Pio IX, spaventato da una minaccia di scisma germanico, che la diplomazia tedesca, aiutata da molti cardinali e dai gesuiti, gli faceva credere provocato dalle sue innovazioni politiche e dalla guerra piuttosto fatta che intimata dall'Austria, il 29 aprile in una allocuzione concistoriale la disdisse, rigettandone la responsabilità sulla passione nazionale dei propri sudditi. Era un sofisma povero e malvagio, giacchè questi erano stati irreggimentati dal governo, e la guerra italiana avrebbe irremissibilmente sofferto di tale abiura del pontefice. Naturalmente grande ne fu il fermento in tutta l'Italia: il ministero Antonelli-Minghetti, che aveva dianzi domandato al pontefice una franca dichiarazione di guerra contro l'Austria, si dimise; i circoli politici di Roma tumultuarono; la guardia civica minacciò di ricorrere alle armi, mentre Pio IX, sbigottito e nullameno fermo a non recedere dall'allocuzione, mirava per guadagnar tempo ad attenuarne l'impressione. Qualcuno gli suggerì di andare a Milano oratore di pace e di un concordato con l'Austria, ma il legato milanese a Roma ne lo dissuase; gli altri ambasciatori italiani presso la Santa Sede risposero all'allocuzione con una nota, nella quale, fraintendendone il significato, scongiuravano il pontefice a non abbandonare la causa della nazionalità. Questi, compromesso dalle proprie dichiarazioni concistoriali e persuaso dell'impossibilità per il papato di seguire il corso della rivoluzione italiana, non cercava più che espedienti momentanei. E due ne trovò incredibilmente contradditorii. Mandò monsignor Morichini all'imperatore d'Austria con una lettera d'esortazione a riconoscere la nazionalità italiana cessando dalla guerra, e Luigi Carlo Farini, sottosegretario del ministero, al campo di Carlo Alberto per offrire al re il comando delle truppe pontificie già implicate nella guerra. Questi accettò con patto che fossero pagate dal papa e conservassero bandiera papale: l'imperatore d'Austria rispose per bocca dei propri ministri che il suo diritto sulla Lombardia basava sopra trattati identici a quelli che garantivano i territori dello stato pontificio. L'antinomia dei principii costringeva il governo pontificio a tale assurdità di ripieghi.
Quindi per placare il popolo di Roma, incitato dai tribuni Sterbini e Ciceruacchio a trascendere, si chiamò al ministero Terenzio Mamiani venuto recentemente a Roma e divenutovi prontamente autorevole in molti circoli liberali. Ma cospiratore, prigioniero, esule ritornato ricusando l'amnistia, e segnato all'Indice per le proprie opere filosofiche, egli riassumeva in se stesso tutto il ridicolo e il pericolo del costituzionalismo pontificio. Il papa in lui chiamava un eretico per affidargli lo stato, e l'eretico accettava il mandato, credendo possibile un governo di libertà colla corte papale e col principio ieratico romano. Però egli volle facoltà di proseguire la politica del caduto ministero verso la guerra italiana, e che la segreteria degli affari esteri temporali fosse data ad un ministro laico, che fu il poeta bolognese Marchetti. La posizione politica del governo romano, serbandosi immutata, peggiorava. Il ministero precedente aveva armato volontarii e truppe regolari contro l'Austria, permettendo loro di passare il Po e subordinandole poi a Carlo Alberto senza osare d'intimar guerra all'Austria: il papa confessava in un'allocuzione concistoriale la propria impotenza a distogliere i sudditi dalla guerra, e il suo nuovo ministero la voleva mantenuta pure non dichiarandola. Luigi Carlo Farini, rivoluzionario sbracato mutatosi in moderato intransigente, prima di partire pel campo di Carlo Alberto, aveva consigliato molte misure di repressione per salvare nella sovranità temporale e costituzionale del papa l'arca santa della patria e della rivoluzione italiana.
Ma l'effervescenza popolare non accennava a sedarsi, Ciceruacchio, che aveva abbattuti i portoni del ghetto liberando gli ebrei dalla prigionia millenaria d'ogni sera, lo Sterbini e il Fiorentino fautori della propaganda rivoluzionaria spingevano a partiti estremi per rovesciare quel grottesco simulacro di costituzionalismo papale: il malcontento dei volontarii romani abbandonati in faccia al nemico come ribelli del proprio sovrano, e quindi sbandatisi o per viltà di coscienza religiosa o per difetto di coraggio militare, giungeva a Roma esasperando lo spirito pubblico: si urlava al tradimento del papa, si parlava di prigionieri romani impiccati dai tedeschi, si denunciavano congiure liberticide di cardinali e di gesuiti, si cominciava a riconoscere nella fisima politica dei moderati un pericolo capitale per la patria. La polizia sempre governata dal Galletti assecondava la piazza invece di frenarla; Mamiani, perduto nel sogno di un costituzionalismo pontificio, nel quale il papa non entrasse più che in ogni altro governo il vescovo della capitale, e combattuto dal partito dei chierici e dei clericaleggianti, doveva appoggiarsi sulla parte avanzata, perdendo così colla sincerità delle idee ogni sicurezza di base politica.