Il poeta futurista Aldo Palazzeschi

A forza di conferenze, di declamazioni e di pubblicazioni, noi futuristi siamo riusciti a far proclamare in Italia l’ingegno originalissimo e la personalità eccezionale del poeta futurista Aldo Palazzeschi. I critici però dichiarano, con miopia intellettuale o con malafede, che Palazzeschi «non è futurista». Spieghiamoci dunque sul significato esatto di questa parola. «Futurismo» vuol dire anzitutto «originalità», cioè ispirazione originale, sorretta e sviluppata da una volontà e da una mania di originalità. «Movimento futurista» vuol dire incoraggiamento assiduo, organizzato, sistematico dell’originalità creatrice, anche se apparentemente pazza. Non si tratta dunque di una influenza deformatrice esercitata sul libero spirito di un poeta, ma bensì di un’atmosfera antitradizionale, anticulturale, spregiudicata, nella quale questo libero spirito ha potuto osare, sentirsi compreso, amato, in quanto era solo, tipico, indigesto a tutti, beffeggiato dai critici e ignorato dal pubblico.

Ecco ciò che lega il grande poeta Aldo Palazzeschi al Futurismo, scuola, se volete, ma scuola nella quale s’insegna a ribellarsi, a essere originali, indipendenti. Una scuola che mi fa pensare a una certa caverna di Belgrado, dove vidi un capo Macedone dare quotidianamente delle lezioni di lancio di bombe. Non vi è al mondo un lanciatore di bombe intellettuali più sicuro di Aldo Palazzeschi.

Colla loro abituale leggerezza e imbecillità, i critici, basandosi su una prima impressione superficiale, lo considerano un sentimentale, un decadente, un simbolista, cioè un poeta alla punta estrema del romanticismo. Per giudicare una poesia, questi pedanti si accontentano di leggerne il titolo. Nell’Incendiario c’è una poesia intitolata L’Orologio, dove si parla di suicidio: «È evidente, dichiarano i critici, che il poeta ha subìto questa o quest’altra influenza: romanticismo, simbolismo, Poe, ecc.». Se volessero e sapessero leggere, comprenderebbero invece che Palazzeschi ha dato, primo e solo, appunto nell’Orologio, il grido della libertà umana, sintetizzando tragicamente, in una forma lirica e drammatica assolutamente nuova, l’agitazione febbrile ed esasperata dell’io che si sforza di rompere la sua gabbia ferrea di determinismo o di fatalità.

Nell’Orologio, come in tutte le poesie dell’Incendiario, Palazzeschi è assolutamente originale. Egli entra in tutte le zone di tristezza umana: cimiteri, ospedali, conventi, viuzze di città morte, ma dopo aver congedato con una risata ironica tutti i sacri custodi di questi luoghi: Lamartine, Leopardi, Baudelaire, Verlaine, Rodenbach e Maeterlinck. Palazzeschi vive tra le beghine, ma per stuprarle, e si impietosisce, invece sulle sue care mistiche dame di Villa Celeste. Passeggia di notte nei giardini primaverili, ma per scoprire i mali costumi dei fiori. Entrando in un cimitero, Palazzeschi, cataloga filosoficamente le facce dei morti, contratta uno scheletro e se ne ritorna con un teschio sotto il braccio, mangiando delle caldarroste nel più nostalgico dei tramonti.

L’ingegno di Palazzeschi ha per fondo una feroce ironia demolitrice che abbatte tutti i motivi sacri del romanticismo: Amore, Morte, Culto della donna ideale, Misticismo, ecc. L’opera di Aldo Palazzeschi (come quella, pure audacissima, di Corrado Govoni) costituisce gran parte della poesia futurista: la parte distruggitrice, quella che G. A. Borgese, conversando recentemente con me a Roma, definiva con acume «la critica parodistica del romanticismo».

Coll’apparente incoscienza d’un bambino, guidato però da un fiuto sicuro, il poeta Palazzeschi ha insegnato all’Italia, a ridere allegramente dei professori, infischiandosi, meglio e più d’ogni altro, di tutte le regole, di tutti i divieti stilistici e linguistici. E lasciatemi divertire è il più bel trattato d’arte poetica, e insieme lo schiaffo più poderoso che abbiano mai ricevuto in faccia i passatisti d’Italia.

Spirito rivoluzionario e assolutamente futurista in tutte le sue opere, Palazzeschi diede, nel suo Codice di Perelà, il primo romanzo sintetico, senza legami né ponti esplicativi, senza quei capitoli grigi pieni di belle zeppe necessarie, nelle quali Flaubert si rammaricava di aver sciupato tanto ingegno.

Questa sincerità assoluta, unita ad un profondo disprezzo per ogni armonia tradizionale hanno spinto Palazzeschi ad usare coraggiosissimamente dell’onomatopea. Egli obbedisce in ciò ad un naturale desiderio di nutrire con elementi brutali di vita la sua ispirazione lirica, liberandola da ogni solennità scolastica. È per questo che la Fontana malata segna, per me, una data importantissima nella letteratura italiana. I suoi «Clof, clop, cloch, cloffete, chchch...» sono senza dubbio i primi sputi gloriosi che il Futurismo ha lasciato cadere sul ridicolo Altare dell’Arte coll’A maiuscolo.

F. T. Marinetti

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