La rivoluzione federale, unanime nel sentimento dell'indipendenza nazionale e nell'istinto della libertà statutaria, doveva necessariamente, dopo tutte le prove fallite del principato, tentare un più alto esperimento colle republiche, rivelando la formula della rivoluzione avvenire. Ma se dei regni uno solo aveva resistito allo Statuto, mantenendolo sotto la doppia violenza d'una invasione militare e d'una democrazia eslege aiutata dagli equivoci della insurrezione nazionale, nessuna republica poteva affermarsi vitalmente nell'immenso tumulto di quella liquidazione del passato. Il principio democratico, brillando un istante sul Campidoglio nella più abbagliante purezza, quasi a diradare le tenebre di tutte le antitesi politiche, era anticipatamente costretto a vanire nella gloria d'un poema, nel quale il fatto politico rimarrebbe appena come una trama. Nè la storia, nè la civiltà italiana erano ancora tali da consentire intera la doppia rivelazione della democrazia e delle nazionalità.
Un esperimento republicano era nullameno necessario per dissipare le ultime illusioni della federazione, che nella republica cercava istintivamente la conciliazione dello stato antico colla democrazia moderna, e garantire l'originalità del principio democratico subdolamente assorbito negli statuti dal principato. Così Genova già fusa col Piemonte, mentre questo stava per fondersi coll'Italia dandole la propria unità costituzionale, non arriva che ad una inutile insurrezione, reazionaria nel patriottismo municipale, anarchica nel processo politico, tragica in quell'ora di sconfitta per tutta la nazione: Livorno, sollevandosi contro Firenze, riassume tutta l'impazienza della democrazia costretta dalla propria incapacità a diventare demagogia: Siena, insorta poco dopo per difendere il granduca traditore e fuggiasco, soddisfa per l'ultima volta l'antico rancore municipale, e quindi osteggia simultaneamente Firenze e la democrazia: Venezia inalbera la secolare bandiera di San Marco, poi l'abbassa per sostituire il vessillo italiano, finalmente la risolleva quasi per festeggiare con funebre pompa l'agonia della propria republica, e chiude per sempre l'epoca della federazione italiana come era uscita dai comuni e Lorenzo il Magnifico l'aveva gloriosamente disciplinata nella prima lega italica: Firenze, liberata dalla monarchia colla fuga del granduca, incerta fra le vanità dei vecchi ricordi republicani e le tendenze democratiche attuali, tergiversa colla tradizionale doppiezza procrastinando ogni decisione per un governo monarchico o republicano, toscano federale o romano e quindi unitario, finchè l'ora storica passa, e, sorpresa da una reazione municipale, ricade nel granducato. Roma sola, centro eterno d'Italia, sente che la prima affermazione dell'epoca nuova non può venire all'Italia che da essa, e s'affretta con inconscio crescendo ad abbattere il potere temporale dei papi e a proclamare la republica: così passato ed avvenire italiano si fondono per la terza volta nel suo avvenire politico.
In questa gamma Firenze è una penombra, Venezia un tramonto, Roma un'aurora: Firenze soccombe in un dubbio, Venezia in un sogno, Roma in una rivelazione. Ciò che Firenze risorta a breve agonia non ha osato, Venezia lo compie morendo; ciò che l'Italia insorta ha sentito, Roma lo attua in una republica effimera, ma profezia di maggiore republica. Venezia rappresenta l'Italia antica, Firenze l'Italia del momento, Roma l'Italia dell'avvenire: Venezia risuscita in Manin il suo ultimo doge guerriero. Firenze ripete in Guerrazzi il suo ultimo priore turbolento, Roma trova in Mazzini il suo ultimo apostolo.
Ma intanto che le republiche cadono, seppellendo il passato e squarciando il futuro, il Piemonte si assoda nella stessa bufera che lo squassa, e salva nella monarchia la forma della non lontana unità d'Italia.
Dopo i casi di Livorno, nei quali si era fin troppo chiarita la insufficienza del nuovo governo granducale e che avevano condotto al potere il Guerrazzi e il Montanelli, la posizione politica della Toscana rispetto alla rivoluzione italiana toccava il massimo della crisi. I costituzionali, esauritisi nelle rapide successioni ministeriali, che dall'energia dittatoria del Ridolfi erano discese all'onesta condiscendenza del Capponi, stavano come ritirati dall'agone: le loro tendenze aristocratiche, la loro stessa capacità parlamentare e sopratutto l'angusto patriottismo, che vedeva l'Italia solamente attraverso e molto dopo la Toscana, li rendeva inetti alle supreme manifestazioni di quello stesso moto politico. L'avvenimento del Guerrazzi, poeta cresciuto nell'ira di tutti i contrasti e mutato da ultimo in tribuno implacabilmente superbo d'opposizione, significava apertamente la sconfitta del partito moderato. Infatti il Montanelli, letterato elegiaco e politico insino allora neo-guelfo, che il ritorno dai campi cruenti di Curtatone, ove lo si era pianto per morto, circondava di un'aureola di eroismo, appena chiamato al governo di Livorno per rappattumarla con Firenze, vi proclamava di proprio capo una costituente italiana, più larga di quella del Gioberti, poichè riconosceva al popolo la facoltà di rassettare tutti gli stati secondo l'interesse generale. Era la prima affermazione toscana nella rivoluzione, che da oltre un anno affaticava l'Italia. Con essa Firenze sorpassava politicamente Torino; ma poco chiara nel concetto, incerta nel processo, proclamata piuttosto da un individuo che da una regione, questa costituente dell'ultim'ora non poteva discendere a realtà politica. La Toscana vi si annullava anticipatamente, sottomettendosi al verdetto di tutta Italia, ma conservando nell'animo l'egoismo della propria autonomia: il granduca vi si sentiva perduto, i moderati vi si riconoscevano condannati. Di rimpatto la demagogia inevitabile in quel sobbollimento di spiriti vi acquistava importanza: un'amnistia generale veniva proclamata, si parlava di guerra con più alta ciancia. Il granduca, chiuso scaltramente in se stesso, lasciava fare e faceva anzi quanto la nuova scena politica esigeva, non fidando più che in un prossimo intervento austriaco.
Appoggiato sulla piazza e da questa scosso a ogni minuto, il nuovo ministero si trovava nell'impossibilità di governare: oscuri demagoghi s'imponevano ai ministri; esausto il tesoro, nullo l'esercito, confusa l'opinione, sconvolti ordini e partiti. Guerrazzi s'irrigidiva con superba fibra di despota minacciando contro i nuovi disordini, ma la mancanza d'uno scopo politico dava alla sua energia l'odiosità d'una repressione a favore del granduca, mentre invece s'illanguidiva nell'illusione di conciliare le tradizioni autoritarie di casa Lorena colla rivoluzione in una politica ostile all'Austria e diffidente della rivoluzione. Montanelli scriveva al cospiratore La Cecilia: «Dio ci guardi da una republica romana». Guerrazzi denunciava le voglie conquistatrici del Piemonte alla vanità paesana, profetando la servitù di Toscana se quello crescesse di territorio nella guerra coll'Austria: Giuseppe Giusti atterrito dal disordine delle piazze riparava nel rimpianto del passato: solo il Niccolini, inconvertibilmente giacobino, si manteneva fedele alla rivoluzione, ma, chiuso nell'Accademia come in una carcere, per sdegno feroce della troppa commedia politica, ricusava d'uscirne e di ricevervi visitatori. Intanto si procedeva per la costituente, dichiarandola a suffragio universale: eleggibile qualunque italiano dai venticinque anni in su, elettore qualunque cittadino sopra il ventunesimo anno; unica pregiudiziale, si ottenesse prima la liberazione intera d'Italia. Il granduca aprendo la nuova Camera (10 gennaio 1849) permise al ministero di presentare in suo nome al parlamento il disegno di legge per la elezione dei rappresentanti toscani alla costituente italiana, ma poco dopo fuggiva a Siena, scusandosi colla scomunica papale lanciata contro coloro che di qualunque guisa favorissero la costituente. Il ministero si sconcertò; il popolo adunatosi in piazza della Signoria, come ai tempi migliori del medioevo, delegò pieni poteri ad un triumvirato composto di Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni. Senonchè, dichiarata la decadenza del granduca, bisognava o proclamare la repubblica, o fondersi con quella di Roma, o darsi al Piemonte: e i triumviri non osando alcuna decisione, si credettero abili col rimettere alla futura costituente il problema d'un governo per la Toscana. Intanto scoppiavano disordini; Siena gridava: viva il duca e morte alla costituente!; a San Frediano e ad Empoli i contadini eccitati dal clero si levavano minacciando; mentre il granduca, spaventato dal tumulto, malgrado i consigli di tutte le diplomazie e la fedeltà del generale Laugier, ancora alla testa delle truppe e ricusante di riconoscere il governo provvisorio, fuggiva a Gaeta. Allora Livorno proclama la republica, Guerrazzi tentenna, poi con teatrali apparati marcia contro il Laugier, che le truppe abbandonano. La confusione regna sovrana: al primo triumvirato ne succede un altro di difesa sempre col Guerrazzi alla testa; non si osa dapprima proclamare la Costituente italiana: Mazzini ottiene con una predica in piazza un voto popolare per la fusione della republica toscana con quella romana, ma all'indomani nessuno più se ne ricorda. Poi il governo rinfrancato decreta che nello stesso giorno si eleggano i rappresentanti per l'assemblea legislativa toscana e per la Costituente italiana da tenersi in Roma. Le difficoltà parlamentari delle due assemblee investite d'uguali poteri persuadono una correzione processuale, statuendo che l'assemblea toscana abbia facoltà per decidere se e con quali condizioni lo stato toscano debba unirsi a Roma, e per comporre coi deputati romani la Costituente dell'Italia centrale. Ogni deputato poteva essere investito dei due mandati.
Intanto il trambusto demagogico peggiorava. La reazione granducale aiutata dal clero, dai nobili, dai moderati, da tutti, minacciava apertamente: i democratici poco saldi nel sentimento e sprovvisti d'una qualunque idea politica, si lasciavano trasportare dalla tempesta; solo Guerrazzi si mostrava forte, ma piuttosto per alterigia di volontà che per coscienza. Le elezioni riuscirono scarse di numero: l'ultima rotta di Carlo Alberto a Novara tarpava le ali all'ultima speranza; l'Austria ingrossava già alle frontiere; l'assemblea atterrita ricusava di votare la fusione con Roma. Montanelli, tardi rinsavito, l'avrebbe voluta almeno per compiacenza di politico, primo nell'ardimento di proclamare la costituente; ma Guerrazzi invece resisteva per indomabile vanità di toscano e di letterato contro Mazzini: l'assemblea, preoccupata già di scagionarsi pel futuro, concesse a Guerrazzi autorità dittatoria e a Montanelli come compenso un'ambasceria per Parigi.
Poco dopo con 42 voti contro 24 si respingeva solennemente ogni disegno di unificazione con Roma, e Guerrazzi cadeva come un tirannuccio medioevale per una rissa scoppiata fra la sua guardia pretoriana di livornesi ed alcuni cittadini. Plebe ed aristocrazia, quella per ignava brutalità, questa per rancore di classe e forse per un'ultima illusione di salvare così lo statuto, s'accordarono a rovesciare il dittatore e a risollevare gli stemmi granducali: il municipio rimasto in potere dei moderati capitanò la reazione, coprendola coi nomi ancora venerati di Gino Capponi e di Bettino Ricasoli. Guerrazzi, che aveva già disertato la parte democratica, si umiliò troppo tardi, troppo vilmente e troppo indarno ai nuovi vincitori, dai quali fu gettato in carcere per salvarlo dal furore della canaglia; e forse in parte fu vero.
L'illustre scrittore, riuscito così meschino statista, e che, fanatico d'impero dittatorio e d'incredulità politica, aveva dato alla insulsa incertezza della Toscana nella grande crisi italica la pompa della propria eloquenza, credette scolparsi in una Apologia altrettanto veemente di passione che sottile di logica curialesca, ma riuscì invece alla dimostrazione di quanta infermità senile ed infantile dolorasse allora il pensiero nazionale.
Infatti non egli solo, quantunque rivoluzionario nell'ingegno e nel carattere, fallava il principio e il modo della rivoluzione, giacchè i suoi abili avversari parlamentari, richiamando con umile manifesto il granduca, nella doppia illusione di conservare così lo statuto e di preservare la patria da una invasione austriaca, furono crudelmente ingannati. Il granduca sospese a tempo indefinito la costituzione, dopo averla riconfermata nella risposta all'appello del municipio; e il generale tedesco D'Aspre, occupate Lucca e Pisa, domata nel sangue la resistenza di Livorno, entrò vittorioso a Firenze per restarvi a tutela della dinastia e a terrore dei patriotti sino al 1857.
La rivoluzione toscana era vinta senza aver combattuto, consunta senza traccia nel passato e senza speranza nell'avvenire: Firenze ridiventava una prefettura austriaca, bella di arte e di sventura, calmando nel rancore e nella paura della nuova reazione i propri dissensi politici.
Gino Capponi, il più nobile fra gl'illusi reazionari, che richiamato il granduca, si erano poi dimessi al ritorno degli austriaci, aveva trovato per tutti un motto sublime di eroismo, quando, cieco e menato a braccio per le vie di Firenze, incontrando a caso uno dei primi battaglioni tedeschi, esclamava piangendo: «Sia benedetto Dio, almeno non li veggo!»
La notte del giorno nel quale il popolo di Firenze, adunato in piazza della Signoria, dichiarando decaduto il granduca, eleggeva al governo provvisorio Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni, la Costituente romana decretava l'abolizione del papato temporale.