarità. Volenti o no, e per maggiore o minor tempo, sotto il fascino di Mazzini furono pressochè tutti gli uomini più cospicui della generazione a cui i fati assegnarono il còmpito del risorgimento italiano – a cominciar da Gioberti, che esordì come Demofilo nella Giovane Italia, e nel Primato travestì a suo modo, con paramenti neo-guelfi, il concetto titanico mazziniano sulla missione della terza Italia.

Gioberti e quant’altri concorsero ad abbattere la dittatura mazziniana – contro cui s’inveì spesso con poca giustizia e minor generosità mentre se ne usufruivano i risultati – non avvertivano che dopo tutto la loro stessa condotta era subordinata, per correlazione imprescindibile, e per ragion di contrasto, alle iniziative rimorchiatrici dell’agitatore. Potevano considerarlo in certi momenti una quantità trascurabile – un generale senza soldati –; ma un rivolgimento impensato d’eventi lo riportava in auge; la sua parola, i suoi scritti ritrovavano le note vie del cuore degli italiani, e quella spada di fuoco incalzava alle reni chi avrebbe amato sostare, o adagiarsi in soluzioni provvisorie, assaporando i frutti dell’antica politica piemontese del «carciofo».

Così è che la storia potrà pronunciarsi, con perfetta equità, sugli utili effetti della propaganda mazziniana, sol quando abbia dinanzi a sè tutti gli elementi di quelle influenze morali, spesso inafferrabili per una misurazione precisa, ma non perciò meno reali e meno degne di studio.

L’unificazione d’Italia non era – sicuramente – possibile senza l’ardire cavalleresco di casa Savoja, senza il genio diplomatico di Cavour, senza il brando fiammeggiante di Garibaldi: come senza ruotaie, senza vagoni, senza macchinisti non può pensarsi servizio ferroviario. Ma tutti i miracoli delle vertiginose comunicazioni moderne si riducono in ultima analisi al compresso vapore: e non altrimenti può dirsi pel prodigio dell’unità nazionale che Mazzini rappresentasse quella forza motrice – tenue, impalpabile – e pur tale da far scoppiare la caldaia, senza il freno sapiente di governi affaccendati a contenerla e dirigerla.

Quali furono i rapporti diretti e indiretti di Mazzini con Napoleone III, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, Garibaldi?

I dati scarseggiano per ora: questo solo sappiamo con certezza che Luigi Bonaparte mandava nel 1832 articoli da inserire nella Giovane Italia: articoli, di cui all’imperatore, sfolgorante in soglio, sarebbe riuscito increscioso il ricordo, dacchè miravano a scuotere le basi della disciplina militare! Le postille di Mazzini, i suoi suggerimenti di correzioni e modificazioni al «commendevolissimo scritto» possono leggersi nelle Memorie del La Cecilia, ove son pure naufragate le elucubrazioini di Luigi Bonaparte su tutto un piano di insurrezione italiana, co’ quadri completi per l’organizzazione delle truppe rivoluzionarie. L’abito di cospiratore che neppure la clamide imperiale potè far svestire a Napoleone III non è forse la indelebile traccia dell’influenza della Giovane Italia, e non provenne di là (sia pure con metodi indipendenti ed ostili al maestro repubblicano) la salute d’Italia?

Nel 1834 allorchè stendeva que’ progetti, Luigi Bonaparte non era che un oscuro pretendente che inseguiva tra le brume dell’esiglio lontani sogni di grandezza; ma Carlo Alberto in quel tempo istesso moveva i suoi primi passi di regnante sotto influssi nefasti.... e non meno del futuro Napoleone III un’arcana malìa forzava il suo pensiero indeciso a fermarsi su quel suddito temerario, che gli indirizzava d’oltre Alpi la parola dell’uomo libero. Sire, sbrattate l’Italia da’ barbari «e vivrete eterno. Prendete quella corona, essa è vostra, purchè vogliate.» Tra gli interni combattimenti che travagliarono l’italo Amleto, noi non sappiamo qual peso avesse il ricordo incancellabile di quella fatidica apostrofe: ma nel ’48 l’esule ebbe inviti officiosi ad accordi, da parte di un segretario del Re.

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Mancò allora in Mazzini l’abnegazione magnanima di stendere un oblio sul passato, deporre le antiche diffidenze contro Carlo Alberto, rinunziare ai suoi ideali repubblicani sull’altare della patria?

È questione che non può lealmente esser risolta, senza tener presenti le prevenzioni indomabili suscitate dal carattere ondeggiante di Carlo Alberto – non ancora santificato dal sacrificio eroico di Novara ed Oporto –; e senza esaminare le condizioni offensive, imposte dall’amnistia reale agli esuli che rimpatriavano. – Quelle condizioni avevano sdegnato Giovanni Ruffini, benchè già convertito toto corde alla monarchia; e nel dolersene col fratello Agostino, aveva esclamato amaramente: «in fondo in fondo ci si vuole disonorare, mettendoci in contraddizione co’ nostri antecedenti. Le questioni di dignità sono d’una natura così intima, così delicata, dipendon tanto dal modo di sentire individuale, che il migliore, anzi il solo giudice ne è la coscienza. La mia ripugna invincibilmente all’atto richiestomi nè alla mia coscienza voglio o posso mentire.... Ciò che può essere scusabile in altri non lo è per noi: certe concessioni da parte nostra potrebbero parere e sarebbero profanazione, rinnegamento d’un solenne passato.... Siam vecchi omai: i pochi dì che ci restano valgono la pena che li consoliamo a prezzo della nostra dignità?»

Se così pensava e sentiva il mite, ormai disilluso Ruffini, ognuno intende la ribellione di Mazzini, che aveva doveri maggiori verso sè stesso, le sue idee, il suo partito. Gli uomini onesti condannati per causa politica non si piegano ad umiliazioni; meno che mai, nel momento in cui veggono la loro propaganda coronata dalla vittoria, le loro utopie sanzionate da’ fatti, applaudite da’ nemici ed irrisori di ieri. Molto acutamente perciò un modesto ma imparziale osservatore – il libraio Doria – in una importante lettera sull’ambiente politico genovese del ’48 ravvisava la prima malorum causa in quella fatale condizione dell’anmistia. «Se Mazzini rientrava liberamente (son sue testuali parole) Carlo Alberto poteva contare sulla sua onestà, ed il mezzo di intendersi sarebbe stato trovato.... Mazzini non appartiene a società repubblicane di Milano, checchè ne narrino falsamente i giornali..... Mazzini presentato una volta ad una di queste non disapprovò que’ principî ma li tacciò d’inopportuni, per cui si ebbe da quei forse troppo caldi giovani l’epiteto di Carlo albertiano.... Mazzini alla Camera era tale potenza da far sì che lo statuto da rifondersi affatto divenisse proprio il palladio dell’unità e della nazionalità italiana, come della sicurezza e grandezza di casa Savoia.».

Il buon Doria correva troppo con la fantasia e col desiderio: ma in gran parte s’accordava con lui anche Giovanni Ruffini, che deplorava vivamente l’esclusione di Mazzini dal primo Parlamento Subalpino. Sarà (notava con ovvio accorgimento politico) «molto più pericoloso al di fuori che dentro. Al contatto della realtà rinsavirebbe.»

Mancò dunque nel ’48 ne’ consiglieri della Corona tanto lo scettico machiavellismo del Ruffini, che voleva metter l’agitatore alle prese co’ fatti, quanto la generosa spontaneità invocata dal Doria di porre una pietra sul passato, per riunire – senza abdicazioni indecorose – gli uomini e le forze contro lo straniero.

Quel gretto dispregio delle più sane energie popolari, che fece rifiutare allora l’offerta di Garibaldi presentatosi come soldato dell’indipendenza al quartiere generale di Roverbella, induceva i circoli officiali a ripetere l’eterno vade retro Satana, per Mazzini, anche quando l’Italia de’ suoi sogni s’affermava prepotente nella realtà.

Vittorio Emanuele – con quella finezza politica, che spiegò sopratutto nel sottrarre Garibaldi al fascino del maestro della Giovane Italia – si sciolse arditamente da meschine pastoie nel ’63-64, annodando segrete trattative con Mazzini: e nelle sue note autografe pubblicate dal Diamilla Muller splende tutta la fierezza del Sovrano e la lealtà del soldato. Egli non dissimulò mai l’impressione profonda destata nell’animo suo dagli scritti del genovese; nè la stima che gli ispirava quel carattere tutto d’un pezzo; fa ricordare a Mazzini nel febbraio 1864 «d’essergli stato benevolo in varie occasioni» a lui ignote, non averlo tormentato a Napoli nel ’60 ed esserne stato mal corrisposto in manifestazioni pubbliche e private.

Disposto ad accordi con Mazzini per affrettare la liberazione del Veneto, dichiara «aver comuni con lui lo slancio e il desiderio di fare. Giudico la cosa da me, e con la massima energia e non con timide impressioni altrui. Ma sappia la persona che gravi sono i momenti, che bisogna ponderarli con mente calma e cuore ardente, che io e noi tutti vogliamo e dobbiam compiere nel più breve spazio di tempo la grand’opra: ma guai a noi tutti se non sappiamo ben farlo, o se abbandonandoci ad impetuose intempestive frenesie venissimo a tale sciagura da ripiombare la patria nostra nelle antiche sventure. Il momento non è ancora maturo: fra breve spero Dio aiuterà la patria nostra.» (Politica segreta, p. 53.)

La franca e virile attitudine del Re, se non piegò Mazzini, fu da lui ricambiata con pari lealtà: onde s’oppose recisamente alle suggestioni di chi avrebbe voluto render pubbliche quelle clandestine trattative, condotte a insaputa de’ ministri.

La rivelazione avrebbe compromesso il Monarca, e sarebbe ridondata a vantaggio del partito repubblicano; ma da Londra, 16 febbraio, Mazzini risponde recisamente: «No, non autorizzo la pubblicazione. Il mio scopo non è di far vedere ciò che io voglio, o ciò di che mi credo in dovere per l’unità del paese. Il mio scopo è Venezia. A questo la pubblicazione non giova.» Ho forse bisogno di preparare l’opinione sul conto mio, come se io volessi diventare ministro? (Politica segreta, p. 47.)

Il libro di Diamilla Muller è appena una brevissima pagina di storia della occulta diplomazia mazziniana, che aveva pur essa i suoi ambasciatori, i suoi plenipotenziari (vedi nota L); ramificazioni ne’ circoli officiali, nel gabinetto di Ricasoli, nell’entourage di Napoleone III col tramite del dott. Conneau (medico personale del Sovrano), nella cancelleria di Bismarck – e mezzi d’informazioae reconditi ma spesso sicuri.

Il Muller afferma che il primo ad aver notizia degli accordi di Plombières e della convenzione di settembre fu Mazzini, «il quale (egli dice) a dispetto di tutte le polizie era pur sempre informato quanto i diplomatici più abili e forse meglio ancora.»

Ad avvertire, a protegger Mazzini si mossero, in date occasioni, patrocinî potenti: e un incidente caratteristico mi fu narrato dal venerando Senatore Carlo Guerrieri-Gonzaga.

Allorchè egli dimorava dal 1850 in poi esule in Svizzera, col fratello Anselmo, arrivavano in Ginevra giornalmente all’ex-ministro del governo provvisorio que’ bigliettini microscopici con cui Mazzini pur abitando nella stessa città impartiva istruzioni a’ suoi fidi. S’era allora dopo i fatti del 6 febbraio in uno de’ periodi più violenti della reazione europea, e la Svizzera non ardiva ribellarsi alle intimazioni delle potenze, che volevan limitato il diritto d’asilo. Si esigeva la testa di Mazzini e un brutto giorno il governo federale ne annunciò lo sfratto con manifesti affissi a tutte le cantonate. La stampa dava i particolari della partenza: ma i bigliettini microscopici su carta turchina continuavano come prima a giungere quotidianamente ad Anselmo Guerrieri, senza che apparisse alcun segno esterno di cambiamento di provenienza. – Mazzini è dunque tuttora in Isvizzera? chiedeva Carlo Guerrieri ad Anselmo. Sì, rispondeva l’altro in segreto: e sai dove? in casa del Presidente del Governo Cantonale, che ha controfirmato il decreto di sfratto su’ placards stampati. (Vedi nota M).

Costretto a capitolare dinanzi alla violenza, il governo elvetico aveva tenuto a dimostrare qual deferenza e fiducia meritasse il cospiratore italiano: e probabilmente la stessa egida protettrice Mazzini ebbe più volte da’ ministri liberali inglesi, che di lui si valsero per controbilanciare l’influenza napoleonica in Italia – combattere la candidatura Murat, la candidatura del Principe Napoleone.

*

Questi insperati soccorsi – il contatto con quanti esuli illustri (ungheresi, polacchi, russi) lottavano per conquistare una patria e la libertà – affinavano l’intuito profetico di Mazzini che tra le nebbie del futuro non vide solo disegnarsi il corso degli avvenimenti, ma potè anche discernere le maggiori forze e individualità destinate a creare l’Italia.

Chi pensava a Garibaldi nel ’46? Nessuno, tranne i pochi testimoni delle sue gesta in America. Eppure per divinar subito l’eroe popolare era bastato a Mazzini un fuggevole incontro a Marsiglia – quell’incontro che il Carducci ha eternato nello stupendo sonetto Ora e sempre.

Ora –: e la mano il giovane nizzardo
Biondo con sfavillanti occhi porgea,
E come su la preda un leopardo
Il suo pensiero a l’avvenir correa.

E sempre: – con la man fiso lo sguardo
L’austero genovese a lui rendea:
E su ’l tumulto eroico il gagliardo
Lume discese de l’eterna idea.

Ne l’aër d’alte visïon sereno
Suona il verbo di fede e si diffonde
Oltre i regni di morte e di fortuna....

Memore di quell’istante solenne, Mazzini nell’ottobre del 1846 scrive a Lamberti che bisogna adoperarsi a creare un nome a Garibaldi – bisogna diffondere la fama del suo valore, della sua magnanimità, additarlo come leader dell’indipendenza italiana, e del principio democratico. (Giuriati, p. 181.)

Nè gli attriti a Roma, del 1849 – nè irose parole sfuggite poi a Garibaldi e riferite compiacentemente da mettimale (come ve n’ha traccia nell’Epistolario Manin-Pallavicino) – nè i dissidi di metodo nel ’59 menomarono il vicendevole affetto, del quale furono espressione solenne i brindisi scambiati del ’64 a Londra in casa Herzen. (Vita della Mario, p. 427.) «Quando ero giovane e non avevo che aspirazioni, ho cercato un uomo che potesse consigliarmi, guidare i miei giovani anni – disse Garibaldi –: io lo cercai come l’uomo assetato cerca l’acqua. Quest’uomo l’ho trovato: egli solo ha conservato il fuoco sacro, solo vegliando quando tutti dormivano.» Parole che un grande poeta ha tradotto in versi sublimi:

Egli vide nel ciel crepuscolare
Co ’l cuor di Gracco ed il pensier di Dante

La terza Italia: e con le luci fise
A lei trasse per mezzo un cimitero
E un popol morto dietro a lui si mise.

Quella cordiale testimonianza di Garibaldi non comprendeva le sole ispirazioni prime della Giovane Italia, ma anche tutto il diretto e indiretto concorso di Mazzini alle iniziative del duce popolare. Nel grido lanciato da Mazzini del ’60 «al Sud», «alla Sicilia» stava il germe fecondo dell’impresa leggendaria, per la quale il maestro aveva rimesso senza riserva all’uomo d’azione i frutti de’ preparativi già fatti da’ suoi Comitati di Genova e Londra.

Da Crispi a Finzi, da Bixio ad Acerbi, da Antonio Mosto sino all’ultimo dei carabinieri genovesi, i cooperatori della spedizione eran tutti stati nutriti del midollo mazziniano: e coll’audacia delle iniziative, con il talento di amministratori, con il valore di condottieri, con l’infallibilità di tiratori, avrebbero finalmente compiuto la riscossa della Giovane Italia; tradotto in azione il canto del poeta: «si scopron le tombe, si levano i morti – . i martiri nostri son tutti risorti.»

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Il verso di Mercantini non era che l’eco della predicazione di Mazzini: primo a presagire dal 1831 quali forze avrebbe aiutato a schierare in campo il martirologio italiano; primo ad intuire quali tesori di entusiasmo abbia Dio prodigato alla giovinezza e qual serbatoio di vergini energie ella sia.

Se attorno a lui strisciaron de’ vili per tradirlo, quale legione d’altro canto di poeti, di martiri, d’eroi, evocata dai suoi squilli d’araldo si gloria di fargli corona!

Ecco Iacopo Ruffini, il primo assertore della fede della Giovane Italia, la cui immagine lo conforta e lo solleva nelle ore tempestose del dubbio. Quando o in un accesso di disperazione morale, di una convulsione interna – come n’aveva spesso – o in un accesso di misantropia, si sentiva scender dentro un po’ di forza, un pensiero di bontà, di virtù, di sacrificio, in onta alla ingratitudine o alla noncuranza degli uomini, Mazzini non dubitava che quella ispirazione gli venisse dall’anima del suo Iacopo, e riprendeva animoso la croce. (Giuriati, pagina 7.)

Ecco i Bandiera, che vanno a morte dopo averlo benedetto «pel gran bene che alla patria ha fatto. Alla vigilia de’ rischi (gli dichiara Emilio) io proclamo altamente che ogni italiano vi deve gratitudine e venerazione. I nostri principî sono i vostri e ne vado fiero, ed in patria coll’armi in mano griderò quello che voi da tanto tempo gridate. Addio, addio: poveri di tutto, eleggiamo voi nostro esecutore testamentario per non perire nella memoria dei concittadini.»

Ecco Goffredo Mameli, il figlio spirituale di Mazzini, l’incarnazione vibrante di tutta la poesia della Giovane Italia, che gli muore a fianco per illuminare d’un ultimo raggio la caduta di Roma repubblicana: muore, conversando, col suo maestro, come un greco antico, sull’anima immortale. (Vedi nota N).

Ecco Gabriele Camozzi, che accetta da Mazzini l’incarico di esploratore politico: e lo compie, travestito da muratore, con quel dispregio della vita e degli averi, che farà volare poco di poi, a difesa di Brescia, il bergamasco patrizio, capo d’una legione organizzata e stipendiata da lui....

Quel grande dominatore d’anime aveva in ogni classe sociale, in ogni città d’Italia i suoi eletti: ed è sospinti dal suo afflato di Ezechiello che i Martiri di Belfiore, Pisacane, e Rosolino Pilo sfolgorano lo straniero e i Borboni, ripetendo l’exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor.

Oh come il sacrificio di quelle magnanime vite straziava Mazzini sino a dargli incubi e allucinazioni spaventose per la sua ragione; e quanto lo calunniavano i denigratori che misconoscendo la sua bontà gli imputavano un crudele egoismo di dittatore, prodigo dell’altrui sangue, e indifferente alle rovine da lui cagionate. Era questa l’accusa che più addolorava Mazzini; in quei momenti l’amaro della vita gli si risollevava dal fondo, dov’ei lo concentrava con ferrea volontà, e gli inondava le vene. (Saffi, p. 64.)

Dopo la spedizione della Savoia fu sull’orlo della pazzia; «guardavo me stesso – palesava più tardi all’amico Benza, – con quella specie di terrore, con che si guarda un colpevole, e mi pareva che Iacopo (Ruffini) sorgesse dal sepolcro a maledirmi, e che la madre sua mi gridasse di renderglielo, e altre madri con essa, e il rimorso mi consigliava ad uccidermi e poi sentivo che io morrei con un rimorso di più. Dio ti guardi, mio amico, da siffatti momenti. Io li provai in Isvizzera in mezzo alle nevi, in una solitudine quasi assoluta, nella stanzuccia d’un convitto, dove il vento urlava misto (mi pareva) di voci de’ più cari, e non potei mai raccontarli, e non li ho mai detti ad alcuno e tu non parlarne con alcuno perchè un debole se ne atterrirebbe. Io ho vinto, e la madre di Iacopo e un’altra donna sincera che io non ho amato ma stimato molto e che oggi è morta, senza sapere lo stato mio m’hanno aiutato a vincere con le loro parole. So che abbiamo tutti fatto il nostro dovere, so che a me fra gli altri ne avanzano ancora e li compirò.» (Cagnacci, p. 160; e Scritti, V. 208.)

Que’ momenti terribili del ’34 Mazzini li rivisse dopo i fatti del 6 febbraio 1853; ed è bello rileggere quanto allora al Saffi scriveva, (pag. 73) per pregarlo di assistere in Londra sette od otto popolani milanesi fuggiaschi. Le loro lettere, imploranti soccorso, gli erano «coltellate». Potessi – esclama – «far moneta del sangue», lo farei per aiutarli. «Vorrei soccorrere l’universo, ma come ho da fare?» Ho appena 80 sterline di rendita: e cerco di aiutare quei che si trovano in Isvizzera. Affido a te, caro Aurelio, il lavoro che farei io se fossi in Londra. «Aiutar quegli uomini è dovere, è opera fraterna, è opera politica pure: son popolani e parleranno un giorno al popolo d’aver trovata ne’ fatti la fratellanza che ad essi s’insegnava a parole.» Tale, l’agitatore, «insensibile seminatore di lutti!». Pur essendo povero e gravato di debiti, Mazzini s’impegnava allora per mille lire con una cambiale ai locandieri, che avevan dato da mangiare agli emigrati! Un operaio italiano del Ticino, certo Benzoni – cresciuto alla scuola italiana di Londra, – fu così commosso nell’incontrare un vecchio che andava ad impegnare degli oggetti di Mazzini, che mandò cinque lire sterline al capo della Giovane Italia, pregando volesse accoglierle in dono. E Mazzini le accettò come prestito (Dall’Ongaro, pp. 301, 306.)

D’Azeglio, Lamarmora ebbero aspre parole per Mazzini, quasi tacciandolo di pusillità nel non pagar di persona ne’ tentativi promossi o appoggiati da lui: e chiamandolo ingeneroso per le imprudenze che talvolta esponevano a grave rischio i suoi amici d’Italia. Que’ due Baiardi sarebbero stati più riguardosi se avessero appreso (p. e. dal carteggio del Mayer) che molte imprudenze ascritte a Mazzini erano imputabili a’ suoi seguaci, a’ quali il maestro aveva invano inculcato d’imporsi delicato riserbo e non danneggiare inutilmente i patrioti d’Italia. (Linaker, I, 326)

Ignoravano poi che un bisogno «insistente, tormentoso» avrebbe trascinato Mazzini ad imitare i Bandiera, se non l’avesse rattenuto il timore di nuocere alla causa, che si sarebbe creduta «disperata» quando lo stesso alfiere si fosse gettato allo sbaraglio. Gli pareva un egoismo il morire con la aureola d’un breve martirio, per sottrarsi a’ doveri speciali di capo partito che incombevano su tutta la sua vita. (Giuriati, p. 87.)

Ma questa concessione penosa alla sua posizione di duce non attenuava per nulla i rischi che affrontò e a cui seppe sfuggire per la sola freddezza del suo coraggio.

Come derideva la polizia internazionale, non curava i soldati di Radetzky. Nell’avvicinarsi a Milano pei fatti del 6 febbraio, viaggiò «con 12 tirolesi armati delle loro carabine sullo stesso cammin di ferro.» (Saffi, 60.) Caduta Roma nel ’49, aveva vagolato come demente tra le rovine senza mai preoccuparsi nè delle vendette de’ francesi nè de’ possibili assalti di que’ sanfedisti che incutevano «passabilmente paura» all’Armellini.

A Londra (ne vidi la prova in bellissime lettere inedite possedute da Alfredo Comandini) sicari prezzolati minacciarono nel ’53 la vita di Mazzini; il quale pressato a stare in guardia, ad accettare la scorta di vigili amici, risponde incurante: – quella gente è senza coraggio, «ed io ne ho». Ho di più l’assoluta certezza di non dover morire che in Italia! Lasciatemi andar tranquillo per la mia via!

Nella corrispondenza con gli amici è frequente l’invocazione di Mazzini a una bella morte sul finire di una battaglia fortunata.

«Quando giungerà Garibaldi – dice nel ’48 al Lamberti – ho fermo con lui d’andar a qualche colpo disperato sul Veneto. Se n’esco, data prova di non curar la vita, tornerò a scrivere.» (Giuriati, p. 293.)

Tra le file appunto di Garibaldi, all’indomani dell’entrata di Radetzky a Milano, comparve Mazzini. Un venerando superstite di quei giovani prodi – il Senatore Carlo Guerrieri – me ne ha tracciato un ricordo de’ più vivi e pittoreschi.

«Nella compagnia Medici non erano pochi i giovani, allora ignoti, che furono poi chiari nelle arti, nelle lettere, nelle scienze, nella politica. Tra gli altri ricordo i fratelli Induno, il De Albertis, il Visconti-Venosta, il Brioschi. La nostra compagnia stava schierata in battaglia, allo sbocco delle contrade di Monza verso i viali che conducono alla Villa e al Parco Reale. Fra tanti armati era venuto Giuseppe Mazzini: a lui era mosso incontro Giacomo Medici col reverente affetto quasi di figliuolo a padre, esortandolo a ritrarsi, egli debole e disadatto alle armi. Ma il Mazzini con la sua piccola carabina inglese volle prender posto tra noi in prima fila. Lo si vide così con quell’arma impugnata e stretta al fianco starsi rigido ne’ ranghi. Sulla gracile e composta persona del Mazzini, vestito del solito suo abito nero abbottonato, spiccava quel volto pallido, dai tratti fini ma ben scolpiti, con occhi fervidissimi e fronte alta ombreggiata da capelli grigi. Emilio Visconti-Venosta si mosse da’ ranghi e nella canna della carabina del maestro infisse una piccola bandiera tricolore.

«Alla trepidazione di quei momenti la presenza del Mazzini aggiunse un tumulto di pensieri e di sentimenti e diede una solennità storica che non ho mai scordata.»

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Pure le prevenzioni che Mazzini mancasse di valor personale – che col suo smisurato orgoglio pregiudicasse la causa italiana – presero (sopratutto per le ingenerose catilinarie giobertiane nel Rinnovamento, libro I, capitolo XI) radice siffatta dopo il ’60, che a Napoli, ov’egli apparve durante la dittatura garibaldina, si scatenò un’insensata dimostrazione di plebe vociante: viva l’unità d’Italia, abbasso Mazzini. A Bandi e Nicotera, che gli erano al fianco, Mazzini esclamò con dolore: «sentite, eh! viva l’unità d’Italia e morte a me! a me che per aver sognato per il primo l’Italia una, fui gridato pazzo.»

Commossi alle lacrime, i circostanti impugnano le pistole per caricar la canaglia: ma li rattiene Mazzini col dire: «no, non voglio, non soffrirò mai che una goccia di sangue si versi per cagion mia. Giù le armi, figliuoli, giù le armi.»

Qualche giorno dopo è lo stesso Bandi che si volge a Mazzini per fargli risolvere un caso di coscienza. Un volontario non voleva restar con Garibaldi sotto la bandiera «Italia e Vittorio Emanuele»: e Mazzini è chiamato ad arbitro supremo. Con la sua voce amorevole dice al riottoso: «ha ragione Bandi; andate con lui e combattete insieme co’ vostri amici; quando si hanno a fronte i soldati borbonici si debbono combattere, senza guardare la bandiera che sventola sul nostro capo». (I Mille, pp. 318, 320.)

Per chi ben guardi – pur tra gli errori inevitabili di Mazzini per le sue ingiuste e pertinaci prevenzioni contro la Monarchia, contro Cavour, contro Napoleone III – non mancarono mai nella sua vita questi tratti di magnanimo disinteresse politico: e le questioni di forma sottopose sempre a quelle di sostanza, vitali per la patria.

È perciò doloroso che la nuova Italia, verso il grande assertore della sua unità, si mostrasse non meno inospite del vecchio Piemonte. Le parole di Mazzini: «se una voce generosa si alzerà, me vivo, dal popolo d’Italia sarò di certo senza indugio fra quei che l’avranno alzata; ma non accetto oblio, grazia, perdono per 35 anni di lavoro a prò dell’unità della patria. Per questa via non si rientra in patria – diceva Dante. Non sono Dante, ma ho un dovere pel mio milionesimo, verso il padre degli esuli. E morrò esule.» (Scritti, XV, p. CXXXIV.)

Quelle solenni parole, pronunciate nel ’70 a Gaeta, suonano amara e legittima rampogna alla nazione che aspettò la morte dell’agitatore per decretargli apoteosi e monumenti ed officiali edizioni de’ suoi scritti.

Le condanne provocate da Mazzini, la sua ferrea intransigenza non valgono a scusare l’ostracismo: i servigi resi all’idea nazionale annullavano le prime, un’alta morale politica avrebbe dovuto inchinarsi all’altra. Felix culpa invero quell’intransigente coerenza, ove si pensi alla scettica versatilità, introdottasi poi lentamente ne’ nostri costumi, sino a ridurre la vita pubblica un ballo mascherato, e far de’ programmi politici un attaccapanni o un passaporto per tutte le ambizioni.

Se anche esorbitante nella sua alterezza irriducibile, l’intransigenza di Mazzini scaturiva (tutti i suoi difetti furono un eccesso delle sue doti) da motivi etici, meritevoli del più sincero rispetto. La santità del giuramento costituiva a’ suoi occhi un vincolo religioso, non soltanto un impegno d’onore: egli avrebbe inorridito al sentire che lo si considerasse come una formalità vuota di senso e violabile a libito. L’accettazione dell’amnistia implicava rinunzia al proseguimento della propaganda: e Mazzini nella sua lealtà nè avrebbe voluto esser ingrato anche a un Re, nè si sarebbe mai piegato alla massima machiavellica di sfruttare la Monarchia per meglio rovesciarla. Perocchè egli aveva della probità politica il concetto più rigido: e nello stato di guerra in cui si trovava con i governi, non si credeva mai permessa l’arma dell’inganno, o il mendicarne favori in sembianza d’amico. Una volta chiede a Giorgina Saffi di cercare un biglietto gratuito di viaggio per un povero diavolo: e la gentildonna risponde d’aver incontrato un rifiuto, dall’ambasciatore a cui s’era rivolta, dacchè questi sospettava che il favorito fosse un emissario mazziniano. Date pure a mio nome – risponde alteramente Mazzini – (pag. 78) la parola d’onore che il beneficando è un bisognoso di lavoro, estraneo alla politica. I miei emissari me li pago da me; e lascia sottintendere: «nulla chiederei a nemici che intendo combattere.»

Con ciò non si deve però credere che Mazzini fosse assolutamente avverso ad un’attiva partecipazione de’ suoi fedeli alle lotte parlamentari: tutt’altro. La linea, anzi, di condotta che loro consigliava era semplice e netta.

«Venticinque o trenta membri, i quali riescano a parlare come un uomo solo possono costituire un elemento importante in faccia al paese, che registrerà i nomi e dirà: là stanno gli uomini del nostro avvenire.» Dovete dunque concentrare l’azione in due o tre atti collettivi solenni; ma «non è nel partito nostro virtù d’iniziativa nè di disciplina. Ciascuno armeggia da per sè, con interpellazioni individuali, con discorsucci e proposte» indifferenti e sterili. (Saffi, pp. 265, 281.)

Senonchè egli era poco ascoltato e meno obbedito: e l’abbandono de’ migliori lo addolorava maggiormente in quanto alla sua finezza aristocratica di intelletto e d’animo ripugnavano le abitudini declamatrici e violente trapiantate fra noi del giacobinismo francese. Ne’ gregari vedeva con rammarico che il suo pensiero rimaneva infecondo: che in loro, come suole negli imitatori, certe esteriorità appariscenti, certe vane enfasi verbali facessero maggior presa del succo vitale delle sue dottrine, incomprese da chi più forte se ne gridava banditore o seguace.

Ritrarsi dall’arena in una solitudine, e tentar di scrivere uno o due libri prima di morire era ormai l’unica aspirazione dello stanco atleta, attediato dalle declamazioni de’ suoi. «Fuggo – confessa al Varè – fuggo a un contatto col partito che oltre al togliermi tempo e lena mi farebbe diventare misantropo» più di quel che già ero. (Giuriati, p. 319.)

Perciò gli giunse più doloroso che anche Giorgina Saffi – confidente de’ suoi pensieri – celiasse un po’ nell’ottobre 1870 sul rifiuto dell’amnistia: non comprendesse che, deformato l’ideale della sua vita, l’unico bisogno dell’animo suo era di sottrarsi a dimostrazioni banali – riveder la sepoltura della madre, e ripartire per Londra. Il solo irrompere della gente per salutarlo alla partenza gli aveva dato i dolori ed il vomito. «Addio, Nina, tornate all’antico intelletto di me; lasciate che passi questa nerissima nube che mi fascia l’anima, non mi fate epigrammi» (pag. 303).

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Non si possono narrare senza emozione gli ultimi istanti di Mazzini. Col suo sentimento idilliaco della natura, aveva sete d’alberi, di cielo, d’un po’ di libertà solitaria; ed era invece confinato a Pisa, in una solita stanzetta, ove pochi amici andavano a trovarlo, o partecipi del segreto, o chiamati da lui come il Mayer, a cui – nella sua scrupolosa delicatezza in fatto di denaro – voleva, prima di morire, saldare un vecchio debito. (V. nota Q). Il medico che lo curava lo credeva un inglese: ma non tardò ad accorgersi di aver dinanzi a sè persona superiore al comune degli uomini per altezza di mente e nobiltà di sentire.

Udendolo parlare il più puro italiano, glie ne espresse la sua meraviglia: e Mazzini «pacifico per solito e con fisonomia abitualmente atteggiata a dolcezza, rispondeva subito con parola concitata e una fiamma nel volto – ma io sono italiano, amai infinitamente la mia patria, e credo avere operato qualche cosa per lei.»

La breve agitazione si calmò: Mazzini riprese la naturale dolcezza di modi e di parole; ma poscia si tacque, quasi «chiudendo in sè l’ambascia d’esser straniero in patria.» (Vita di Saffi.)

Il dolore cocente, che conturbava la sua agonia, lo aveva espresso ad amici scrivendo essergli impossibile la felicità quando la redenzione d’Italia invece che il ridestarsi d’un grande e virtuoso popolo pareva «il sorgere di un numero di raggiratori materialisti e prosaici adoratori di sè stessi, anzichè dell’avvenire nazionale. L’Italia la grande, la bella, la morale Italia dell’anima mia non è in questo misto d’opportunisti, di piccoli Machiavelli.... ho creduto evocar l’anima dell’Italia, e non mi vedo innanzi che il cadavere.» (Scritti, XV, p. CXXXIV.)

La presaga sua mente, nella chiaroveggenza della morte, s’affannava de’ pericoli che prima o poi sarebbero scaturiti dalla questione sociale – dalla trascuranza di amorose sollecitudini per le classi diseredate, alle quali egli aveva sempre pensato con ardore di carità francescana.

Per gli operai, pe’ fanciulli gettati da ingordi speculatori sul selciato di Londra aveva sentito Mazzini la più intensa pietà: raccolse nella sua povera casa una giovanetta trovata sotto un portico, esausta di freddo e di fame; la allevò, la maritò, abbandonata di nuovo con de’ figliuoli da un marito brutale la sorresse ancora, destinandole buona parte della sua magra pensione vitalizia. Una stampa invereconda trasformò quella protetta in ganza e un’ignobile polizia ne ordinò un tempo l’arresto.

Sacrificî incessanti fece Mazzini per la scuola italiana di Londra: dacchè era l’elevazione del popolo, a cui sopratutto mirava – e quasi ogni domenica per due anni parlò, ai suoi allievi commossi, di storia patria e di astronomia elementare, «studio (diceva) altamente religioso e purificatore dell’anima, che tradotto popolarmente ne’ suoi risultati generali dovrebbe essere tra’ primi nell’insegnamento.» (Scritti, VI, 95.)

Le premiazioni a questa scuola si tramutavano in solennità commoventi. «A me stesso che da molto non piango – scriveva Mazzini nel novembre 1842 alla «donna gentile» del Foscolo – vennero le lacrime in sugli occhi nel vedere un ragazzetto di dodici anni e suo padre di quasi 60 anni presentarsi arrossendo ambedue a ricevere i premi: su tutti que’ visi rozzi e abbrutiti dall’ignoranza e dall’isolamento sociale balenava un lampo di natura umana e italiana, nel trovarsi per la prima volta rialzati in faccia a sè stessi e circondati di cure e di servigi amorevoli da quei che chiamano i Signori.» (Linaker, I. 322.)

Ah – soggiungeva amaramente in altra lettera al Mayer – «molti mi trattano come una specie di Omar Italiano e barbaro, quando io coll’insegnare qui come meglio posso a leggere e a scrivere ai nostri italiani che vengono qui a disonorarci coll’ignoranza e le coltellate, dimostro precisamente il contrario.»

E lo dimostrò sempre, non parlando al popolo di diritti da rivendicare, senza il correttivo di corrispondenti doveri da adempiere – cercando di sradicare nelle masse ogni impulso di arrogante sopraffazione – di opporre un argine morale così alla prepotenza individuale plebea come alla cieca brutalità della folla che schiaccia col numero.

Da qualche momentaneo e innocuo sfogo dell’antica retorica tirannicida non andò immune Mazzini (V. nota P): ma sarebbe calunnioso ripetere che abbia mai sostenuto o tollerato la perversa teorica del pugnale; e interprete degno del maestro, Aurelio Saffi ammansò spesso con la sua pacata parola di gentiluomo le fiere passioni romagnole, facendo instancabile propaganda contro le violenze sanguinarie.

Che impeti d’indignazione sincera ha Mazzini contro l’uso del coltello, così frequente allora com’oggi tra’ nostri operai all’estero, con detrimento del nome italiano! «È orribile – scrive nel 1831 al Giglioli da Marsiglia all’annunzio d’un delitto di sangue – è orribile, e produrrà un senso di avversione e di disprezzo per tutti gli italiani in Europa.... Riunitevi, fate una protesta, infamate e rinnegate que’ pochi perversi indegni di voi... Dobbiamo, come Dante in esilio, dar lo spettacolo di un’alta sciagura sopportata con alta dignità.» (Epistolario, I. p. XLVII.) Cospiratore, vietò che alle spie scoperte fosse torto un capello: triumviro, spiegò la più severa energia contro gli accoltellatori d’Ancona e avrebbe, senza l’occupazione francese, abbandonato al braccio della giustizia lo scherano Zambianchi. Lo storico clericale Spada gli dà lode incondizionata per essersi opposto agli esaltati, che avrebbero in Roma voluto «organizzare il terrore».(V. nota Q). L’entusiasmo per la rivoluzione francese e pe’ suoi fasti sanguinosi era uno de’ credi della democrazia: Mazzini lo respinse con ribrezzo – abominava Robespierre e si dolse col Saffi che de’ francesi avessero introdotto in un manifesto del Comitato insurrezionale europeo quel nome esecrando, che guastava tutto. (p. 16.)

Nella famosa lettera dell’8 settembre 1847 a Pio IX s’era profferto a «morire tra’ primi, per impedire gli eccessi e le vendette» d’una insurrezione popolare (Scritti, VI. 157.) ed è perciò che con una fulminea ribellione del suo animo onesto, nel 1871, combattè la Comune – volendo vera libertà, non dispotismo di schiavi scatenati; vera eguaglianza civile, non cieche compressioni livellatrici.

Scosso dal romoroso risveglio delle plebi dopo il 1830, egli s’era forse primo in Italia rivolto a considerare l’operaio, a propugnarne l’emancipazione, specialmente con lo sviluppo della cooperazione, dalle esorbitanze del capitale, a proclamare il bisogno e il dovere sociale dell’assistenza ai lavoratori nell’infermità e nella vecchiaia.

Ma il porro unum et necessarium era per Mazzini educare il popolo, non adularlo nè blandirne le passioni. Le scuole che non si fondano se non sui diritti o peggio sugli interessi non condurranno (ei ripeteva) se non all’anarchia, all’egoismo, all’arbitrio, alla servitù. (Vedi nota R).

I problemi sociali non debbono ridursi a problemi di cucina: e degradano il popolo gli agitatori che si occupano solo del suo ventre.

Alle parole conformava la vita: ne’ pochi casi in cui gli fu concesso di aver un domestico, ei teneva a sanzionare col fatto la sua teoria sull’abolizione della domesticità. Questa (scriveva sin dal 1835) deve sparire: «deve diventare una prestazione d’uffici con retribuzione, un contratto su basi uguali, come tutti gli altri contratti, non deve avere con sè alcuna traccia d’avvilimento. Quando volete far migliore un uomo, emancipatelo, fate ch’ei sia vostro eguale, rilevatelo, dategli una coscienza di sè. Al di là dell’esecuzione del contratto, i domestici han da avere educazione d’uomini e fratellanza d’uomini. Siccome tutto ciò che è per noi di fede, diventa anche pratica, io e la cugina che vive meco abbiam fatto sempre sparire ogni traccia di padronanza. Io ho sempre detto – vorrei la tal cosa, come lo direi ad un amico, ad un collaboratore.» (Epistolario, II, 163.)

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La corrispondenza perfetta tra le opinioni e gli atti non era una coerenza artificiale calcolata ad pompam, ma rampollava in Mazzini dalla religiosità che pervadeva tutto l’esser suo con esaltazioni di mistico. La vita è per lui una missione: l’uomo non deve temer d’altro, se non del giudizio di Dio, quand’ei gli chiederà: – cos’hai fatto dell’esistenza a prò delle mie creature? – Senza questa fede in Dio e nella sua legge, Mazzini dichiarava che non avrebbe potuto soffocare le idee di suicidio: e in ciò pure s’accordava col Bismarck che confessava a sua moglie: – senza Dio in verità non saprei perchè non avessi a gettar via la vita come una camicia sporca.

La propaganda ateistica veniva rintuzzata da Mazzini co’ più fieri sarcasmi. «Questo trambusto di nani (dice alla Saffi nel marzo 1870, p. 341) che s’atteggiano a Capanei e trovano partito meno pericoloso il far guerra a Dio che non al governo ricco di carabinieri e prigioni, passerà com’è passato dieci altre volte. Büchner e Moleschott cominciano a cadere in Germania: da qui a vent’anni non se ne parlerà più. Ciò non toglie che oggi questa insana reazione contro le cose eterne aggiunga uno strato di corruzione e d’anarchia ai tanti che già stanno sulla povera Italia.»

Ogni fede anche imperfetta e guasta da falsi dogmi confortava per Mazzini il guanciale di chi muore, e lo consacrava ben più che non possa «l’arida, scarna, tristissima menzogna di scienza che chiamano oggi libero pensiero.» (Giuriati, p. 319).

Indi il suo rispetto di triumviro alle pratiche esterne del culto cattolico: e il suo pio raccomandarsi alle preghiere di monache, che avevano invocato il suo patrocinio. Mons. Capecelatro nella vita di Suor Paola Frassinetti narra che a Roma, nel Conservatorio di S. Maria del Rifugio (minacciato di soppressione) viveva una concittadina ed amica d’infanzia di Mazzini, Suor Angela Costa. Alla supplica di lei a pro’ del convento, Mazzini rispondeva: «Cittadina, non tema di cosa alcuna e rassicuri le di lei sorelle..... le sono riconoscente di essersi Ella ricordata di me e di aver posto fiducia nel mio cuore. Preghi Dio pel paese e per gli uomini di buone intenzioni, come mi pare d’essere, e dica lo stesso alle sue e nostre sorelle.» (Donaver, p. 303.)

Questo deismo vaporoso, indeterminato di Mazzini ha suscitato la critica – per non dire le beffe – di molti acuti scrittori indugiatisi a dimostrarne l’assurdità e l’inconsistenza, senza riflettere che la religiosità profondamente e sinceramente sentita si traduce in forza morale: e che debolezza costitutiva del carattere italiano è precisamente quel nostro ondeggiare tra la superstizione bigotta, le abitudini scettiche all’esteriorità del culto, il paganesimo artistico, l’incredulità volgare e rumorosa (che a tempo e luogo finisce per rifugiarsi spaurita in chiesa), il machiavellismo politico, che considera la religione un instrumentum regni e fa del prete una specie di carabiniere spirituale.

A questo nazionale difetto di idealità religiose la forte e sincera fede di Mazzini in Dio può apportare un rimedio benefico. Leggendo quelle sue pagine improntate di così ardente misticismo, molti dovrebbero – al pari di Don Abbondio nel colloquio col cardinal Federico – sentirsi «sollevati in una regione sconosciuta, in un’aria che non hanno mai respirata»; e chi sa che anch’essi non facciano, per continuare la citazione dei Promessi Sposi «come lo stoppino umido e ammaccato di una candela che presentato alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla, ma alla fine s’accende e bene o male brucia.»

Attraverso l’involucro formale caduco della fraseologia mazziniana v’è un alto e sano idealismo, che resiste ad assalti beffardi di pedanti iconoclasti: e nella smania d’arrivare, ond’è affebbrata l’età nostra, nello smarrimento del dovere, nell’oscuramento delle idealità, quanto varrebbe a ritemprar l’anima nazionale l’austero richiamo di Mazzini a quella legge morale, «stampata dall’alto nel cuore dell’umanità, e cancellata la quale non può esistere altro criterio di verità che la cieca forza» e il sordido personale interesse!

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Senza frastuono di fuggevoli feste, nel raccoglimento pensoso e penoso dell’ora presente, ogni italiano dovrebbe – a degna onoranza di Mazzini – ripetere a sè stesso que’ solenni ammonimenti: rileggere gli scritti di Lui, che sono, tramezzo a’ detriti dell’improvvisazione, miniera di grandi, originali pensieri; cercare le lettere sue, da cui zampillano così limpide e fresche onde di poesia e di sentimento – da cui si diffonde un incanto di soave umanità, di pretta gentilezza italiana.

Con le schiette confessioni alla madre, agli amici, Mazzini ha dato allo psicologo tutti i suoi segreti, pensando per così dire a voce alta per la sua intera esistenza, come chi non ha, nella sincerità e purezza della sua coscienza, nessuna indagine maligna da temere. La critica riguardosa o irriverente che sia potrà rilevare le lacune del suo pensiero, gli errori della sua azione politica; potrà, se le piace, imitare la petulanza del pigmeo, che salito sulle spalle del gigante esclama fatuo: son più alto io! Ma inchinarsi dovrà pur sempre rispettosa e commossa alla nobiltà degli intenti di Mazzini, a’ supplizi volontari ed atroci che sopportò per attuarli.

Egli stesso riconobbe lo squilibrio e la dissonanza che esistevano tra’ suoi concetti e la sua potenza d’esecuzione – «inceppato com’era da mille cose, sviato da mille parti, dovendo passare da un linguaggio all’altro, da una operazione materiale ad una morale, dovendo congiurare, rappiccare, rannodare, confortare.... Io vedo (prorompe nelle sue confidenze alla madre e al Giannone) io vedo ciò che dovrebbe farsi e non posso farlo. Voi non sapete di me che il cospiratore, che l’uomo politico; ma gli affetti, i sogni, la poesia segreta, intraducibile, la foga, l’anelito dell’anima mia, e il freddo e il deserto, la condanna, la fatalità, la tenebra che mi sta sopra non potete saperla.... Morrò sconosciuto quanto all’anima mia, perchè il resto è vano romore.» (Epistolario, II, 40, 321.)

Nè queste erano pose teatrali, romantiche – ma sì espressione straziante di uno stato di perenne infelicità per le disarmonie dell’esser suo, che Mazzini doveva dominare e comporre a unità.

Quel tristissimo fatto del congiurare – camicia di Nesso, di cui non riuscì più a spogliarsi – portava seco anomalie morali, che ripugnavano alla sua dirittezza, alla sua probità scrupolosa, e non era conciliabile sempre con quell’amore innato della verità ond’egli un giorno scrisse al Ricasoli: «chi mi conosce dappresso sa ch’io posso avere ogni difetto fuorchè quello della menzogna. Ho l’anima troppo altera.» Pure certi infingimenti s’imponevano: era inevitabile esporsi a contatti con persone men che degne; adottar mezzi di guerra, da cui rifuggiva l’anima sua «nata ad amare e per lunga prova incapacissima d’odio.» (Scritti, VI, 365.) Il suo labbro, che avrebbe così volentieri mormorato – con la dolce voce grave – sole parole d’amore e di pace, doveva contrarsi ad amaro sarcasmo, ad invettive di fuoco. Invece della gioia che avrebbe bramato diffondere su tutta la terra, si vedeva costretto a funestar di tragedie anche il piccolo cerchio de’ più cari sulle cui teste invocava felicità senza nubi.

Queste disarmonie trafiggevano così crudelmente Mazzini da portarlo in certi momenti più penosi fin sul limitare della demenza o del suicidio – e da fargli quasi avvertire in sè stesso fenomeni di sdoppiamento. Gli pareva cioè di guardarsi, di sorvegliarsi in certo modo nelle sue operazioni come fosse un altro, il suo doublé, il suo spettro. «Un uomo che guardi con un mezzo sorriso di pietà e di affetto un giovane candido, vergine, commosso, operante il bene: lo guardi pensando un tempo anch’io era tale e faceva così, eccoti me (diceva al Lamberti). Io pensante guardo me operante così come non vi fosse vincolo, come s’io fossi diviso in due. È una sensazione delle più strane, delle più tormentose, ma è difficile ch’io la spieghi.» (Giuriati, 3.)

Ignoro se alcun psichiatra – come vuole l’andazzo odierno – (vedi nota S) abbia da questa autovivisezione di Mazzini tratto partito per gabellarlo «anormale e peggio»; a me le sue lotte interiori terribili fanno ricordare l’episodio celliliano della fusione del Perseo: allorchè Benvenuto con la febbre addosso lancia ogni cosa sua preziosa nella fornace per assicurare il getto dello stupendo suo bronzo.

Quello che pel Cellini rappresentava un momentaneo incidente è, si può dire, il destino di tutta la vita di Mazzini.

L’anima sua era un braciere inestinguibile; con mano convulsa egli accatastava i più disparati ingredienti, perchè balzasse fuori il suo Perseo con la testa medusea della reazione fiaccata.

Se i voti dell’artefice non furono in tutto adempiuti, che monta? Un’opera monumentale – che nessuno scultore potrà tradurre in marmo od in bronzo – ottenne già Mazzini col far sorgere da tanto ribollimento di passioni, da così eterogeneo miscuglio di elementi psicologici in conflitto la metallica interezza sfolgorante del suo carattere.

A quella effigie di gigante morale affisi ciascuno di noi lo sguardo, mormorando malinconicamente l’invocazione:

« O Prometeo d’Italia, che rapisti la fiamma divina e ne fosti punito da assiduo avoltoio, dà a noi una scintilla del tuo ardore magnanimo, un guizzo della tua volontà dominatrice. Al concetto titanico, che ti sorrise, della terza Italia siam troppo nani per sollevarci: ma la tua tetragona fede (che non conobbe adattamenti ambiziosi, opportunismi volgari, e sfidò il tempo sicura) ci risollevi almeno dalla morta gora in cui diguazziamo tra piccoli uomini e tristi cose: ci educhi alla virtù del sacrificio, allo sprezzo delle petulanze ingloriose; ci imprima il senso della responsabilità morale; ci salvi dal camaleontismo de’ raggiratori materialisti; ci renda tutta la fierezza dell’italianità; ci avvii ad essere quel forte e virtuoso popolo, per la cui risurrezione, o grande anima tragica, hai combattuto e sofferto.»

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