Effetti della rivoluzione militare nelle repubbliche.

A Firenze le conseguenze delle guerre nelle ultime reazioni aragonesi e contro i Visconti avevano prodotto quello stesso malcontento di tutte le altre signorie.

La republica interamente guelfa non poteva sottrarsi all'imminente rivoluzione. Infatti Salvestro dei Medici, forse il più grosso mercante e il più fino politico fiorentino, riuscendo come gonfaloniere a diminuire l'autorità dei capitani del popolo, riabilita gli ammoniti ed infligge alla costituzione republicana e al partito degli Albizzi il primo colpo. Come sempre, una rivolta precede la rivoluzione mettendo a soqquadro la città, bruciando, uccidendo. I Ciompi, plebei e cenciosi, sfogano l'antico odio contro i borghesi padroni della republica; le arti minori si levano per domandare la parità colle maggiori; la passione dell'uguaglianza fa dimenticare l'antico amore dell'indipendenza; l'amnistia dei ghibellini naturalmente amici dei plebei, la sospensione di ogni processo per debito di cinquanta ducati e l'abolizione degli interessi del debito publico, mutano il governo e la fisionomia di Firenze. Ma questa insurrezione plebea non può raggiungere il proprio scopo nella signoria. Perciò Michele di Lando, docile strumento in mano di Salvestro dei Medici, l'arresta subitamente per essere anche più presto rovesciato dalla reazione povero e coperto di gloria. Il suo pietoso eroismo e la sua politica imbecille lasciano Firenze nella medesima necessità di scegliere fra una restaurazione della borghesia nemica del popolo ed incapace di progresso in quella ormai troppo lunga contesa dei Ricci e degli Albizzi, o un'altra rivoluzione signorile che riassumendo il potere nelle mani dei Medici dia a Firenze la forza unitaria e l'ordine interno di Milano.

Firenze incalzata dal moto italico sceglie presto: nove anni dopo la ristorazione republicana, nel 1391, una sedizione plebea acclama la signoria di Vieri dei Medici; nel 1424 Giovanni dei Medici, oramai piuttosto signore che privato cittadino, sempre colla stessa politica ottiene la legge del censo, che aggrava i ricchi e rianima il popolo minuto; nel 1433 l'ostracismo di Cosimo dei Medici, provocato dagli Albizzi troppo timidi per assassinarlo, decide della rivoluzione; Cosimo è richiamato dopo un anno fra ovazioni dementi, e la dinastia è fondata.

Secondo la legge del progresso italiano la signoria ha ucciso la republica. Coi Medici la tirannide faziosa delle grosse famiglie cessa; il popolo si mescola alla borghesia troppo privilegiata; il governo, sottratto alle parti incapaci di pensare al di sopra di sè medesime e di agire oltre l'orbita del proprio interesse, acquista improvvisamente altrettanta limpidezza nelle idee che sicurtà nelle mosse: tutta Toscana sente la nuova forza di Firenze che sta per rivaleggiare di grandezza con Milano.

A Siena, rivale di Firenze, una rivoluzione simile a quella dei Ciompi riesce ad una eguale ristorazione republicana: ma la crisi aggravandosi ogni giorno consiglia invano ai Salimbeni, capi ghibellini, la dedizione ai Visconti, poichè Milano, incapace nella propria catastrofe del 1402 di reggere così turbolenta republica, deve abbandonarla a nuovi drammi. Allora Siena, straziata dalle fazioni, tradita dai condottieri, vede finalmente Pandolfo Petrucci alla testa della plebe imitare i Medici di Firenze: lo decapita nel 1456 con dieci seguaci, ma senza sottrarsi per questo alla fatalità della sua dinastia. Più crudele di Siena, Perugia scatena nella stessa ora storica la propria plebe contro i nobili e la frena colla reazione borghese dei Raspanti; poi, vinti questi nel 1389 da Pandolfo Baglioni, che accenna così alla futura signoria della propria casa e finisce come Pandolfo Petrucci, passa dalla tirannia improvvisata del condottiero Biordo Michelotti, tosto assassinato, al dominio di Milano, della chiesa e di Napoli per risorgere sfolgorante fra le vittorie di Braccio da Montone, ben più illustre condottiero e nullameno costretto, malgrado l'altezza del proprio carattere, a riprodurvi la tirannia del predecessore. Ma alla sua morte in battaglia ricompaiono i Baglioni, dapprincipio abili e modesti come i Medici, finalmente signori nel 1488.

Vitellozzo Vitelli s'insignorisce di Città di Castello; Lucca, condannata a morte come Pisa, già comprata da Firenze per 200.000 fiorini, oscilla dalla republica alla signoria dei Guinigi con silenziose ondulazioni di cadavere senza potersi arrestare nè all'una nè all'altra; Genova consuma nella stessa crisi oltre quaranta governi. La sproporzione della sua grandezza marinara colla sua esiguità territoriale non difesa come a Venezia da paludi imprendibili obbliga la superba republica a riprendere lo stesso atteggiamento del mille, quando sotto la dipendenza di Milano e coll'aiuto della Lombardia romana poteva ancora prosperare in una libertà e in una industria indigena. Quindi accumula rivoluzioni su rivoluzioni, alternando dogi di tutti i caratteri e di tutti i partiti, sino a ritornare col Giustiniani al dogado annuale e all'antica anarchia, per cadere poi sotto il tirannico protettorato della Francia nella esasperazione di tutte le parti. Ma il suo genio commerciale supera nullameno la crisi della miseria coll'istituzione della banca di San Giorgio, prima e massima originalità del mondo economico moderno, specie di signoria finanziaria così superiore alla signoria politica da governarne le mosse e dirigerne le idee, come la signoria mobile dei condottieri s'imponeva a quella ferma di tutti i signori grandi o piccoli. Laonde un'altra rivoluzione, nel 1408, scaccia i francesi di Boucicaut e rianima le fazioni dei Guarco e dei Montalto, avvicendando gli Adorno e i Fregoso, finchè uno di questi ultimi consegna Genova con tutte le dipendenze a Filippo Maria Visconti alle stesse condizioni già accettate dalla Francia e dietro un pagamento di mille fiorini. Però le sommissioni di Genova non sono mai che formali; i partiti seguitano a dilaniarvisi, la republica si rivolta, imbroglia di drammi smozzicati la propria cronaca, avviandosi sotto la mano poderosa e leggera di Paolo Fregoso, furfante di genio, verso la signoria dei Doria.

A rovescio di Genova, lanciata a tutti i venti dalle esplosioni incessanti della propria politica, Venezia immobile nelle lagune acumina la spaventosa piramide del proprio governo impressa di arcani geroglifici e scavata internamente da misteriose prigioni, mettendo il consiglio dei tre sopra quello dei dieci, arrivando così all'ultima condensazione politica di una republica troppo forte per tramontare colla dittatura in una monarchia. Il nuovo tribunale dei tre inquisitori, stabilito occultamente dal 1400 al 1450, è ancora più tremendo ed iniquo di quello dei dieci: la sua esistenza è un mistero, la sua autorità vigila nell'ombra più grande dell'ombra stessa. La ragione di stato è il suo solo diritto, la sua giustizia deriva dalla negazione di tutte le giustizie, la sua idea immota, immensa, eterna, è Venezia. Tutti gli altri ordini non sono più che strumenti di questo supremo consiglio, il quale sembrando un triumvirato non contiene nè differenze di persone, nè gradazione di principii. La rivoluzione della signoria ha quindi raggiunto in Venezia l'ultima perfezione. Poco dopo eccola discendere ricca, compatta, silenziosa attraverso l'allegria del proprio popolo dispensato da ogni pensiero, verso terraferma; ereditare da Aquileja, la grande città romana, un'altra potenza; dall'Oriente, invaso lentamente dai musulmani, girare lo sguardo su tutta la Lombardia oltrepassando il Po, misurando terre ed avversari. Padova, Verona, Belluno, Vicenza, Rovigo, Treviso, tutto il Friuli è già veneziano; Guastalla, Brescello, Casalmaggiore sono già comprati, il Po non sarà un impedimento per un governo che domina sul mare e ha stabilimenti in tutto l'Oriente. Un'immensa fiamma di orgoglio illumina il genio veneziano, quando, nel 1421, il senato discute se debbasi continuare la guerra o sottoscrivere la pace rispettando i confini di Milano, diventata rivale ben più vicina e più vera di Genova. Foscari senatore spinge Venezia alla conquista d'Italia in questa guerra spietata di denari e di condottieri, nella quale la vittoria deve rimanere infallibilmente al governo più solido e più ricco. Il doge Mocenigo, atterrito da una conquista che dovrebbe fatalmente mutare il carattere di Venezia, insiste per la pace, e riesce a mantenerla sino alla propria morte. Ma Foscari nominato doge torna alla guerra, prende Brescia e Bergamo, semina l'oro, conquista Lonato, Valeggio, Peschiera, Crema; passa il Po, entra in Romagna, compra Cervia, acquista Ravenna. Il denaro di Venezia basta a tutte le guerre, la sua perfidia supera quella dei condottieri, ai quali dà un esempio indimenticabile decapitando il Carmagnola.

Alla Venezia marinara succede la Venezia di terraferma: mentre la sua decorazione e le sue ricchezze sono ancora bizantine, il suo carattere e la sua azione sono già così italiane che tutti gli stati d'Italia, spaventati dalla sua subita irresistibile espansione, pensano al come costringerla nella loro federazione, penoso e prezioso risultato di tutte le rivoluzioni anteriori.

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