Infatti il problema italiano non poteva avere allora altra soluzione.
L'annessione del Napoletano, ritardata nella procedura del voto da Garibaldi, minacciava di compromettere tutti i risultati della rivoluzione. Il disegno del dittatore di procrastinare i plebisciti sino alla conquista di Roma implicava una intimazione di guerra alla Francia e una sottomissione del re a Garibaldi. La monarchia piemontese, già vassalla dell'imperatore francese, perderebbe ogni prestigio in Italia, se Garibaldi potesse non solo conquistarle un regno, ma ritrascinarla a guerra contro Napoleone. Il dittatore, alla testa di ventimila volontari, circondato da un ammirabile stato maggiore, con un consiglio di grandi democratici intorno, trattando con diplomatici esteri, nominando prodittatori, maneggiando il denaro dello stato, legiferando e battagliando, era più re del re. Il partito moderato napoletano, che non aveva osato insorgere prima del suo ingresso in Napoli, non poteva ora dominare il vincitore; anzi, obbedendo alle istruzioni di Cavour, non riusciva che a precipitare la crisi.
Solo l'esercito piemontese poteva fermare Garibaldi sulla via di Roma. Quindi Cavour, sapendo Napoleone a Chambéry, gli aveva mandato oratori Farini e Cialdini: la missione era stata difficile. Forse l'imperatore non aveva ancora abbandonato tutte le speranze di un regno murattiano, fors'anco questo eccessivo ingrandimento del Piemonte contraddiceva a tutti i calcoli della sua politica generale. Ma Garibaldi aveva spinto così oltre la rivoluzione nazionale nel Reame, da rendervi impossibile l'impianto di una dinastia straniera, mentre una sua marcia su Roma poteva gettare l'impero in male prevedibili complicazioni. L'imperatore non voleva abbandonare il papa, e non poteva combattere la rivoluzione italiana per non ridestare le questioni sopite di Villafranca. D'altronde il Piemonte per annettersi il Napoletano aveva bisogno di una linea di comunicazione per terra: ad esautorare Garibaldi anche in faccia all'Italia nessun miglior modo che di far conchiudere la sua guerra da Vittorio Emanuele: fortunatamente n'era ancora il tempo. L'impresa di Garibaldi, aiutato da tutta la democrazia europea, riaccendeva le speranze della democrazia francese: se una rivoluzione republicana scoppiasse in Italia, la Francia non vi resterebbe forse estranea. L'impero non era abbastanza sicuro per trascurare questa possibilità. Intanto l'anarchia tempestava già a Napoli, secondo le bugiarde notizie dei giornali moderati; i più ardenti republicani circuivano il generale, la marcia su Roma determinerebbe lo scoppio della rivolta: poichè il Piemonte non avrebbe potuto allearsi con Garibaldi contro la Francia, nè con questa contro Garibaldi per non accendere una guerra civile, una seconda republica italiana diventava inevitabile.
I legati piemontesi insistevano vivamente, dipingendo a foschi colori la situazione del Piemonte condannato a diventare tutta l'Italia o perire.
L'imperatore non acconsentì senza dichiarare che, se l'Austria fosse intervenuta, la Francia non sarebbe discesa a combatterla.
Contro tal pericolo il conte di Cavour, riprendendo il disegno già combinato l'anno prima con Kossuth per eccitare la rivoluzione in Ungheria, mandò da Genova alla volta del Danubio cinque bastimenti carichi d'armi e il Klapka a Costantinopoli.
Quindi precipitò gl'indugi.
Il generale Lamoricière, dopo aver paragonato la rivoluzione italiana all'Islamismo e dichiarata la causa del papa essere quella della civiltà e della libertà del mondo, con editti crudeli seguitava a terrorizzare le provincie: ordini di morte fioccavano dappertutto e contro tutti. Questa demenza di repressione facilitò al conte di Cavour i pretesti di guerra. Quindi con nota del 7 settembre, nel giorno medesimo dell'ingresso di Garibaldi a Napoli, aveva già chiesto al cardinale Antonelli lo scioglimento della bande mercenarie rese infami dall'eccidio di Perugia. Naturalmente il cardinale aveva ricusato con alterigia. La Santa Sede si credeva allora in condizioni migliori del Piemonte: l'imperatore Napoleone, sempre ravvolto nelle stesse ambiguità, richiamava da Torino il proprio ambasciatore ed ingrossava il presidio francese a Roma, facendo dichiarare dal duca di Grammont al papa che si opporrebbe ad ogni aggressione del re di Sardegna. Ma quando il 9 settembre il generale Fanti, nominato comandante supremo, aveva annunziato al Lamoricière che occuperebbe le Marche e l'Umbria nel caso che le truppe pontificie vi contrastassero le manifestazioni nazionali, e questi aveva scritto all'Antonelli di far avanzare il presidio francese, il duca di Grammont vi si era ricusato. L'imperatore Napoleone non aveva inteso che di difendere Roma e il territorio occupato dai propri soldati.
Intanto il conte di Cavour aveva diramato un Memorandum a tutte le cancellerie, spiegando come, per liberare le popolazioni dalle tirannidi secolari e per impedire alla rivoluzione di sciorsi nella peggiore delle anarchie, nell'interesse d'Italia e di Europa, fosse costretto a questa nuova guerra.
I nemici questa volta erano Pio IX e Garibaldi, la Santa Sede e la rivoluzione.
La campagna era stata rapida.
L'esercito papalino arrivava appena a ventimila uomini, quello sardo quasi al doppio. Il Lamoricière, prode generale educato alla scuola d'Africa, invece d'afforzarsi in Ancona, tentò d'impedire la congiunzione dei due corpi nemici; ma Cialdini con celere marcia oltrepassò Ancona, mentre Fanti, prostrato lo Schmid a Perugia, scendeva ad incontrarlo. Tutti i presidii della città avevano capitolato quasi senza colpo ferire, arrendendosi sino a bande di volontari romagnoli, mescolate in abito borghese e con armi da caccia a questa guerra come ad un'ottobrata. Lamoricière prima di avere combattuto era già chiuso fuori d'Ancona. Cialdini occupava Castelfidardo: il conte De Pimodan comandante degli zuavi pontifici volle attaccarlo, e morì bravamente nella battaglia colla fede di un antico crociato; il suo corpo si sbandò, molti riparati a Loreto vi si arresero l'indomani; Lamoricière potè a stento guadagnare Ancona.
Tutta la guerra si era così costretta ad un assedio. La piazza, fortissima per natura e ben munita, aveva ancora un presidio di 7000 uomini; nullameno, bersagliata vivamente dalla squadra del Persano, aveva dovuto soccombere indi a poco (29 settembre).
La campagna non era durata che diciotto giorni, e non aveva costato che seicento soldati tra morti e feriti.
Contemporaneamente Garibaldi, esasperato dalla guerra dei moderati al suo governo, aveva mandato il marchese Pallavicino al re, per chiedergli le dimissioni del ministero di Cavour e di Farini. Questa esorbitanza, giustificando tutte le accuse dei monarchici, aveva permesso a Cavour di perdere facilmente l'ingenuo e pericoloso avversario: infatti, mentre questi si affermava francamente in una dittatura rivoluzionaria, l'abile ministro, contro ogni consiglio di sospendere la costituzione, si era appellato al parlamento. La libertà dal campo di Garibaldi era passata in quella di Cavour. Il parlamento, convocato il 2 ottobre, aveva votato: «Il governo del re è autorizzato ad accettare e stabilire per decreti reali l'annessione allo stato di quelle provincie dell'Italia centrale e meridionale, nelle quali si manifesti liberamente per suffragio universale diretto la volontà delle popolazioni di far parte integrante della nostra monarchia costituzionale».
Nella relazione su tale disegno di legge il conte di Cavour, dopo alcuni elogi di Garibaldi, attribuiva con audace sofistica alla politica di Casa Savoia, iniziata da Carlo Alberto, anche le ultime mirabili conquiste del mezzogiorno: quindi, dichiarata impossibile ogni nuova guerra per la liberazione della Venezia o per la conquista di Roma, denunciava l'anarchia settaria già scoppiata a Napoli per la colpa di Garibaldi nel ritardare l'annessione, e chiamava giudice il parlamento nella propria contesa col dittatore, pindareggiando nullameno sulla generosità di lui.
Infatti Garibaldi, coll'infallibile buon senso della propria natura, che la passione di patria e l'entusiasmo della vittoria avevano esaltato per un momento, prima ancora che la legge fosse sancita, convocava con decreto dell'8 ottobre tutti i comizi del Reame a votare su questa formula: «Il popolo vuole l'Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e i suoi legittimi discendenti».
Il plebiscito era a suffragio universale: agli squittini risultarono nelle provincie napolitane 1,302,064 sì e 10,312 no, nella Sicilia 432,053 sì e 667 no; nelle Marche 133,807 sì e 1212 no; nell'Umbria 97,040 sì e 380 no.
Frattanto re Vittorio Emanuele, commessa la luogotenenza generale del regno al principe di Carignano, annunciava da Ancona, in un primo proclama ai popoli del mezzogiorno, il suo prossimo arrivo per tutelare l'ordine e far rispettare la loro volontà. Tale proclama era il commentario della lettera, colla quale Farini comunicava all'imperatore Napoleone la marcia su Napoli per sottrarre la grande città all'anarchia delle bande rosse.
L'epopea garibaldina era finita. Bertani, tanto calunniato, aveva già votato generosamente nella camera piemontese la legge proposta da Cavour per fare le annessioni con decreti reali; Mazzini riprendeva più desolato la via dell'esilio, lasciando stretta a Napoli una vasta colleganza popolare col titolo di Associazione Unitaria Nazionale, e affidando al Nicotera la direzione del nuovo giornale L'Italia del Popolo. Garibaldi, dopo la vittoria del Volturno, restava inerte. Il disprezzo, col quale la monarchia affettava di trattarlo, lo isolava nell'ingratitudine dei più.
La monarchia trionfava.