Scadimento del genio nazionale.

Alla vigilia della rivoluzione, che doveva finalmente ricostituire l'Italia, il genio nazionale sembrava oscurarsi.

L'immenso moto di studi cominciato col secolo si era rallentato dopo gli ultimi disastri politici. La maggior parte dei grandi scrittori erano morti o ritirati dalla lotta: l'originalità si faceva più scarsa. Una specie di stanchezza prostrava il pensiero italiano. Le passioni consunte dalle rivoluzioni infelici del '21, del '31 e del '48, o assorbite dalle estreme sanguinose avventure delle cospirazioni, non animavano più i libri: un maggiore contatto colle nazioni, che tenevano in Europa il campo intellettuale, sembrava avere scoraggiato la produzione dello spirito nazionale. Al vecchio orgoglio scolastico, che ci faceva credere ancora i maggiorenti della civiltà colla gloria insuperata delle antiche opere, era succeduta una tacita disistima delle nostre cose presenti: si cominciava a comprendere come nell'immenso lavoro del pensiero europeo, fecondante ancora tutto il mondo, la nostra parte fosse secondaria. Nemmeno l'ammirabile sforzo tentato con sì ricca concordia d'ingegni e di risultati al principio del secolo era bastato per rimetterci a paro colla Francia, coll'Inghilterra e colla Germania.

La letteratura francese restava al disopra della nostra, la filosofia tedesca era diventata universale mentre l'italiana non aveva potuto passare le Alpi, lo sviluppo delle scienze presso di noi non resisteva al confronto della loro prodigiosa espansione in Inghilterra. Malgrado ogni vanteria, bisognava confessare che Manzoni non valeva Victor Hugo, che Gioberti e Rosmini non bastavano contro Hegel e Schelling, che quasi tutte le più meravigliose scoperte ci venivano dall'estero. L'Italia non aveva e non avrebbe uno scienziato da opporre a Darwin.

Ma Alessandro Manzoni ancora giovane si era arrestato sul culmine della propria parabola per non abbassarsi discendendola, e taceva da oltre vent'anni; Gioberti era morto povero ed esule a Parigi; Rosmini si era spento nel silenzio tranquillo di un lago, e le loro due scuole filosofiche non avevano illustri scolari che le diffondessero come le scuole tedesche; Niccolini, ritirato dal teatro, cercava l'oblio tracciando una storia di casa sveva; Giusti dormiva per sempre fra gli oliveti di Monsummano; Berchet, rimbambito dalla vecchiaia, si era pentito delle proprie canzoni di rivolta per diventare senatore piemontese; Guerrazzi si ostinava ancora nei romanzi, ma la sua arte si guastava ogni giorno più nell'artificio, e delle irresistibili passioni di un tempo non gli restava più che l'abitudine del gesto e dell'accento; Rossini, il Napoleone della musica e di lui non meno egoista, viveva a Parigi ammutolito da quasi trent'anni, non ascoltando più che il coro instancabile delle proprie lodi ripercosso dagli echi di tutte le contrade d'Europa; Bellini, il suo giovane rivale, era scomparso come una di quelle comete, che illuminano per poche notti tutta una zona di cielo; Donizetti era stato soffocato dalla follìa. Qualcuno della fortissima generazione lottava ancora, ma non poteva al di là del grande periodo già consunto ottenere dalle nuove lotte altre vittorie. Cesare Cantù, prodigioso di attività, dopo compita la Storia Universale, ne accumulava altre gettandosi su tutti gli argomenti, riordinando archivi, superando Lodovico Muratori nell'opera, e nullameno non oltrepassando mai i confini del proprio sistema e non ricorreggendo mai il proprio metodo. Egli camminava sempre, mentre le scienze storiche progredivano altrove. La grande scuola neo-guelfa finiva in lui.

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