Come andò a finire

(NOVELLA)

«Il dentista», ha detto un bello spirito, «è un uomo che mangia coi denti degli altri»; e il cavalier Molinella, dentista brevettato e specialista per le malattie della bocca, poteva ben dire, dopo diciotto anni di professione, dopo aver strappato parecchie centinaie di molari e averne rimesse parecchie altre centinaia, che i denti degli altri gli procuravano, oramai, una digestione serena e deliziosissima, aiutata da un buon bicchierino di kummel, da un minghetti, possibilmente biondo, e dall'allegro chiacchierìo della mogliettina, giovane, molto giovane, e anch'essa bionda come i minghetti preferiti.

I maligni, i colleghi invidiosi dicevano – è vero – con quella stizza che prova come anche i dentisti finiscano col mostrarsi i denti fra loro, che l'anticamera del cavalier Molinella fosse sempre affollata non tanto di sofferenti quanto di «amici» ed «amiche» che si dessero dei fugaci convegni lassù, in quel grazioso salotto al quarto piano, lontani da vigilanze sospettose; ma tutto ciò non dava punto noia al buon cavaliere che, oramai, lasciava correre e si divertiva un mondo quando il cameriere introduceva nel suo gabinetto un giovanotto o una giovane signora che, sedendo sulla poltrona delle... esecuzioni dentarie, finivano col confessare che, in fondo, non soffrivano molto, anzi non soffrivano per nulla, ma desideravano, in ogni modo, di esser visitati con cura, per precauzione, naturalmente. Ed egli li visitava scrupolosamente, ordinava delle medicature innocentissime e poi pretendeva che fossero ritornati un altro paio di volte, per lo meno, se non volevano che la cura prescritta perdesse ogni efficacia. Ciò era bastato a creargli una riputazione di scienziato serio e coscienzioso e a dargli una clientela di prim'ordine: risultati a cui era giunto, in fondo, con la semplice e prudente abitudine di spalancare le bocche degli altri e di tener chiusa, costantemente, la sua.

Egli s'era affezionato, perciò, a quell'anticamera galeotta, a quel salotto di damasco azzurro, un po' sbiadito dal tempo, un po' pesante, un po' banale, ma tranquillo e dolce come un piccolo tempio, a cui aggiungevano una certa vivacità tre o quattro camerops malaticci che sbucavano fra un sofà e l'altro, e, qua e là – in un vaso di porcellana o in una coppa di cristallo – qualche mazzo di fiori freschi che rivelava le cure che la signora Molinella aveva, anch'essa, per il salotto azzurro dove ogni mattina si affollava, dalle nove alle dodici, la clientela di suo marito. Alle dodici in punto il cavalier Molinella dava ordine al cameriere di licenziare garbatamente chi fosse rimasto in anticamera, faceva uno spuntino solo solo, mentre la moglie era quasi sempre occupata, a quell'ora, con la pettinatrice – essa amava di ripetere che la massa dei sui capelli biondi era così folta che non ci voleva meno di mezz'ora, per disciplinarla – e poi usciva, per il consueto giro di visite e per «la lezione». Dove andasse a fare questa lezione, però, e che cosa insegnasse, nessuno aveva potuto mai sapere; e siccome il cavalier Molinella, sin dai primi tempi della sua floridezza professionale, non aveva voluto metter su vettura propria, i curiosi non potevano cavarsi neppure il gusto di domandarlo al cocchiere: ma, tant’è, quella faccenda della «lezione» gli dava un'aureola scientifica così rispettabile che neppure la moglie volle indagare, mai, per non distruggere l'aureola. Ed è così che, sulle carte da visita e sulla targa di ottone luccicante, attaccata all'uscio di casa, innanzi al cav. era scritto tanto di prof. Egli, il buon dentista, a quel prof. ci teneva più che alla croce; è vero, però, che i maligni dicevano che, per lui, tanto il professorato quanto la croce, dovevano aver lo stesso valore, visto e considerato che se li era conferiti tutti e due motu proprio....

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Quel giorno – un tiepido, dolcissimo meriggio di aprile, uno di quei meriggi della primavera nova in cui il blando soffio che ha sfiorati i mandorli bianchi e i rosei peschi nei campi porta qualche cosa di quel profumo nelle tristi vie della città, nelle oscure case silenziose, nei grigi androni dei palazzi austeri – nel salotto azzurro era come un rifiorire di cose gentili, un ringiovanire di tutto ciò che era intorno, dalle tappezzerie un po' sbiadite dal tempo al parato di carta, d'un pallido celeste a roselline bianche; dai quadretti ad acquerello – delle marine, un Vesuvio, un paesaggio alpino – ai camerops, che avevano novelle foglie verdeggianti, come nuove speranze germoglianti da un tronco stanco.

E la brezza lieve faceva palpitare le cortine di merletti, alle finestre, con un ritmo eguale, quasi di respiro, e in un vaso, sul finto caminetto tappezzato di damasco anch'esso, un fascio di mammole moriva, dando il suo profumo al sole che veniva a baciarlo, attraverso le imposte socchiuse, portandogli il saluto dei prati e dei boschi dove le ultime mammole fiorivano.

— Come si deve «filar» bene, qui dentro! – pensò il cavalier Molinella, fermandosi in mezzo al salotto e abbracciando ogni cosa, intorno, con lo sguardo. Ebbe un sorriso di soddisfazione, mentre col fazzoletto ripuliva gli occhiali d'oro; e indugiò un poco, così, guardando i sofà, il caminetto, i quadri e le cortine, che gli apparivano, ora, con un aspetto più soave e carezzevole che non mai.

— Come si deve «filar» bene! – ripetette sotto voce; e si avvicinò al tavolino che era in un angolo del salotto, fra due sofà, carico di vecchi giornali e di vecchie rivista. Cercava l'ultimo numero di una «Rivista d'odontoiatria» che aveva pubblicato il suo «profilo» con parole molto lusinghiere – pagate a due lire e cinquanta la linea, titolo escluso –; ma, nel grosso mucchio di carta stampata, non gli riuscì di trovarlo e invece finì col rovesciare a terra sette od otto giornali politici, un Orario delle ferrovie di due anni innanzi e un Natale e Capodanno dell'«Illustrazione Italiana» del 1895. Ma fu appunto risollevando il Natale e Capodanno che si accorse di una noterella scritta a lapis, a piccoli caratteri, accanto a un avviso di pubblicità, in una delle ultime pagine del grosso fascicolo illustrato. La noterella diceva: – Vengo qui per voi, soltanto per voi. Ricordatevi di quel che mi prometteste allora, quando mi amavate davvero. Posso sperare?

Il cavalier Molinella rilesse due o tre volte quelle parole, girò e rigirò il fascicolo fra le mani, e poi corrugò la fronte, masticando: – No, no, no... Questo poi è un po’ troppo...

La calligrafia era maschile, una calligrafia sottile, sicura, che rivelava audacia e sfrontatezza. Che cos'era quest'altra novità, ora? Che cosa voleva, che cosa pretendeva, quel signore che sciupava così i giornali che non erano suoi? Non gli bastava vederla, quella che gli aveva promesso allora chi sa che cosa?

Non poteva parlarle, magari a cenni, là, nel salotto? Doveva anche scrivere? E scrivere sul Natale e Capodanno di lui, del cavaliere? E scrivere, poi, perchè? Come gli avrebbe risposto, lei?

Già; come gli avrebbe risposto? Questa domanda egli se la fece ancora una volta, rileggendo quella noterella scritta a lapis... Ora, cominciava a pigliar gusto alla cosa: in fondo, poi, l'idea era originale; forse, anche, –perchè no? – simpatica... Sicuro: una corrispondenza di brevi parole – un giorno lui, per esempio, un giorno lei – sulle pagine di pubblicità d'una rivista, abilmente dissimulata fra un avviso e l'altro, non è una trovata graziosa e sicura? Chi si accorge che il signore o la signora, invece di leggere, scrive qualche motto, riparato dietro le larghe pagine della rivista? Il signore sta bene; ma la signora – pensò il cavalier Molinella, grattandosi l'orecchio con un certo sorriso che dimostrava, ormai, che egli si appassionava alla indagine – la signora avrà l’audacia di rispondergli, qui, in salotto, innanzi alla gente che può accorgersi della manovra?

Forse, quelle parole erano state scritte da tempo, e l'ardito innamorato non aveva mai avuto il bene d'una risposta; ma se fossero state scritte proprio quel giorno? Se lo scrittore aspettasse la risposta per il dì seguente?

— Vedremo – concluse, rimettendo il giornale a posto, in cima al mucchio.

E aggiunse, con una risatina maliziosa: – Son curioso di sapere conte andrà a finire.

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Quando Molinella cominciava ad interessarsi per qualche cosa che gli si ficcava nel cervello, non c'era verso che l'abbandonasse più; la ricerca, l'indagine, il desiderio di andare in fondo divenivano in lui come una fissazione; avea la passione del poliziotto per frugare e scovare...

Qualche cosa cominciò a saperla, infatti, il giorno seguente. Alle dodici in punto, partita la clientela, e dopo lo spuntino solito, egli si riavvicinò al tavolino e riuscì a pescare, sotto l’Annuario di Napoli e Provincia, il Natale e Capodanno.

Lo sfogliò e corse a quella noterella, con impazienza. Un'altra calligrafia – femminile, questa volta – alterata, forse, un po’ rotonda, lievemente insicura, aveva risposto, con una parola sola: – Dimenticatemi!

— Ah, ah! – pensò il cavaliere – Lei non cede, ma non si ribella... Benone! È già qualche cosa. Se egli insiste, se egli sa fare...

Decisamente, la cosa, ora, lo divertiva. Chi sa che avrebbe risposto lui, l’indomani?

E il pensiero cominciò, subito, un lavorìo di ricerca por scoprire chi fosse questo lui. Certo, nella sua clientela aveva parecchi giovanotti; ma i più li conosceva da un pezzo, e non avevano mai avuto bisogno di ricorrere alla scrittura, per godere dei vantaggi che procurava l'anticamera del cavalier Molinella. Doveva essere un cliente nuovo; e anche lei, forse, era una nuova cliente. Erano d'accordo? Forse no; quella parola: – Dimenticatemi! – chiudeva troppo bruscamente la via al corteggiatore; è vero, però, che vi sono delle chiusure troppo vistose, nella vita, che servono unicamente per mostrare al visitatore di dove è che si può entrare... Tuttavia, egli sarebbe ritornato alla carica, certamente, e avrebbe scritto ancora; e anche lei, forse, sarebbe ritornata, per vedere che cosa si sarebbe risposto alla sua parola che implorava e dissuadeva. E le ricerche sarebbero state più facili, col progredir della cosa.

Infatti, il giorno seguente, all'altra pagina, sotto un disegno di rèclame ai cerotti di Wasmouth, egli lesse: – Dimenticarvi? E me lo chiedete? Io v'adoro. Io ti adoro. Lo vuole il destino.

Benissimo! Lui incalzava; lui sapeva fare. Il buon Molinella n'era contento; e, uscendo di casa, per il consueto giro di visite, andò passando in rassegna, mentalmente, ad uno ad uno, tutti i suoi clienti, alla ricerca – definitiva, questa volta – di lui. In fine, restò indeciso fra tre: un tenente di fanteria, un giovane avvocato e un commesso viaggiatore, sempre arricciato e impomatato come un danzatore di corda. Con quanto zelo, con quanto scrupolo esaminò le tre bocche, l’indomani, sperando di trovare in esse qualche indizio!.. Non trovò, viceversa, che una incipiente periostite alla mascella superiore destra del tenente, ciò che gli fece credere fermamente che non potesse essere lui il galante scrittore, perchè l'uomo che soffre sul serio di mal di denti non può amare con molto ardore. Restarono in gara l'avvocato e il commesso viaggiatore.

La corrispondenza, intanto, continuava: e – ahimè – la cosa minacciava di pigliar fuoco. A poco a poco, fra una rèclame al Pitiecor e un'altra all'Emulsione Scott, fra un avviso di concorso e un disegno di macchine da scrivere, le frasi diventavano sempre meno concise e sempre più audaci ed ardenti. Lei, oramai, non resisteva più che per semplice forma; aveva delle parole così dolci, così carezzevoli, nella sua resistenza, e gli diceva di no in un modo così grazioso, che proprio quel «no» pareva dicesse: – Non pigliarmi sul serio.

Il buon Molinella era contentissimo della piega che prendevano le cose: ancora un po’ indeciso fra l'avvocato e il commesso viaggiatore, s'era dato, ora, a ricercare, fra le sue numerose giovani clienti, lei, con un lavorìo d'indagine accurato, minuziosissimo, che gli teneva occupato il cervello costantemente, in tutte le ore del giorno. Più d'una volta, a tavola, la moglie gli aveva chiesto, vedendolo così assorto: – A che pensi? Ed egli era stato tentato di metterla a parte del segreto: ma poi aveva risposto, semplicemente: – A nulla. – E fra sè e sè, si era detto: – Le racconterò tutto quando la cosa finirà; le porterò il giornale, a leggere, e ci divertiremo tanto... Vediamo intanto come andrà a finire.

E la ricerca di lei era ricominciata, con tutta l'abilità di un giudice istruttore che si accanisca a scoprire l'autore di un delitto, e che voglia tutto per sè, soltanto per sè, il merito della scoperta. Ripensò a tutte le signorine e le signore che venivano da lui, ne studiò, mentalmente, le fisonomie, cercò di indovinarne il carattere, di investigarne i segreti attraverso lo sguardo, o il gesto, o il sorriso. Le guardò, le esaminò con profonda attenzione, durante le ore della visita, tentò perfino di scoprire se avessero, nel portabiglietti o altrove, una matita da scrivere... Dio buono! Come era difficile, con le donne, assai più difficile che con gli uomini, questa tacita inquisizione! Non una di quelle signore che si tradisse, che entrasse un po' turbata, troppo pallida o troppo accesa in volto, nel suo gabinetto, che lasciasse trasparire il suo segreto da un tremito della voce... Non una sola! Oh, le donne!

E il cavalier Molinella dovette limitarsi a fare delle congetture. La cantante del Lirico di Milano, un donnone formidabile, dai capelli dipinti in rosso? No, certo: non avrebbe belato un idillio per tanti giorni... La moglie del professor Cerci, una biondina languida, molle come un sonetto di De Amicis della prima maniera? Neppure; si diceva che avesse una corrispondenza epistolare, molto tenera, molto arcadica, con un cugino, ufficiale postale in Lombardia, e questa corrispondenza bastava a riempire il suo cuoricino e il suo cervellino, due cose molto minuscole, regalatele dal Signore Iddio come due bibelots, estremamente fragili, che si tengano soltanto per guardarli, in un cantuccio di boudoir. E allora! C'erano: una collegiale dei Miracoli; una marchesa – molto apocrifa e molto ritinta – due provincialine, sempre di buon umore; la sorella d'un sottoprefetto della provincia; una giovane miss, e due o tre signore insignificanti, nè giovani nè vecchie, nè brutte nè belle: di quelle che passano nella vita come le sinfonie nei teatri di prosa: inosservate ed inascoltate; quale di queste, era lei?

Egli escludeva le altre, parecchie altre, – una duchessina autentica, quattro o cinque giovani signore e una piccola schiera di signorine, – che venivano da lui accompagnate sempre da qualche cugino o da qualche tutore molto amabile e molto affettuoso, ragione per cui non entravano affatto nel numero di quelle fra le quali era la imprudente creatura che cedeva, poco per volta, – secondo l'opinione dell'acuto psicologo – all'avvocato o al commesso viaggiatore.

Finì, naturalmente, anche qui, limitando il campo delle sue ricerche fra tre persone: la collegiale, la miss e la sorella del sottoprefetto. Quando però lesse in una breve risposta di lei: – E mio marito? – concluse, senz'altro, che fosse la sorella del sottoprefetto: delle tre, era la sola maritata. E il cavalier Molinella ebbe un sorriso di compassione per quel povero e sconosciuto marito sul capo del quale pendeva un pericolo molto, troppo vicino.

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Il pericolo, infatti, era inevitabile; la catastrofe era prossima. L'ultima noticina di lui, sotto il volto barbuto d'una rèclame all'Acqua di Chinina Migone, diceva: – Vieni. Saremo felici. Dimentica il mondo. Dimentica tutto. Ricordati solo le promesse di allora! Tutto è pronto. Quando? – Ci siamo – pensò il cavaliere – È più presto di quel che credevo! – Si grattò l'orecchio col solito sorrisetto tra il sarcastico e il compassionevole. – E lei ora, che risponderà? Ah, Ah! Son curiosissimo di saperlo... Tutto dipende da un filo... Un filo... un filo... – andò canterellando per le scale, per via, con quel ritornello sulle labbra e quel pensiero nel cervello – un filo... un filo...

La sorveglianza verso la sorella del sottoprefetto diventò più stretta che mai: facendole la solita medicatura mattutina – ella soffriva di una lievissima gengivite – la scrutò in fondo agli occhi, con lo sguardo del magnetizzatore, ma ella resistette a quello sguardo. Del resto anche l'avvocato, quella mattina, si fece cambiare la medicatura al terzo molare della mascella superiore sinistra con grande imperturbabilità; quanto al commesso viaggiatore, non si fece vedere per nulla. L'opera di selezione s'era, così, compiuta: la coppia era quella, l'unica che rimaneva; non c'era più da dubitare!

Ma per tre giorni la domanda del giovane innamorato non ebbe risposta; il buon Molinella cominciava a scoraggiarsi... – Sta a vedere – diceva tra sè – che la cosa finirà così, con un punto interrogativo... Sarebbe bella, veramente! La credeva più ardita, lei... Mi aspettavo di meglio, francamente... Del resto, chi sa? Aspettiamo... Speriamo...

Diceva: – Speriamo! – lui, con una maligna fregatina di mani; e affrettava col pensiero uno scioglimento piccante alla strana corrispondenza sul suo giornale. Tanto, aveva preso gusto alla cosa, ci si era divertito, e contava di far divertire, dopo l'ultima scena della pochade, la sua mogliettina, la cara Gilda...

Nei tre giorni intanto, i calcoli del cavaliere s'imbrogliarono maledettamente; il commesso viaggiatore era riapparso, con la scusa di farsi medicare un dente, che a lui parve sanissimo, e viceversa la sorella del sottoprefetto venne due volte col marito, un colosso con un torace erculeo e due baffoni neri da maresciallo dei carabinieri... Che fosse un'altra, lei? Una di quelle due o tre signore insignificanti, che venivano quasi tutti i giorni? Cominciava, veramente, a perderci la testa... Ed era con una specie di ossessione, adesso, che egli correva, dopo le tre ore della visita, a sfogliare il povero Natale e Capodanno, complice involontario di un reato che si andana compiendo a poco a poco.

Il quarto giorno, la risposta c'era. Finalmente! La sorella del sottoprefetto non era venuta affatto, ma che importava più, questo? Era la cosa, per il momento, che premeva: il problema psicologico puro e semplice; i protagonisti si sarebbero scoperti, certamente, dopo. E la scoperta era immancabile, perchè immancabile era la catastrofe. La risposta, laconica, troppo laconica, non diceva, infatti, che questo: – Cedo al Destino. –

— Al Destino? Destino birbone! – mormorò, sogghignando, il buon cavaliere. E poi pensò, con un po’ di rammarico, non scevro di una punta di sarcasmo: – Ecco due clienti di meno...

Tuttavia, la risposta era troppo breve: doveva esserci qualche altra cosa... – Il piano – pensava Molinella – il piano, come lo stabiliranno?

Non mangiò, quella sera, pensando al «piano», e andò a letto, fabbricando, per conto suo, dei piani fantastici di fughe ardite, con scale di corde e pugnali alla cintola come ai tempi di Enrico di Navarra.

Il giorno seguente non seppe reggere all'impazienza di conoscere l'ultima fase del fatto, e, nella fretta di sbrigare le sue visite, strappò a un povero diavolo, sofferente sul serio, un dente sano, invece del guasto. Ma egli aveva indovinato: il piano, o almeno un abbozzo di piano, c'era. Nascoste fra le righe di un piccolo avviso della Veloutine Fay c'erano queste poche parole di lui, scritte, evidentemente, con molta fretta: – Domani, quando egli non c'è. Per segnale un vaso di fiori alla tua finestra.

Tutto era fatto, dunque! Ed era per quel giorno, lo scioglimento! «Quando egli non c'è». Povero marito! E quella faccenda del vaso di fiori? Ingegnosissima! Un'idea originale davvero! Non c'è che dire: erano delle persone di spirito. lui e lei!

Il cavalier Molinella uscì di casa raggiante di gioia. Come erano giunti subito e bene alla conclusione, quei bricconi! E tutto per merito di quel povero Natale e Capodanno! Lo avrebbe conservato, per ricordo, quel numero speciale, quel «documento umano»... E la sera, a pranzo, come ne avrebbero riso! E poi, l'indomani, lo scandalo scoperto, i nomi in pascolo al pettegolezzo pubblico, l'enigma si sarebbe finalmente svelato, a lui che ne cercava la soluzione con tanto accanimento...

Che cosa facesse quel giorno l'eccellente dentista non avrebbe potuto dirlo neppure lui. Qualcuno, che l'incontrò, dice che andava smascellandosi dalle risa, per via, come un pazzo...

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Quando, alle diciannove, come al solito, ritornò a cast, rideva ancora, e più che mai: rideva tanto, che non sentì neppure che cosa gli dicesse il cameriere, aprendogli l'uscio di casa. Il salotto era immerso nella penombra del crepuscolo, tutto chiuso come un piccolo tempio; le cortine, alle finestre, pendevano immobili, in rigide pieghe d'una compostezza quasi ieratica.

— Anche le camere hanno le loro ipocrisie – pensò il cavalier Molinella cercando, in quella penombra, il fascicolo, nel mucchio di giornali che ingombrava il tavolino. Lo trovò, lo strinse con gioia fra le mani e corse verso la camera dia letto.

— Gilda! – chiamò, trionfalmente, levando in alto il famoso «documento umano», e spalancando l'uscio.

La camera era vuota; sul letto era un guanto rovesciato, un minuscolo guanto gris perle. Alla finestra, un vaso di garofani bianchi si profilava sul cielo crepuscolare, dove le prime ombre della sera mettevano lievi sfumature di ametista.

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