IL VESCOVO D'IMOLA

CONFERENZA

DI

ERNESTO MASI.

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Sulla fine di dicembre del 1832 Giovanni Maria Mastai-Ferretti, arcivescovo di Spoleto, e che poi divenne Papa col nome di Pio IX, fu da Gregorio XVI nominato vescovo d'Imola.

Entrò in Imola (notano con intenzione certi suoi biografi) il mercoledì delle Ceneri del 1833.

Se questo indefinibile arnese letterario, che si chiama una conferenza, e in cui la dose del poco e del troppo resta sempre un problema, si dovesse e potesse limitare ad una semplice biografia, io, per verità, dovendo fermarmi al 1846, non avrei molto da dire.

La vita di Pio IX è divisa essenzialmente in due parti, e la prima e più naturale divisione di essa neppur si ferma al 1846, bensì continua fino al 15 novembre del 1848, che Pellegrino Rossi, Ministro [138] di Pio IX, fu assassinato in Roma a tradimento, mentre, sceso appena di carrozza, saliva il primo ramo di scala del palazzo della Cancelleria per recarsi a riaprire il Parlamento degli Stati Pontifici. Il giorno dopo, la rivolta di piazza, sobillata dai circoli demagogici, ormai padroni del campo, assaliva Pio IX nel Quirinale, gli imponeva un Ministero, e in capo ad altri nove giorni, il Papa, travestito da semplice prete, fuggiva da Roma nella carrozza della contessa Spaur, ambasciatrice di Baviera, e si rifugiava a Gaeta. La prima parte della vita di Pio IX finisce qui.

Da questo momento fino al 7 febbraio 1878, in cui Pio IX morì, egli, come uomo, come principe, come Papa, è un personaggio storico diversissimo da quello di prima, sebbene forse nell'uomo, nel principe e nel Papa di prima si trovino già, se non tutte le cagioni (le quali oltrepassano la sua qualunque individualità e sono di ordine più generale), certo molte delle ragioni sufficienti del mutamento in lui sopravvenuto.

Se non che fermandoci al 1846, che fu il primo anno del suo pontificato, noi vediamo in lui non solo il vero iniziatore del risorgimento italiano, allorchè questo esce finalmente dal periodo delle profezie letterarie, delle visioni teoriche, delle sommosse [139] spicciolate e delle tenebrose cospirazioni, espiate coi martirii, per entrare nella piena luce della grande azione storica e comprendere in un moto irresistibile tutta intiera l'Italia e l'Europa, ma assistiamo altresì a questo fenomeno singolarissimo, che un uomo senz'alcun antecedente personale molto notevole, un uomo mediocre (l'epiteto è del Gioberti), mediocre di animo, di bontà, di coltura, d'ingegno e di carattere, e quasi inconsciente degli effetti prossimi e remoti della sua azione pubblica, può tuttavia dare la prima e più decisiva mossa a così straordinaria mole di eventi, e lo vediamo proprio, quando egli è ancora portato e si lascia volentieri portare dall'onda enorme d'una popolarità subitanea e senza esempio, e innanzi ch'egli incominci ad accorgersi e spaventarsi del crollo strapotente dato dalla sua debole mano a tutto il vecchio mondo e con una sola parola: perdóno, a pronunciar la quale, fra tanto imperversare di odii implacabili, d'ingiustizie selvaggie, d'impòtenti repressioni e di inutili vendette, non occorreva, se guardiamo bene, nè alcuna eroica bontà, che l'inspirasse, nè alcuna sopraffina abilità di governo, che la suggerisse anche al più modesto politico, come lo spediente migliore.

Una filosofia della storia alla Bossuet potrebbe [140] quindi far di Pio IX un docile istrumento della provvidenza di Dio. Una filosofia della storia alla Darwin potrebbe far di lui una di quelle forze cieche, che agiscono nel mondo morale e materiale all'infuori d'ogni determinazione volontaria e per fatale impulso d'una legge misteriosa, che sfugge all'osservazione degli uomini. E quella in fine che oggi chiamasi concezione materialistica della storia, che è la filosofia professata dalla scuola socialista o giù di lì, e pretende aver sorpassate tutte le altre, perchè le riduce tutte al fenomeno economico, quella, dico, dinanzi al fenomeno storico d'un Pio IX, non potendo spiegarselo nè coll'organismo della produzione, nè colla bilancia mobile dei salarii, nè col prezzo delle derrate e via dicendo, probabilmente passerebbe oltre senza curarsene, lasciando che altri riempisse, come meglio crede, una siffatta lacuna.

La realtà è invece, mi sembra, che iniziando o fermandosi, secondando o resistendo, annientandosi come principe o esagerandosi come papa, il destino di Pio IX è di essere, anche suo malgrado, uno dei fattori storici principali della Rivoluzione Italiana, e che tale destino s'adempie in lui fino all'ultimo; s'adempie persino nelle più prestigiose coincidenze esteriori con una puntualità singolare. Muore difatti [141] il primo Re d'Italia in Roma; pochi giorni dopo lo segue Pio IX nella tomba. L'Italia è fatta! Il periodo storico della vera e grande Rivoluzione Italiana è finito!

Sotto questo aspetto almeno, parlar di lui con serenità, con giustizia, con equità, con misura, oltrechè ufficio della storia verso ognuno, par quasi debito di riconoscenza nazionale, sebbene sia difficile sempre, come avvertì il Machiavelli, parlare senz'odio o senz'amore dei contemporanei e non dispiacere a molti, quanto più appunto ci si studia di non dispiacere a nessuno. Ciò in generale. Nel caso speciale di Pio IX, la quantità degli scrittori, che pro o contro, di proposito o per incidenza, hanno parlato di lui, cresce a dismisura la difficoltà. Da cinquant'anni ad oggi sono a migliaia e in tutte le forme letterarie possibili. Una classificazione qualsiasi chi potrebbe tentarla neppure?

Guardando alla grossa, v'ha i patriotti classici (chiamiamoli così) che spiegano per insegna l'epigramma famoso dell'Alfieri: - Il Papa è Papa e re - Dèssi abborrir per tre! - senza stare a cercar altro; v'ha chi si vanta di non aver mai dato dentro all'illusione di un Papa liberale e italiano, e razzola e aggruppa aneddoti e pettegolezzi per dimostrare che questo Papa, apparso nel 1846 [142] come un prodigio, altro non era che la resultanza combinata d'un Alessandro VI e d'un Pio V, d'un fanatico e d'un feroce; v'ha chi si affligge d'aver visto svanire con Pio IX il maggiore, forse l'ultimo, tentativo di conciliazione fra Italia e Papato, cattolicismo e libertà; v'ha chi arreca a lui solo la colpa d'aver mandato a male il moto di riscossa più largamente e più profondamente popolare, che sia mai stato in Italia, e non gli perdona di non aver saputo essere un Alessandro III, come se al 1848 l'Europa fosse ancora composta di Papi, Imperi e Comuni, mentre invece i Comuni alla medio evo non esistevano più, e Papi ed Impero non erano più che due Stati, uno debolissimo contro un forte; v'ha chi esalta e divinizza Pio IX come l'eroe e il martire del secolo, che dopo una lotta immane contro tutte le malvagità del suo tempo soccombe bensì, ma lancia, cadendo, col Sillabo e l'Infallibilità papale l'ultima condanna, l'ultima sfida a tutte le scapestratezze della società moderna, e le ha preparato in pari tempo l'ultimo porto di salvezza, quando stanca, prostrata, pentita de' suoi errori e vagante come pazza fra tenebre mentali sempre più fitte, tornerà a ridomandare la luce e la pace delle verità tradizionali al solo uomo, che ha dunque, dicono, la certezza di non errare.

[143]

La speranza di tale ritorno è audace, non v'ha dubbio, non meno della condanna e della sfida; ma a che pro continuare questa enumerazione, se non c'è possibilità di compirla, e se essa non varrebbe forse che ad impigliarci in polemiche infinite senza alcuna probabilità nè di scegliere, nè d'intenderci, nè d'accordarci, nè di venire ad una conclusione?

Stiamo dunque modestamente ai fatti, come sono. Essi soli, non sempre, ma il più delle volte danno lume a orientarsi fra le fallacie delle dottrine, i mutamenti delle opinioni, le superbie, i vanti, le ingenuità e le perfidie delle sètte, delle fazioni e delle scuole, ognuna delle quali pretende naturalmente di possedere tutta la verità.

Ci fermammo l'anno scorso, se ve ne ricordate, al 1831, l'anno dell'elezione di Gregorio XVI. Le ultime onde della rivoluzione erano venute a sbattersi languidamente e a morire sulle porte del conclave, che lo aveva eletto, e quando queste porte si riaprirono, ne uscì un Papa dei soliti, un vecchio cioè quasi settantenne, che da quarantasette anni era monaco Camaldolese, ch'era stato bensì Prefetto di Propaganda e negoziatore di concordati con qualche Stato europeo, ma che se molto sapeva di teologia, delle cose di quaggiù avea cognizione ed esperienza, quanto di quelle del mondo della [144] luna. Eppure, chi lo crederebbe? Fra le quinte del conclave, anche Gregorio era stato combattuto come avverso all'Austria, e citando un passo della sua opera teologica: Il trionfo della Santa Sede, qualcuno s'era pure provato a farlo passare per liberale. Poveretto! Un torto, che non meritava davvero, come non meritava d'essere annunciato ai suoi felicissimi sudditi con le parole divenute famose del cardinale Bernetti, suo segretario di Stato: «un'era novella incomincia». Un buon astrologo, in fede mia, quel Bernetti e soprattutto in gran buona fede!

Furono quindici anni di congiure, di sommosse periodiche, di repressioni feroci, d'interventi stranieri, di carcerazioni, di esigli, di condanne, di supplizi, e di un oscurantismo così insensato, che infamarono nell'opinione pubblica europea il Governo Pontificio, e che resero proverbialmente odioso il nome di Gregorio XVI, forse non cattiv'uomo nel fondo; certo non tale, quale il libello e la satira politica (unica vendetta ed unico sfogo agli oppressi) l'hanno dipinto, perocchè è falso ch'egli fosse scorretto di costumi, dedito al vino fino all'ubriachezza abituale, avido del danaro pubblico per arricchirne i nipoti, e tutti gli aneddoti, nei quali si compiacque, per esempio, l'erotica fantasia [145] del Petruccelli della Gattina nella sua Storia dei Conclavi, e che si vedono ricopiati da tanti altri della sua risma, sono invenzioni.

Lo si diceva, poniamo, dominato a bacchetta dal suo cameriere, Gaetano Moroni, per certo intimissimo suo, e che avendo cominciato barbiere del convento dei Camaldolesi, avea finito per essere in corte del Papa un gran personaggio, a cui non solo s'inchinava riverente una folla di mendicanti e di cacciatori d'impieghi, di grazie e di onori, ma che per mezzo dei diplomatici e dei visitatori stranieri più cospicui era divenuto noto a tutt'Europa e riverito col vezzeggiativo di signor Gaetanino, com'era solito il Papa chiamarlo. Il mondo è sempre stato così e continua ad essere, anche se il signor Gaetanino non è più in corte del Papa, ma è invece ministro, deputato, o un pezzo grosso qualsiasi. Pur di piegare la schiena a qualche potente, o creduto tale!! Ora anche il signor Gaetanino, un mitissimo cortigiano, tutto miele di sorrisi, di complimenti e di riverenze, è dipinto nei libelli e nelle satire contemporanee come un Tigellino spietato, un Seiano, consigliere d'infamie e qualcosa pure di più turpe, ed in tutto questo parimenti non c'è nulla di vero. Il signor Gaetanino invece era un giovine popolano, intelligente, istruitosi un [146] po' da sè, un po' coll'aiuto del Papa e riuscito all'ultimo un erudito non volgare, sempre poi un lavoratore indefesso, il quale, oltre alle sue faccende di corte, ha trovato modo di lasciare 120 volumi d'un Dizionario Storico- Ecclesiastico, che anche oggi si consulta con qualche utilità. Certo, egli era un servitor devoto e affezionatissimo al Papa, nè mai s'era sognato che il suo signore e padrone potesse aver torto, ma era un galantuomo, rispettato per tale a Roma, dove io stesso ebbi curiosità di conoscerlo, come un monumento d'antichità, poco dopo il settembre del 1870, rispettato, dico, anche dai liberali, e soggiungerò che fra i papalini più noti rimarcai ch'egli era uno dei più indifferenti alla mutazione avvenuta.

Di lui seppi altresì con certezza quest'aneddoto. Gregorio XVI avea in odio mortale le ferrovie, come un'invenzione del diavolo, e da buon logico non volea neppur sentirne parlare. Per vincere questa sua ripugnanza, i banchieri, che ne brigavano la concessione per gli Stati Pontifici, immaginarono (da quell'ingegnosissima gente che sono) di presentare al Papa il modellino d'una ferrovia tutto in argento, un amore di giocattolo, ch'essi credevano avrebbe valuto a sedurre quel tanghero di teologo. Ufficiarono quindi il signor Gaetanino, offrendogli [147] una somma addirittura enorme, affinchè egli facesse trovare al Papa quel giocattolo sul suo scrittoio. Il signor Gaetanino rispose secco ch'ei non guadagnava il suo denaro a così buon mercato, ch'ei non si prestava a tale insidia al suo benamato padrone, e rifiutò. Non voglio farne per questo un eroe; dico soltanto che tanti altri Gaetanini della vita pubblica d'adesso non solo avrebbero accettato il negozio, ma, riuscendo, avrebbero ingoiato anche la ferrovia vera con la macchina accesa e i vagoni pieni!

Che perciò? Non meno indegno, nè meno giustamente diffamato fu il governo di Gregorio XVI per la cecità bestiale del suo oscurantismo e per la efferatezza dei mezzi, con cui credette aver diritto di difendere da ogni minaccia il suo principato; cecità ed efferatezza che, se già altre circostanze più alte e più speciali non ci fossero, spiegherebbero da sole il contraccolpo di quasi folle entusiasmo e l'esplosione subitanea di giubilo, di contentezza e di speranza, con cui ad occhi chiusi fu accolto Pio IX.

Domata nel marzo la rivoluzione del 1831, gli Austriaci nel luglio se n'andarono dalle Romagne, ed il paese restò in uno stato di strana incertezza, con una guardia civica, riarmatasi nelle quattro [148] Legazioni, ed un governo, che intanto metteva insieme un'orda di usciti di galera e di banditi fra Rimini e Ferrara coll'idea di compir l'opera, che gli Austriaci avevano lasciata a mezzo.

Era in sostanza la guerra civile, che s'andava bel bello apparecchiando, e che al cardinale Bernetti, il quale pur si vantava discepolo del Consalvi, non parea poi un ideale di governo da disprezzarsi del tutto. Non così la pensavano le potenze protettrici, le quali in cinque, non esclusa l'Austria, avevano chiesto con un memorandum collettivo, come si praticherebbe col Bey di Tunisi, fino dal 10 maggio 1831, che almeno le più marchiane assurdità del Governo Pontificio fossero corrette. Il Bernetti fece l'uomo offeso. O non avea promesso l'êra novella? Aspettassero dunque che l'erba crescesse, e l'erba, la mal'erba, fu il cardinale Albani, cagnotto dell'Austria e uno dei più vecchi e peggiori arnesi della Curia, messo alla testa di quell'infame marmaglia, che s'andava riunendo fra Rimini e Ferrara, e incaricato di rimettere in cervello del tutto Bologna e le Romagne.

A tale minaccia quelle popolazioni si risentirono fieramente. Fra gli ultimi di dicembre e il gennaio 1832 una parte delle Guardie Civiche di Forlì, di Ravenna, d'Imola e di Bologna s'andò pertanto [149] radunando a Cesena, deliberata di tener testa ai Papalini, i quali finalmente il 20 gennaio dettero l'assalto a Cesena. I liberali non erano più di 1800; quasi 5000 i Papalini. I primi, male armati e non guidati da alcuno, resistettero ciò nonostante sei ore, poi si sbandarono, ed i secondi, entrati in Cesena, non perdonarono nè a luogo, nè a sesso, nè a età, nè a condizioni: trucidarono vecchi, donne, preti, bambini, persino nelle chiese, dove alcuni avevano cercato rifugio. Sono così enormi questi fatti, che molti scrittori per partito preso cercarono attenuarli o negarli, quella perla del Cantù fra gli altri, ma, oltrechè negli storici più gravi e nelle corrispondenze private e diplomatiche, sono concordemente attestati da certi diari manoscritti, che si conservano a Cesena e sono opera di preti o di gente ad essi devotissima. Non c'è quindi da dubitarne, tanto più che le gesta del cardinale Albani a Cesena si rinnovarono quasi identiche, se non peggiori, il 21 gennaio a Forlì, il 24 a Faenza, e il 25 a Imola, dove i Papalini si congiunsero cogli Austriaci, ritornati subito, e tutti insieme furono il 26 a Bologna, dove, per colmo d'obbrobrio (tanto era l'orrore inspirato dai lanzichenecchi papali) gli Austriaci furono accolti e acclamati, come salvatori.

Volle ora l'Austria far suo pro dell'esecrazione [150] eccitata da queste tragedie, per vantaggiarne le sue vecchie cupidigie sulle quattro Legazioni? Se ne adombrò il Papa e pensò di opporre stranieri a stranieri nello stesso modo che opponeva una parte dei suoi sudditi all'altra? Ossivvero la Francia si mosse di suo per bilanciare l'influenza dell'Austria e impedirne un ulteriore ingrandimento in Italia? Fatto è che ora accade questo: l'Austria cerca estendere i suoi partigiani colla sètta Ferdinandea; i Francesi di Luigi Filippo occupano Ancona, dandosi le solite arie di venire in aiuto ai liberali, che invece perseguitano per conto del Papa al pari degli Austriaci; le truppe del Papa neppur si provano di resistere e nondimeno il cardinal Bernetti (lui, che avea chiamati e richiamati gli Austriaci) protesta contro la nuova invasione straniera, mentre poi, per poter fare a meno di Austriaci e Francesi, organizza le sue masnade in Centurioni (vera sètta di scherani sedentari, raccolta luogo per luogo, a cui era assicurata l'impunità d'ogni delitto) e di lì a poco, per compir l'opera, assolda due reggimenti di Svizzeri.

Lo dissi già l'anno scorso. Se non vivessero ancora molti della generazione, che l'ha visto cogli occhi proprî, difficilmente si crederebbe ad un simile viluppo di stoltezze e d'iniquità (pare che molti, [151] troppi Italiani se ne siano scordati), eretto, in pieno secolo XIX, a sistema di governo, per eccellenza conservatore, e a cui non mancarono neppure interpreti teorici più sfrontati, lo Haller nella Restaurazione della scienza politica, il Canosa nell'Esperienza ai Re della terra, Monaldo Leopardi, il padre del poeta, nei Dialoghetti sulle materie correnti nel 1831, e parecchi altri.

Il paese era prostrato senza più nè fiducia, nè energia, nè speranze. Gli esuli invece numerosissimi s'agitavano, ed ora principia la serie dei tentativi rivoluzionari, organizzati dal di fuori e che non trovano dentro se non consensi spicciolati dei più arrischiati, dei meno in cervello, dei meno atti e veder chiaro e a riferire giustamente, o peggio ancora, di coloro che pescano nel torbido per professione; un quissimile delle proscrizioni e dei ritorni guelfi e ghibellini dei nostri Comuni medievali.

Notiamo intanto. - Anche l'insurrezione della Guardie Civiche di Romagna nel 1832 ha un carattere iniziale di semilegalità, perchè si mossero richiedendo l'esecuzione delle promesse del Bernetti, quel burlone dall'êra novella, e se all'ultimo intonarono nei loro bivacchi e nella breve pugna di Cesena il Ça-ira e la Carmagnola, reminiscenze [152] giacobine, fu l'immanità della repressione, che dimostrò non esservi possibilità d'intesa col Papa ed i suoi ministri.

Ma, in mezzo a questo pandemonio di congiure, di promesse non mantenute, d'invasioni straniere e di brigantaggio organizzato, non è men vero che un'opinione moderata va spuntando, il proposito di opporre il bene al male, di mettere tutto il torto dalla parte del governo, di appellarsi all'opinione pubblica liberale, che dopo il 1830 va sempre più slargandosi e imponendosi in tutt'Europa, e di forzarla a metter riparo a tante enormezze. Contemporaneamente però, e appunto in quest'anno 1832, Giuseppe Mazzini fondava la Giovine Italia, il cui programma era l'azione immediata, e un determinar tutto a priori, l'unità nazionale, la repubblica come forma di governo, l'insurrezione popolare, come mezzo a conseguir l'una e l'altra, e persino una riforma educativa e religiosa, contenuta nella sua celebre formola: Dio e Popolo, ed ecco una nuova ragione di dissenso e di contrasto fra i liberali.

Ormai è tempo però di non giudicar più tali dissensi e contrasti solo dalla riuscita e di sollevarsi ad una critica più giusta, che tenga conto delle condizioni d'allora e soprattutto veneri, come [153] merita, tutta questa forte generazione d'uomini, che fra tante ruine non disperò mai, non si accasciò mai sull'orma sua, ma lottò tenacemente e sempre, e quante volte cadde rovesciata, altrettante si rialzò e riprese a combattere, variando arme, propositi, ed anche moltiplicando colpe ed errori, se si vuole, ma senza contar mai le vittime, delle quali aveva seminata la via.

La propaganda mazziniana trovò in Romagna molti aderenti; in Bologna assai meno allora e dopo. Allora poi le nocquero soprattutto le due imprese tentate in Piemonte e in Savoia nel 1833 e 34, che parvero e sono veramente d'una supina e colpevole inanità e giovarono non poco alla reazione, la quale, diffidando sempre delle giovanili velleità di Carlo Alberto, voleva, secondochè bucinavasi nelle congreghe del sanfedismo piemontese, far assaggiare anche a lui sangue di liberali.

Scorse così qualche anno. Fra il 1837 e il 38 Austriaci e Francesi se n'andarono di nuovo. Al Papa rimanevano gli Svizzeri e qualche reggimento indigeno, ma la sua difesa migliore e più fida gli parevano i Centurioni, le spie e la polizia, che erano tutt'uno. Mazziniani e liberali si riscossero. A Bologna capitò Carlo Poerio, nome divenuto poi famoso, e s'ebbe da esso contezza di gravi rivolgimenti [154] prossimi a scoppiare nel regno di Napoli, ov'erano, diceva (parlando a nome del Mazzini), armi pronte, animi disposti ad ogni estremità, tremila Calabresi, ai quali bastava un cenno per muoversi in aiuto d'altre provincie italiane, che insorgessero, e persino si faceva assegnamento su buon nerbo di Albanesi, gente manesca e ardente di combattere per l'Italia.

In questo emissario mazziniano, che profetizza tali miracoli, chi riconoscerebbe il Poerio moderato e cavouriano del 1860? Anche fra i compromessi mazziniani del 33 in Piemonte c'è Vincenzo Gioberti, e chi direbbe che sette od otto anni dopo scriverà il Primato? Ma sono appunto questi trapassi, queste variazioni, queste gradazioni, che danno impronta così originale e così sincera al movimento rivoluzionario, segreto e palese dell'Italia, e a biasimarli o lodarli col senno del poi si può fare dell'inutile polemica retrospettiva, ma non si penetra nell'intima psicologia di questa storia.

Non tutti a Bologna aggiustarono fede alle promesse del Poerio, nè tutti le giudicarono d'egual valore, specie quel soccorso degli Albanesi, che parve alquanto fantastico; nondimeno, per non perdere un'occasione, se mai era, un comitato rivoluzionario si riordinò nel 1840. Avrebbe voluto essere indipendente [155] del tutto dalla direzione mazziniana, pure temendo che coll'ignorare ciò che tramava la Giovine Italia, accadesse di disgregare le forze, la nuova cospirazione s'accontò con alcuni, che ancora aderivano in tutto al Mazzini, e formò con essi un cosiddetto Comitato d'azione, il quale cercò relazioni e aderenze con Ferrara, le Marche, Roma e la Toscana. Si aspettava il segno da Napoli, ma Napoli non si moveva, anzi pareva ora aspettarlo essa dallo Stato Romano. In queste incertezze si preparava alla meglio l'azione, riunendosi i cospiratori in una villa vicina a Bologna, ove tra i più impazienti era Luigi Carlo Farini, che sfidando mille pericoli accorreva nottetempo e a cavallo da Ravenna, e prima che albeggiasse ripartiva.

È il caso di ripetere anche qui: chi indovinerebbe in questo audace e romantico cospiratore il futuro storico dello Stato Romano, così severo alle vecchie cospirazioni politiche, ed il futuro dittatore delle provincie emiliane nel 1859?

Del suo mutamento molti scrittori repubblicani, Aurelio Saffi fra gli altri, gli fanno acerbo rimprovero; ma perchè? Non mutò anche il Saffi, di moderatissimo divenendo Triumviro della Repubblica Romana e rimanendo poi sempre uno dei più onorati e solitari epigoni della fede mazziniana?

[156]

Non c'è di peggio della passione politica per far confondere il criterio della fazione con quello della storia anche negli animi più retti.

Allora il Farini era dunque fra i più insofferenti d'indugi e per romperli con qualche probabilità di riuscita e chiarirsi del vero, il Comitato spedì a Napoli segretamente il conte Livio Zambeccari, bolognese, fervido e coraggioso uomo, ma ahimè! il più disposto da madre natura a pigliar lucciole per lanterne. Scelto bene il referendario!

Queste le condizioni delle Romagne dal 1832 al principio del 43; questo il paese, nel cuore del quale era stato mandato ad esercitare il suo ministero di pace e di misericordia Giovanni Maria Mastai-Ferretti, vescovo d'Imola. Ora, che uomo era esso? quale la sua vita insino allora? e che parte era la sua fra gli oppressi e gli oppressori?

Più che mai ci troviamo collocati ora, o Signore, fra la storia e il libello, fra la satira e il panegirico; fuoco nascosto sotto la cenere ingannatrice, direbbe il poeta latino, su cui bisogna camminare con precauzione. Un gran santo, un gran genio fin dalla culla, ne fanno alcuni; un bimbo nato col bernoccolo d'ogni scelleratezza, ne fanno altri; frottole, leggende l'una e l'altra versione; nè per conoscer l'uomo è mestieri in questo caso (come in [157] quasi tutti gli altri del resto) pigliar le mosse così di lontano.

Il conte Giovanni Mastai era un nobile di provincia, nè molto ricco, nè di molto antica data. Apparteneva a rispettabile famiglia di Sinigaglia, in cui nel secolo XVI era entrata sposa una Garibaldi; scoperta atavistica, che a qualcuno pare molto notevole; a me no. Il padre, il conte Girolamo, era un galantuomo; la madre, la contessa Caterina, una signora pia, virtuosa e bellissima. Giovanni Maria fu l'ultimo de' suoi nove figliuoli; studiò nel Collegio degli Scolopi a Volterra. Ne uscì, perchè epilettico, terribile malattia, dalla quale guarì cogli anni e coi viaggi, ma gli lasciò sempre uno strascico di eccitabilità, di emottività subitanea e mutevole, «di nervosa passione», come dice il Farini, storico e medico, accennando a spiegare con questo, e forse con ragione, non poche delle ulteriori vicende di Pio IX. Tali in realtà l'infanzia e l'adolescenza del Mastai.

La sua precocità negli studi, la sua vena poetica, che prendeva a soggetto talvolta le battaglie napoleoniche, i suoi mirabili progressi, che facevano andare in solluchero i maestri, i quali lo compensavano di corone accademiche, profetando fin d'allora ben altre corone all'alunno promettentissimo, [158] sono le solite frasche dei panegiristi, siccome altri aneddoti, relativi alla sua giovinezza e coloriti poco meno che col pennello di Svetonio, quando narra le amenità dei dodici Cesari, sono ignobili fanfaluche o amplificazioni dei detrattori.

Tornato alla sua Sinigaglia nel 1809, vi si fermò fino alla ristaurazione di Pio VII. Giovine, malaticcio, distratto quindi per necessità da studi troppo intensi, è naturale che abbia sentito e vissuto da giovine.

È il tempo che la vita italiana, su cui è passato il soffio della Rivoluzione Francese, sta trasformandosi profondamente; è il tempo, che la leggerezza arcadica sta cedendo il posto alla sentimentalità preromantica; è il tempo, che i nostri vecchi cicisbei e cavalieri serventi sono sulla via di trasformarsi in Oberman, in Werther, in Iacopo Ortis, in Renato.

A queste variazioni la gioventù è sensibilissima e tanto più la gioventù d'una piccola città di provincia, la quale naturalmente le esagera con poca misura di buon gusto sin nelle mode e nelle fogge esteriori. Non trovo nulla di strano quindi che il giovine Mastai si lasciasse crescere le chiome e le rabbuffasse con una certa premeditazione, che portasse una polacchetta grigia cogli alamari neri, un [159] berretto rosso, pantaloni screziati di colori vistosi, un cravattone sventolante, gli sproni agli stivali, un giardino alla bottoniera e un eterno sigaro in bocca, come il Giovinetto del Giusti, e che questo insieme di figurino, il quale oggi parrebbe un sintomo di mattoide (ogni tempo ha i suoi sintomi), allora invece solleticasse dolcemente le fantasie e i cuori delle sensibili fanciulle di Sinigaglia. Non trovo nulla di strano quindi che fra le più commosse a veder caracollare per le vie sopra un focoso destriero un tal tipo d'arrischiata eleganza locale, sia dato nominare una Lena popolana, che lo amò sul serio e a cui non fu fedelissimo, una principessina Elena Albani, che, per esemplare castigo del volubile Mastai, prima gli preferì un asino d'ussaro, ma autentico, poi andò sposa a un signorone di Milano, e lo piantò in asso, nonostante le pittoresche combinazioni del suo abbigliamento, e finalmente ch'egli tentasse consolarsi di questo abbandono con una Morandi-Ambrogi, piccola deità di palcoscenico, e giuocando al pallone sulle mura di Sinigaglia, o al bigliardo in qualche losca e affumicata stamberga di caffè ed in non troppo edificante compagnia, che allarmava la buona famiglia Mastai, una famiglia di schietti codini (checchè se ne sia detto), perchè il rivoluzionario ed [160] esule del 31, di nome Pietro, che molti citano e che per campare onestamente la vita faceva il lustrascarpe a Ginevra, non era niente affatto fratello di Pio IX, bensì un conte Ferretti, suo lontano parente.

Le abitudini, gli atteggiamenti, le mode e le piccole avventure del Mastai sono cose insomma di tutti i tempi e di tutti i luoghi e che si possono narrare d'ogni giovine, che non sia uno schietto imbecille, ed abbia un temperamento vivace, e tanto più d'un giovine, com'era senza dubbio il Mastai, indole gioviale e affettuosa, ma forse in fondo infelice per l'orribile malattia, che l'affliggeva, e bisognoso di sbattersi un po' di dosso la malinconia.

Nè ciò impedisce, anche se ebbe allora misteriosi contatti (possibilissimi, ma non provati di certo) con qualche inferraiuolato framassone, nè ciò impedisce, dico, che tramutatosi a Roma a cercar fortuna al seguito dello zio, monsignor Paolino Mastai, e trovatosi in tutt'altro ambiente, prima s'accodasse a quel prelatume mondano, ultimo avanzo degli eleganti abati settecentisti, la più comune forma del cicisbeismo romano, poi l'ascetismo sincero della madre ripigliasse il disopra nell'indole del giovine Mastai e finalmente che l'influenza e la protezione di Pio VII facessero il resto, spingendo [161] l'estrema emottività di lui in tutt'altra direzione da quella di prima.

Tuttociò è naturalissimo e sono inutili tutti gli sforzi dei libellisti a complicare romanzescamente e a colorire sinistramente questi primordi assai semplici e chiari del Vescovo d'Imola e di Pio IX, siccome sono superflui, mi pare, gli sforzi dei panegiristi fanatici a dissimularli e negarli.

Si narra che da prima tentasse entrare nelle Guardie Nobili del Papa e che risaputosi della sua infermità, il comandante, principe Barberini, non lo volesse ammettere. Erano gli ultimi guizzi degli antichi ardori cavallereschi, e si spensero così! Oramai l'ultima sua speranza erano il sacerdozio e la prelatura, quest'ultima la gran via degli onori e della fortuna nella Roma d'allora. Ma il Mastai, sempre più infervorato di idee religiose, cominciò bene la sua carriera, offrendosi ad un modestissimo ufficio di carità pei poveri orfani dell'ospizio di Tata Giovanni (Papà Giovanni vuol dire, in dialetto romanesco), un ricovero fondato già da un povero muratore, che si chiamava Giovanni Borghi.

In quella vita di sagrificio e di abnegazione operosa, la sua salute migliorò notabilmente, siccome gli avea presagito Pio VII, i cui incoraggiamenti ve l'avevano spinto, ed il giovine Mastai, ammiratore [162] devoto di questo Papa, che le violenze di Napoleone aveano circondato d'un'aureola di santità e di martirio, ebbe il presagio in conto di profezia e di miracolo, e si fece prete.

Com'è di tutte le nature ardenti e impulsive (ed il Mastai certamente lo era) ben presto le quattro mura dell'ospizio di Tata Giovanni gli parvero anguste alla nuova energia morale, risvegliatasi in lui, e gli sorrise un più vasto campo di lotta, la predicazione, la missione evangelica in terre di barbari e di idolatri ed, occorrendo, la persecuzione e il martirio. Si provò prima, come oratore sacro, nella chiesetta dell'ospizio, poi dinanzi a pili vario uditorio in San Carlo al Corso, ed il successo non fu nè piccolo, nè grande. Pure si parlò di lui e qui viene a collocarsi nella sua vita un aneddoto singolare e che allo studio dell'uomo, qual era, importa non poco.

Una delle ultime forme delle Sacre Rappresentazioni medievali, dalle quali ebbe origine il teatro moderno, e che più specialmente si riattacca, mi pare, a quelle, che nella magistrale opera del D'Ancona su questo argomento, sono dette i Contrasti, era un genere di predica popolare, fatta per lo più sulle piazze e di cui si valevano i missionari, la qual predica si faceva in due o tre contemporaneamente, [163] disputando fra essi in una specie d'azione dialogizzata fra un dotto e un ignorante, fra un peccatore indurito e il prete, che vuol convertirlo, e via dicendo. Or bene, il cardinale Testaferrata, vescovo di Sinigaglia, volle nel 1822 organizzare una di tali rappresentazioni in quella città e (caso o disegno che fosse) nella compagnia dei Missionari, colà spedita, fu scritturato il Mastai. Pochi anni prima Sinigaglia l'avea conosciuto, come dissi, sotto ben altre spoglie e ben altre sembianze. Rivederlo ora sul trespolo dei missionari, accanto a un gran crocifisso, sotto la zimarra del prete; udirlo esortare e minacciare i peccatori colla voce tremula, il gesto agitato, lo zelo, la passione d'un apostolo, in cui gli uditori subodoravano la contrizione d'un convertito, produsse un effetto incredibile, e qui pure la malevoglienza ha intrecciato leggende d'ogni fatta: bische e taverne invase a furor di popolo: sante Terese in estasi; Maddalene, penitenti, innamorate, impazzate. A noi basta notare l'antitesi drammatica significantissima anche in questo episodio della vita del Mastai.

Ne segue un altro nel 1823 di ben più vaste proporzioni: una sua missione mezzo tra diplomatica e apostolica al Chilì. Non più ora la modesta piazza d'una città delle Marche, ma un più vasto [164] orizzonte s'apre dinanzi alla fantasia del giovine e del prete: l'Oceano infinito, i monti mostruosi, la vegetazione dei tropici, selvaggi da convertire alla fede, repubblichette ringhiose e sanguinarie da ammansare, e, chi sa? forse il trionfo, forse invece la schiavitù, il martirio! Capo della missione era un monsignor Muzi, vescovo in partibus e compagno al Mastai un prete Sallusti, che ha narrato il viaggio in quattro grossi volumi, illeggibili veramente, nonostante che il viaggio fosse in realtà disastrosissimo, e i rischi corsi, e i patimenti sofferti non pochi nè lievi. Tutto però si riduce a mal di mare, tempeste, quarantene, nulla di molto romanzesco, voglio dire, nè come missione apostolica, perchè non si sa d'alcun idolatra convertito dall'eloquenza del Mastai, nè come missione diplomatica, perchè non si sa d'alcun importante negoziato condotto a termine da monsignor Muzi.

Ad ogni modo un immenso viaggio (di cui è certo esistere una narrazione scritta dallo stesso Mastai, ma ancora inedita e sconosciuta da tutti) un immenso viaggio per quei tempi da Roma a Santiago e da Santiago a Roma, ove furono di ritorno nel 1825, e trovarono morto da tempo Pio VII e succedutogli il Della Genga col nome di Leone XII, per fortuna del Mastai assai benevolo a lui. Difatto [165] lo nominò tosto Presidente dell'Ospizio di San Michele, asilo di vecchi e penitenziario di donne, in cui il Mastai, quanto era stato tenero, indulgente, pietoso nell'ospizio di Tata Giovanni, altrettanto si mostrò orgoglioso, severo, inflessibile; contraddizione singolare, che anch'essa dice non poco dell'indole dell'uomo e di parecchie sue gesta future. Due anni dopo era nominato Arcivescovo di Spoleto, ed ivi è il suo primo contatto colla Rivoluzione Italiana.

Dissi già che la Rivoluzione Bolognese del 31 avea spinte le sue squadre, sotto il comando del Sercognani, vecchio soldato di Napoleone, sino ad Otricoli. Non osò correre su Roma e si fermò dinanzi a Rieti, dove Gabriele Ferretti, un vescovo con atteggiamenti guerreschi alla medio evo e che fu poi Segretario di Stato di Pio IX, stava con bande armate sugli spaldi della città. Il Sercognani retrocedette sino a Spoleto ed ivi l'arcivescovo Mastai riescì a disarmare e sciogliere le truppe del Sercognani.

È d'uopo sceverare ancora la leggenda dalla realtà. C'è chi ha dipinto il Mastai in questa occasione un politico sopraffino e senza scrupoli, che fa di Spoleto la Capua del Sercognani e dopo averlo ammollito nelle delizie e versandogli l'oro a piene mani, lo [166] induce a disarmare e sciogliere le sue truppe, le quali alla spicciolata, credendo ridursi alle proprie case con un salvacondotto, cascano invece in mano agli Austriaci, che s'avanzavano a grandi giornate da Bologna ed Ancona. C'è invece chi ha dipinto il Mastai, come già intinto di pece rivoluzionaria e amoreggiante coi liberali, laonde poi sarebbe caduto in disgrazia di Gregorio XVI e tramutato ad Imola. Quanto all'oro intascato dal Sercognani, parli per questo povero soldato la sua fine. È morto esule e miserabile in uno spedale di Parigi. Quanto all'arcivescovo Mastai, la sua condotta in quel frangente non merita:

Ni cet excès d'honneur, ni cette indignité.

Dinanzi ai primi subbugli di Spoleto egli si era prudentemente allontanato. Tornò, perchè il Governo Pontificio avea messo nelle mani di lui anche il potere civile e allora si conformò pienamente a quello che aveva fatto il cardinale Benvenuti colla capitolazione d'Ancona. Il Sercognani, cioè, che retrocedeva da Rieti, sapendo già della capitolazione di Ancona e dell'intervento austriaco, capitolò esso pure nelle mani del Mastai. Che colpa ebbero il Mastai e il Sercognani, se la capitolazione fu disdetta? Tuttociò si vede chiaro nelle lettere del [167] Mastai al Bernetti e al Benvenuti, che sono pubblicate, e da esse risulta soltanto che il Mastai fu mite ed onesto fra tanta gente senza onore e senza pietà. È molto; ma non è quello che amici e nemici si sono piaciuti d'immaginare!

Ed ora torniamo ai cospiratori di Bologna, che lasciammo nella primavera del 43, aspettanti per muoversi l'annunziata rivoluzione di Napoli, dove avevano spedito per informarsi il conte Livio Zambeccari.

Figlio d'un areonauta, che, dopo prove e riprove, s'era accoppato precipitando, come Icaro, dal cielo, mentre stava cercando il punto d'appoggio nell'aria e la direzione dei palloni volanti, nel conte Livio s'era travasato non poco del fantastico genio del padre. Emigrato nel 21, cavaliere errante di repubblica, prima in Ispagna, poi nell'America meridionale, appena tornato, s'era rimesso all'opera rivoluzionaria, nella Giovine Italia. Spedito ora a Napoli dal Comitato bolognese, scriveva tosto colà mirabilia, assegnando persino il giorno che la rivoluzione sarebbe scoppiata, cioè l'ultimo di luglio, festa di Sant'Ignazio. Non gli fu creduto! E poichè trovavasi in Bologna a quei giorni, sotto finto nome, il Ribotti, esule nizzardo, partecipò tanto egli stesso, uomo di grande ardire e di buon ingegno, [168] ai dubbi che tormentavano il Comitato sulla veracità di quelle asserzioni, che si profferse d'andare in persona ad accertarla.

Intanto però il Governo Pontificio era già sull'intesa e, per cominciare, fece accerchiare da birri e soldati la villa, in cui dimoravano i fratelli Pasquale e Saverio Muratori, principalissimi fra i congiurati. Essi scamparono colle armi in mano, e messa insieme una guerriglia cui si unirono altri usciti da Bologna (non tutti purtroppo brava e onesta gente, com'erano i fratelli Muratori), presero a Savigno la via dei monti, batterono a Castel del Rio una squadra di Papalini, e quindi aiutati da Don Verità, prete di Modigliana, dal Montanelli e da altri amici di Toscana, poterono finalmente raggiungere il mare, imbarcarsi e rifugiarsi in Corsica.

Svanita ogni speranza d'un moto napoletano, benchè in realtà una preparazione vi fosse stata in Malta, iniziata da Nicola Fabrizi e mezzo secondata e mezzo avversata dal Mazzini (il che spiega le illusioni del povero Zambeccari), svanita, dico, ogni speranza d'un moto napoletano, il Ribotti, tornato a Bologna e per sfruttare il fermento, che durava ancora vivissimo dopo il tentativo dei fratelli Muratori, ne pensò un altro, più rischioso ancora, se possibile, in Settembre.

[169]

Villeggiavano tra Imola e Castelbolognese tre cardinali, l'Amat, il Falconieri e Giovanni Maria Mastai, creato già Cardinale da Gregorio XVI fino dal 1840. Parve al Ribotti da tentare un bel colpo: sorprendere i tre Eminentissimi, sostenerli in ostaggio, ribellare quindi le Romagne, le Marche e l'Umbria e marciar dritti su Roma. Detto e fatto. L'8 settembre 1843, a notte chiusa, aduna al ponte di Savena, presso Bologna, un duecento compagni, armati alla meglio, alla peggio, e s'incammina verso Imola. Dovevano per via trovare altri aiuti e nessuno comparve. A Imola silenzio sulle mura e porte sbarrate. A Castelbolognese lo stesso. Nella villa, che accoglieva i tre Cardinali, la gabbia aperta (come s'esprime in certe sue Memorie uno dei congiurati) e i tre cardellini volati via.

Non per questo il Ribotti si perse d'animo. Sbandati i suoi compagni, cercò altre trafile rivoluzionarie (ce n'erano tante!), si provò quasi da solo di sommuovere Ancona e le Marche, osò penetrare sino in Roma: figura arditissima di cospiratore, cui fa riscontro in questi moti del 43 quella di Felice Orsini, che apparisce ora per la prima volta nel dramma tenebroso delle cospirazioni politiche romagnuole, e vi dovea poi acquistare purtroppo così terribile celebrità.

[170]

Il Governo infierì con Commissioni di sanfedisti spietati, nelle quali è rimasto infame il nome d'un colonnello Freddi, che le presiedeva, e colpì di morte, di galera, di esilio un numero grandissimo di persone, mescolando ad arte nei giudizi e nelle sentenze i patriotti coi colpevoli di delitti comuni.

Nei tentativi dell'anno dopo, 1844, si compromisero il Galletti, che fu poi Ministro di Pio IX, Pompeo Mattioli ed altri, gettati tutti in Castel Sant'Angelo, mentre dall'estremo della Calabria giungeva l'eco della tragedia dei fratelli Bandiera, pietosa tanto, che il Mazzini fece di tutto per togliersene di dosso ogni responsabilità.

Contuttociò non un anno, come vedete, passava nelle Romagne senza che il fermento rivoluzionario in un modo o nell'altro si provasse a prorompere.

Il moto però, che seguì nel 1845, mentre per certi rispetti somiglia a quello del 1832, ha tuttavia un carattere tutto suo e che lo distingue così dai tentativi antecedenti, come dai posteriori di pura derivazione mazziniana.

Dissi già del Memorandum delle cinque Potenze per indurre a riforme il Governo Pontificio. Rimasto lettera morta, i cospiratori del 1845 lo ripresero a loro insegna, sperando così propiziarsi l'Europa e indurla con essi in una specie di morale complicità.

[171]

L'idea in sè non val molto, ma indica però che l'inutilità degli sforzi tentati sino allora avea generato negli animi una reazione e che anche fra gli accecamenti delle cospirazioni un'opinione moderata s'andava formando, come ho già fatto notare, la quale sentiva, se non altro, la necessità di spinger gli occhi al di là delle chiuse muraglie delle sètte.

Di qui il Manifesto di Rimini, opera di Luigi Carlo Farini (lo stile lo dice) in collaborazione col Montanelli, con le parole rimaste celebri: «Non è di guerra lo stendardo, che noi inalziamo, ma di pace, e pace gridiamo e giustizia per tutti e riforme di leggi e garanzia di bene durevole.... Preghiamo e supplichiamo i principi a non volerci trascinare alla necessità di addimostrare che quando un popolo è abbandonato da tutti e ridotto agli stremi, sa trovare salute nel disperare salute.»

Con questo programma, che parlava ai sordi, si sollevò in Rimini Pietro Renzi nel Settembre del 1845, ma alla sollevazione di Rimini, finita subito, non rispose che un ardito combattimento di Pietro Beltrami e di Raffaele Pasi alle Balze e poi tutti scamparono in Toscana, il refugium peccatorum d'allora, come lo chiamava Massimo d'Azeglio.

Fra i propositi riformisti d'una opinione politica moderata e queste audaci e frammentarie prove di [172] sommossa a mano armata v'ha una contraddizione palese ed è quello che si studiò di persuadere a tutti Massimo d'Azeglio, viaggiando ora a piccole giornate e raccogliendo poi la sostanza delle sue osservazioni e dei suoi consigli nel celebre opuscolo, che intitolò: I casi di Romagna, ammonimento d'amico ai cospiratori, requisitoria terribile contro il Governo Pontificio, e portavoce, sto per dire, di tutta quell'aperta, libera e pubblica cospirazione letteraria, di cui l'opuscolo del D'Azeglio è l'ultimo atto e il più pratico, perchè non foggia e non architetta sistemi storici o disegni politici, bensì espone fatti e accusa e difende persone. Vi si sente però l'eco della scuola romantica e liberale lombarda, come di chi, frapponendosi fra oppressi ed oppressori, consiglia ai primi la rassegnata, ma operosa, pazienza manzoniana, ed intima ai secondi il: «Dio vi ha abbandonati e non vi temo più» del Padre Cristoforo a Don Rodrigo.

Dal 1820 al 1848 la letteratura italiana è tutta una vasta cospirazione politica, che inspira, accompagna, modera ed eccita il sotterraneo lavorìo delle sètte, prorompente di quando in quando nelle sommosse. Dopo il 1840, questa letteratura, seguendo il moto sempre crescente dell'opinione pubblica liberale europea, si scioglie come può e dove può dal [173] sottinteso, dall'allusione, dall'anfibologia e affronta alla scoperta il problema della redenzione della patria, facendo sì che la questione italiana esca fuori dall'ombra e s'imponga da sè ai pensieri degli uomini, contrari o favorevoli, che siano. Più la crisi s'approssima e più questo carattere apertamente politico e militante della letteratura italiana si determina nella lotta ancora tutta ideale di due scuole diverse, che già si trovano a fronte: da un lato il Primato di Vincenzo Gioberti, cattolico, federale, monarchico, neoguelfo e romantico schietto, e dietro a lui le Speranze d'Italia di Cesare Balbo, la Nazionalità Italiana di Giacomo Durando, la Sovranità temporale dei Papi di Leopoldo Galeotti, i Pensieri d'un Lombardo di Luigi Torelli, i Casi di Romagna di Massimo d'Azeglio; dall'altro Giuseppe Mazzini, non cattolico, ma mistico, non federale, ma unitario, non monarchico, ma repubblicano, e a lui più aderenti, benchè con parecchie diversità, il Cattaneo e Giuseppe Ferrari.

Dalla scuola del Gioberti esce il partito riformista, il primo cioè che si esperimenterà nell'azione, quando questa, mercè dell'umile Vescovo d'Imola, uscendo dai libri e dalle sommosse, incomincierà su di un campo che può dirsi nazionale davvero, e diverrà ben presto europeo.

[174]

Tale svolgimento del pensiero politico italiano e la conseguente formazione dei partiti, che io accenno di volo, ed è assai bene esposto in un libro recente di Agostino Gori, si toccano con mano nei Ricordi di Marco Minghetti e per quel poco o molto che ne trapassa nel Vescovo d'Imola e serve a creare il Pio IX del 1846, nulla è più suggestivo e d'un realismo artistico, che meglio ricostruisca scena, ambiente, e ci faccia quasi veder l'aspetto e riudir le voci dei personaggi, del libro bellissimo, in cui il mio amico, Pier Desiderio Pasolini, ha raccolte le Memorie di suo padre.

Il Mastai, liberale di vecchia data, e di cui Gregorio XVI avrebbe detto: «in casa Mastai è Carbonaro persino il gatto,» è un'invenzione dei glorificatori ad ogni costo di Pio IX ed una calunnia dei Gregoriani, trasformazione questi ultimi dei Vecchi Sanfedisti e Centurioni Pontifici, che i primordi del pontificato di Pio IX avevano sgominati ed a lui erano fieramente nemici. A Spoleto nel 1831 il Mastai non aveva inferocito. A Imola (ed era noto) s'addolorava dei delitti orrendi e della più orrenda impunità dei Centurioni papalini, e ciò bastava, se non era di troppo, per farlo passare a Roma per settario e per liberale. Se ne ha la prova in alcune lettere di lui dirette a monsignor [175] Polidori e pubblicate alcuni anni fa dal conte Paolo Campello. «Si è procurato, scrive il Mastai nell'agosto del 1834, di dipingermi in Roma come un vescovo poco meno che liberale.» E, alludendo a Spoleto, soggiunge con amarezza: «le impertinenze, che ho ricevuto dai cosiddetti Papalini, è certo che non le ho ricevute dai liberali nella quaresima del 1831: questo argomento, se lo esternassi a certa classe di Papalini, sarebbe bastante a farmi divenire poco meno che un M.r Grégoire.» Dal contesto della lettera si vede chiaro che le accuse muovono dai Centurioni e dai loro capi, i quali, per quanto il Mastai dissimuli, esso disprezza come meritano, concludendo: «in mezzo a queste tempeste di fanatismo mi sento tranquillo!» Notevolissimo è pure il brano seguente d'una lettera scritta al Polidori nel novembre del 1845, due mesi dopo la sommossa di Rimini, informandolo d'un conciliabolo fra i Cardinali Legati di Bologna, Ferrara e Ravenna. «La mia politica, scrive, non ha oltrepassato l'a, b, c e per conseguenza giudico con questi soli primi elementi, e dico che un tal congresso darà a chiacchierare, senza che se ne possa ottenere risultati.» E chiude con un testo latino, il quale significa: «se Dio non ci aiuta lui, non sarà sicuramente il congresso dei tre Eminentissimi, che ci salverà!»

[176]

Un certo lievito d'opposizione traspare, non v'ha dubbio, da queste parole, e pel solo fatto di non essere un malvagio, come gli altri, uno scoramento malinconico, un sentirsi solo, isolato, impotente a fare un po' di bene, come avrebbe desiderato, e circondato dal sospetto, dalla diffidenza e dallo spionaggio.

È appunto in questo momento ch'egli si lega di tanta intrinsichezza colla famiglia dei Pasolini e s'intende bene in quale precisa disposizione di spirito.

Quella vecchia villa di Montericco presso Imola, ove i Pasolini abitavano, si capisce quindi che a poco a poco dovea diventare pel cardinale Mastai un asilo, un rifugio, un riposo, in mezzo alle tante tristezze e iniquità, fra le quali gli toccava di vivere. Colà trovava un giovine signore, indipendente affatto per la sua alta condizione sociale, pei suoi principii religiosi, per le sue opinioni liberali, per le qualità del suo ingegno e del suo carattere, così da ogni timore del Governo, come da ogni vincolo settario (caso raro in Romagna a quel tempo) ed al suo fianco una gentildonna, giovanissima essa pure, colta, pia, graziosa e tutta lieta della sua domestica felicità, un vero raggio di sole in quel buio della Romagna d'allora.

[177]

Nell'interno di quella casa, quale l'ha descritto lo stesso Giuseppe Pasolini in una lettera a sua nuora, «una semplicità, che sentiva d'austero e pure non contrastava ai comodi della vita, un odore di vecchio e di rispettabile passato e presente, una solitudine senza vicini obbligati, una vita quieta, ma operosa; modesta, ma non inelegante.»

Il Cardinale, non volgare uomo e con educazione ed istinti signorili, doveva sentirsi attratto dalla genialità di quell'ambiente, che poi lo affidava d'una lealtà d'amicizia e d'una onestà d'intenzioni, non facilmente trovabili altrove da lui in quel momento. Non nudrito di forti studi, nè abituato a scrutare a fondo gli argomenti, che lo interessavano, ne discorreva volentieri con un certo dilettantismo vago, che, scontrandosi colla solida e varia coltura del Pasolini e colla fresca, spontanea e simpaticissima vivacità della sua gentile signora, se ne sentiva come rinfrancato, e gli schiudeva nuovi orizzonti, facendogli smettere quella nativa diffidenza di sè e delle proprie forze, per cui, ad esempio, nello stesso modo che al Polidori scriveva nel 45: «la mia politica non ha oltrepassato l'a, b, c,» così ripeteva ora al Pasolini: «ma già io non intendo un ette di politica, e forse sbaglio.» Ciò a proposito d'un tema, su cui era naturale che tornassero spesso, [178] la possibilità teorica e pratica d'un accordo fra il progresso e la religione, fra la fede cattolica ed i principii liberali, ed il contrasto fra le aspirazioni del patriottismo italiano ed i metodi di governo del Papa e dell'Austria, che rendevano necessario cotesto orribile intreccio di sètte opposte le une alle altre, di violenze, di sommosse, di castighi, di repressioni, da cui non si vedeva un'uscita.

Il Mastai era ora in quella medesima condizione d'animo, in cui s'era trovato il cardinale Chiaramonti, che fu poi Pio VII, suo predecessore appunto nel Vescovato d'Imola e da lui venerato come un santo, il quale in una sua Omelia del dicembre 1797, documento singolarissimo, volle con accesa eloquenza dimostrare che i principii del Vangelo non contrastavano a quelli della vera democrazia e che si poteva benissimo essere buoni Cattolici e buoni Repubblicani.

Il Mastai non aveva forse tenuto dietro da studioso allo svolgimento di questa dottrina di conciliazione, che, ripresa dal romanticismo liberale del 1830, imprimeva ora un moto interiore d'opposizione agli oscurantisti ed ai Gesuiti in tutto il giovine clero e avea rappresentanti notevolissimi nella scienza, nelle Università d'Europa e nella Chiesa, apertamente professandola dalle cattedre e dai pulpiti [179] di Parigi l'Ozanam, l'abate Coeur, il Lacordaire, il Ravignan, che il conte e la contessa Pasolini dovevano aver ascoltati nei loro recenti viaggi, come gli avea ascoltati il Minghetti, che viaggiava appunto in Francia nel 1844.

Il Mastai non avea forse, dico, tenuto dietro da studioso allo svolgimento di questa dottrina, ma la sentiva in fondo all'animo suo, come l'hanno sempre sentita del resto gli stessi rivoluzionari italiani, i quali dai Carbonari al Gioberti e al Mazzini non hanno mai dissociata del tutto la tendenza spiritualista e religiosa dalla loro azione politica. Si andava ora più oltre. I libri del Gioberti e del Balbo fondavano addirittura su quella dottrina i loro disegni di redenzione della patria italiana, e così d'uno in altro argomento di conversazione era facile a Giuseppe e Antonietta Pasolini condurre sul difficile terreno della politica il cardinale Mastai, il quale, colla fantasia facilmente accensibile e infervorandosi sempre più nei suoi lunghi e frequenti colloqui con essi, finiva a deplorare commosso e quasi piangente la condizione tristissima del presente e ad augurare un migliore avvenire, che solo un po' di buon senso, di mitezza e di giustizia cristiana nel governo gli pareva dovessero bastare a far conseguire.

[180]

Per confermarlo sempre più in queste idee, una volta era il conte Giuseppe, che gli dava a leggere il Primato di Vincenzo Gioberti, un'altra era la contessa Antonietta, che gli prestava le Speranze d'Italia di Cesare Balbo e gliene chiedeva un giudizio. Da un altro amico il Cardinale aveva già avuti i Casi di Romagna del D'Azeglio, e l'avea ricambiato con un libriccino di devozioni.

Per tal guisa la descrizione sincera dell'orribile realtà presente, riconfermatagli appunto in quei giorni dal fatto d'un centurione papalino, ferito a morte in una rissa notturna e che gli era venuto a cascare fra le braccia nella chiesa di San Cassiano, mentre egli stava pregando, per tal guisa, dico, la descrizione sincera dell'orribile realtà presente e le speculazioni d'una filosofia politica, che augurava una confederazione italiana, di cui fosse anima il Papa e spada Carlo Alberto, si univano a preparare, un po' affrettatamente, se si vuole, e come si vide dappoi, nell'umile e impressionabile Vescovo d'Imola il Pio IX del 1846, il quale per allora nel salotto dei Pasolini, discutendo di quei disegni d'avvenire, s'appoggiava impaziente ora su l'uno, ora sull'altro dei bracciuoli d'un antico seggiolone, incerto se le idee del Gioberti e del Balbo fossero sogni o vaticinii, e talvolta fissava meditabondo e [181] lungamente un quadro, che appeso alla parete gli stava dinanzi, un vecchio quadro, che rappresentava Vittorio Amedeo III, re di Sardegna.

Il 1º giugno 1846 Gregorio XVI morì. Nel primo momento il governo temette al solito un casaldiavolo, ma non fu nulla. L'opinione moderata ormai avea fatto strada, ed i popoli si contentarono d'inviar memoriali al Conclave chiedendo riforme. Parevano necessarie ed urgenti, come abbiamo visto, anche al cardinale Mastai, che tutto caldo delle sue letture e dei suoi dialoghi coi Pasolini s'avviò al conclave, riponendo nel baule i libri del Gioberti, del Balbo e del D'Azeglio per offrirli al nuovo Papa, circostanza che è narrata dal Balbo e che i ricordi personali di Pier Desiderio Pasolini mi confermano ora pienamente con altre particolarità, taciute nel suo libro.

Quanto a Giuseppe Pasolini, esso s'accomiatò dal Vescovo d'Imola con queste solenni parole: «Io non posso tacerle che in fondo al mio cuore sta l'ardente speranza che dalla cattedra di San Pietro ella possa promulgare e benedire quei principii che tante volte abbiamo insieme discussi, e soddisfare quei voti che sì spesso abbiamo concordemente innalzati al cielo pel bene di tutta la Chiesa e per quello di questa povera Italia.»

[182]

A cui il Mastai rispose: «Caro Conte, il Papa non sarò io; ma state tranquillo, e ditelo, ditelo bene a vostra moglie; i libri, che mi avete dati a Montericco gli ho messi nel baule, perchè voglio darli al nuovo Papa.»

Il Mastai partì e il popolo gli vedea volare intorno alla carrozza da viaggio una bianca colomba, prenunziatrice della buona novella. L'oscura vita del Vescovo d'Imola era finita! La grande leggenda era già incominciata!!

Il conclave fu brevissimo. Stavano a fronte due fazioni, capitanate l'una dal cardinale Lambruschini, l'altra dal cardinale Bernetti. E se il cardinale Gaysruck, depositario, si disse, del veto dell'Austria, fosse giunto in tempo, forse la fazione del Lambruschini vinceva. Ma il Gaysruck non giunse in tempo e il Lambruschini ebbe fretta. Al primo scrutinio egli ebbe 15 voti, 12 il Mastai, 23 andarono dispersi. I 23 non avevano un candidato proprio e sicuro, e per tagliar la via al Lambruschini si unirono ai 12 del Mastai e lo elessero. All'ultimo scrutinio il Mastai era fra i verificatori e leggendo il suo nome tante volte ripetuto, le mani gli tremavano, gli occhi gli si offuscavano di lagrime e quando si vide eletto: «Ah, signori, gridò, che cosa hanno mai fatto?» e cadde svenuto. Quello [183] che avessero fatto, non lo sapevano davvero. Ah! se lo avessero saputo!!...

Notate, Signore. Quando il cardinale Mastai divenne Papa col nome che assunse di Pio IX in omaggio alla memoria di Pio VII, dense nuvole di reazione si accavallavano sempre più minacciose per ogni dove. Quella che negli eufemismi del gergo diplomatico si chiamava l'entente cordiale fra Luigi Filippo e l'Inghilterra era rotta dal volgare inganno dei matrimonii spagnuoli, con cui il Re borghese avea voluto arieggiare Luigi XIV e invece lo avea costretto a gettarsi nelle braccia dell'Austria, che ora lo reggeva, come la corda regge l'impiccato; in Svizzera con l'aiuto dell'Austria e della Sonderbund, ossia Lega dei sette Cantoni cattolici, i Gesuiti s'erano dimostrati prontissimi per sete di dominio ad accendere magari la guerra civile, se occorreva; in Gallizia l'Austria sguinzagliava i contadini contro i nobili ribelli, fino a che fra le discordie e le stragi degli ingenui, che cascano nelle sue trappole, s'impadronirà di Cracovia. In Italia pure, salvo che in Piemonte, tutto il satellizio austriaco dei nostri principotti e principini accennava manifestamente a reazione, compresa, dopo la morte del ministro Don Neri Corsini, la mite Toscana, la quale fino allora era pur parsa una piccola [184] oasi in paragone del resto. L'Austria del Principe di Metternich imperava dunque, si può dire, su tutta Europa, nè mai forse quel magnifico signore pareva aver più ragione di compiacersi della gran tela, che aveva ordita da più di trent'anni.

Creato Papa in tale temperie di politica ed in sole quarantott'ore di conclave, Pio IX sentì quindi nel primo momento le vertigini dell'altezza, cui era sì d'improvviso e contro ogni sua aspettazione salito, e nel primo annuncio, che ne dà ai suoi fratelli in Sinigaglia, c'è non solo l'umiltà cristiana, ma si tradisce lo sgomento, da cui è preso: «Fate pregare e pregate per me. Lungi dall'esultare, compassionate il vostro fratello.» Che cosa fare? donde incominciare? Le prime mosse, quelle prime Commissioni, nominate da lui, miste d'amici e di nemici, di retrogradi e di progressisti, mostrano, con quegli strani accozzi di persone, l'uomo che barcolla a tastoni nel buio. Per buona sorte lo sovvennero i consigli di due, che gli richiamavano a memoria i consigli e le inspirazioni dei Pasolini: il canonico Graziosi e monsignor Corboli-Bussi, prete dotto ed illuminato il primo, ed il secondo d'indole così ardente, che oggi, secondo il Minghetti, si direbbe un socialista cattolico. Furono essi (subito dopo i Pasolini) gli ispiratori dell'amnistia [185] del 16 luglio 1846, che fece del Vescovo d'Imola l'iniziatore, nell'ordine dei fatti, del risorgimento politico italiano, e monsignor Corboli-Bussi è per di più l'estensore di quel grand'atto, nel quale, con la rotondità magnifica della prosa giobertiana, era concesso il perdono a tutti i condannati politici. Chi badò allora alle restrizioni, alle cautele, alle minaccie stesse di quel decreto? Bastò una parola di mansuetudine e di perdono, scesa dall'alto di quel trono, da cui s'era ormai avvezzi a non sentire che anatemi e condanne, perchè la materia infiammabile, da tanti anni accumulata, s'incendiasse tutta in un attimo. Quell'immensa tratta di gente, che da tutti gli angoli di Roma sale guidata da Ciceruacchio (il caratteristico tribuno trasteverino, colla giacca corta di velluto sopra corto panciotto, i calzoni stretti al ginocchio e slargantisi a campana sul collo del piede, una larga sciarpa di seta attorno alla vita, fazzoletto a fiorami attorno al collo, in testa un alto cappello a cencio e aguzzo verso la punta) quell'immensa tratta di gente, dico, che da tutti gli angoli di Roma sale ogni sera a salutare e a ringraziare Pio IX sul Quirinale, è veramente, come dimostra con infinite testimonianze Raffaello Giovagnoli nel suo importantissimo libro: Ciceruacchio e Don Pirlone, è veramente l'avanguardia [186] dell'Italia e del mondo, perchè la parola di Pio IX si propaga rapida e luminosa, al pari di un baleno e commove l'Italia ed il mondo, come se avesse da sola la miracolosa virtù di raddrizzare tutti i torti, di vendicare tutte le ingiustizie, di pacificare tutti gli odii, di sanare tutte le miserie umane, di cacciare nell'ombra e per sempre tutti i prepotenti della terra e sollevare tutti gli oppressi.

Poche ore come queste ha la storia; uguali forse in tutto, nessuna; e se fu veramente una immensa, universale e quasi inesplicabile illusione, sia pure! Ve n'ha così poche nella storia e nella vita, che non val la pena di sciuparla con commenti, che, quali che siano, nè la diminuiscono, nè la spiegano meglio di così. Chi stette saldo? chi non vi partecipò? Nessuno, salvo qualche testardo giacobino; nessuno, neppur quelli, che ebbero di poi la vanagloria di vantarsene, a fine di passare per politici dal lungo naso.

Da questo momento sino al giorno che dal balcone del Quirinale, Pio IX, alzando le braccia al cielo, mentre un raggio di sole gli inonda di luce la fronte, e la folla gli si prosterna piangente e devota, Pio IX esclama colla voce sonora: «Benedite, gran Dio, l'Italia,» il delirio, che aveva [187] accolta l'amnistia, cresce, gonfia, sale sempre, e travolge, come un'onda vorticosa, tutto e tutti, compreso il Papa.

Pare un sogno, un dolce sogno di fraternità umana, che abbia, per un istante almeno, cancellata ogni diversità di patria, di razze, di credenze religiose, di opinioni politiche. La parola di Pio IX si diffonde rapida, potente, in ogni angolo della terra; si può dire col poeta:

L'Arabo, il Parto, il Siro

In suo sermon l'udì.

Il Turco gli manda ambasciatori; l'eretica Inghilterra un ministro, Lord Minto, e Riccardo Cobden, l'apostolo della libertà commerciale; l'agitatore irlandese, Daniele O'Connel, muore per via, mentre accorre a lui; gli Ebrei gli baciano il lembo delle vesti, come all'aspettato Messia; Giuseppe Mazzini lo incoraggia; Garibaldi dalla lontana America, quando Sanfedisti e Gesuiti, riavuti dal primo spavento, minacciano nella cosiddetta Congiura di Roma la sicurezza e la vita di Pio IX, gli offre a difesa il suo braccio e la sua spada; a Carlo Alberto pare che spunti l'astro da tanto tempo invocato; e finalmente il principe di Metternich, dubitando per la prima volta in sua vita della propria [188] infallibilità, dice al marchese Sauli: «l'Austria era apparecchiata a tutto fuori che a un Papa liberale; ora che l'abbiamo, non si può più risponder di nulla:» il maggiore omaggio che il grand'arbitro della politica europea potesse mai rendere a Pio IX.

Così si procede per quasi altri due anni. Nei rapporti immediati fra il Papa e Roma si svolge una commedia, che, se mi è lecito il paragone, somiglia in punto a quella degli Innamorati del Goldoni: smanie, freddezze, ripulse, gelosie, rimproveri, esplosioni d'amore, lagrime, abbracciamenti, disdegni furibondi, paci tanto più deliziose, quanto più tribolate; col solo divario, che l'amore non finirà nel matrimonio, bensì nel divorzio per assoluta e provata incompatibilità di caratteri.

Ma intanto: viva Pio IX sarà per un pezzo ancora in Italia e nel mondo il grido, che piglierà tutti i significati; il grido d'ogni rivolta e d'ogni rivendicazione. Con esso insorgerà Palermo contro i Borboni; Napoli e Calabria si agiteranno terribilmente; Milano e Venezia caccieranno gli Austriaci; si udrà sulle barricate di Parigi; echeggierà fra le valli e i monti della libera Svizzera contro la Lega della Sonderbund; rintronerà negli orecchi al principe di Metternich, fuggente dinanzi [189] alla rivoluzione di Vienna; con questo grido sulle labbra i soldati di Carlo Alberto varcheranno il Ticino, e i volontari dell'Italia centrale passeranno il Po per combattere la prima e santa guerra dell'Indipendenza italiana; per gli uni questo grido vorrà dire libertà, per altri conciliazione della ragione colla fede, per altri ancora fratellanza universale, per tutti patria e risurrezione nazionale. Si usciva da un buio pesto. Viva Pio IX era il grido dell'avvenire. Quale avvenire? Nessuno lo sapeva, a cominciare da lui!

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