La Sicilia è conquistata; ma staccata dal Reame e annessa al Piemonte non sarebbe che un'altra Sardegna. L'impresa di Napoli diventa fatale, l'unità italiana è imminente. A Napoli il meraviglioso approdo di Marsala, la presa di Palermo, la cacciata dei 30,000 regi esaltano le fantasie; gli echi della stampa europea, sonante di inni al vincitore, coprono le critiche più ostinate; l'esercito, diffidente dei generali e mal disposto a guerra, tituba; la corruttela di tutti gli impiegati moltiplica i tradimenti alla vigilia del pericolo; la corte in preda al terrore non osa alcun partito. Russia e Prussia non le prestano più che un appoggio morale, l'Austria non ardisce ridiscendere in guerra, Napoleone III le consiglia di ridare la costituzione secondando l'idea nazionale. Troppo tardi! Il giovane re, incapace di mettersi alla testa dell'esercito e di gettarsi alle campagne per infiammarne la superstizione politico-religiosa, soffoca fra l'imbroglio dei partiti. La costituzione concessa il 25 giugno non contenta e non persuade alcuno; nel ministero composto dallo Spinelli compaiono uomini ignoti; De Martino, scaltro diplomatico, assume il portafoglio degli esteri, don Liborio Romano, settario amnistiato da Ferdinando II nel 1854, prende la direzione della polizia. Naturalmente i dissidenti liberali aumentano d'importanza e di numero; patrioti esuli o prigionieri ritornano frementi di vendetta e di libertà; la plebaglia venduta ai sanfedisti tenta indarno una delle solite reazioni al grido di: «Viva il re e abbasso la costituzione!», irritando maggiormente gli animi di tutti i partiti contro la corte. In questa pure scoppiano dissidi: i conti di Aquila e di Siracusa liberaleggiano, quello di Trapani invece si accanisce a reazione. La milizia civica, tosto costituita, tutela la sicurezza publica, mentre il ministro di polizia si acconta coi liberali, e mercenari stranieri difendono ancora la reggia. I comizi indetti pel 19 agosto e il parlamento convocato pel 10 settembre sembrano a tutti l'ultima insidia e l'estrema farsa della decadenza borbonica; le defezioni aumentano tutti i giorni; il generale Nunziante, già insanguinatosi tristamente in repressioni contro i patrioti e poco dianzi offertosi al re per spazzare dalla Sicilia i filibustieri di Garibaldi, per gelosia del generale Pianell nominato ministro della guerra, si dimette con ignobile teatralità dall'esercito, dirigendogli un proclama di rivolta.
Naturalmente la politica del nuovo governo napoletano non poteva essere che un'alleanza col Piemonte per resistere a Garibaldi. Il ministro Manna e il barone Winspeare, mandati a Torino per concertare una lega, offerivano di riconoscere le annessioni dell'Italia centrale alla Sardegna, di costituire nello stato pontificio due vicariati, uno delle Legazioni pel re di Piemonte e l'altro delle Marche pel re di Napoli, libera la Sicilia di convocare il proprio parlamento secondo la costituzione del 1812 per darsi governo proprio con un principe della casa regnante per vicerè, alleanza offensiva e difensiva contro l'Austria per la futura liberazione di Venezia.
Era l'antico disegno cavouriano, riproposto a Cavour quando già l'impresa dell'unità cominciava a trionfare; ma l'abile statista, pur fingendo di non respingere quest'alleanza, seguitava a trattare coi liberali di Napoli, per tenersi aperta la via a maggiori speranze. Puntellare il trono dei Borboni in tal momento sarebbe stato uno scrollare le basi di quello del Piemonte, scriveva egli apertamente in una nota al legato sardo a Pietroburgo. La sua intensa preoccupazione era invece la rivoluzione di Sicilia. Garibaldi, per forzare la mano al governo piemontese, vi ritardava le annessioni, dichiarando che si farebbero ad impresa finita: bisognava ancora conquistare Napoli, e dopo Napoli, Roma. Il partito rivoluzionario faceva miracoli d'organizzazione e di valore; esercito e governo borbonico non potevano presentare oramai seria resistenza; la conquista di tutto il Reame, compiuta in due mesi da Garibaldi, avrebbe potuto produrre un ultimo duello fra republica e monarchia. Cavour sapeva Garibaldi incapace di tradire; ma il solo principio politico del grande dittatore era il rispetto della volontà popolare, e se questa avesse proclamata la republica, Garibaldi ne sarebbe stato l'invincibile generale. Quindi il disegno di Cavour non poteva essere che doppio: impedire a Garibaldi il passaggio sul continente, lasciando compiere ai Borboni l'ultimo esperimento costituzionale ed aspettando dalla prima complicazione che il Piemonte potesse impadronirsi di Napoli, o promuovervi, prima ancora che Garibaldi vi entrasse vittorioso, una rivoluzione in senso monarchico-unitario.
Cavour spiegò indarno tutta la propria abilità; l'ora delle scaltrezze diplomatiche era passata.
Napoleone III, per un'ultima speranza di regno murattiano, aveva mandato una flotta per impedire a Garibaldi il passaggio sul continente; ma era rattenuto dalle dichiarazioni dell'Inghilterra, minacciante di entrare nella contesa se la Francia violasse nel Reame il principio del non intervento. Cavour, dietro ordine di Napoleone, fece scrivere da Vittorio Emanuele una lettera per imporre a Garibaldi di non valicare lo stretto; il dittatore rispose con magnanima semplicità che compirebbe l'impresa e deporrebbe ai piedi del re l'autorità conferitagli dalle circostanze. Cavour, che avrebbe voluto l'impresa senza Garibaldi, proseguì negli intrighi, scrisse al Villamarina e al Persano «facessero ogni possibile per impedire la dittatura di Garibaldi. Se la dittatura veniva offerta al Villamarina accettasse... Se si presentasse certo pericolo di veder cadere il governo in mani perfide od inette, Persano assumesse il maneggio della cosa publica. In caso estremo si costituisse un governo provvisorio con a capo il principe di Siracusa. Che ove il re (Francesco II) o il corpo diplomatico desiderassero di sottrarre Napoli all'occupazione di Garibaldi, si accettasse di occupare i luoghi più minuti della città coi soldati (piemontesi). Se la rivoluzione non si compie prima dell'arrivo di Garibaldi, saremo in condizioni gravissime. Ma per ciò non ci turberemo punto. L'ammiraglio Persano s'impadronirà, potendolo, dei castelli del porto, riunirà alla sua la flotta napoletana e farà che si presti subito giuramento di fedeltà al re e allo statuto. Poi vedremo».
Già poco prima aveva indirizzato al Villamarina in Napoli una specie di questionario: «Nel caso di un moto insurrezionale quale sarà il partito che avrà il sopravvento? Credete voi alla possibilità di un moto annessionista, simile a quello compiutosi in Toscana? Il murattismo novera esso molti partigiani nell'esercito e nella borghesia? I republicani sono ancora numerosi e influenti nelle Calabrie? Voi comprendete, signore, quanto mi debba interessare di conoscere questi diversi elementi di una soluzione, alla quale non possiamo rimanere estranei. Voi sapete che io non bramo minimamente di sospingere la questione napoletana ad uno scioglimento prematuro. Credo al contrario, che ci converrebbe che lo stato attuale delle cose durasse ancora per qualche anno».
L'illustre statista era non solo impreparato, ma avverso ad una rivoluzione del sud.
Nell'angustia della propria decennale politica non si era procurato nè contatti nè precedenti nel mezzogiorno: l'impresa garibaldina lo sorprendeva al pari dei Borboni; ma, troppo maggiore di essi, non potendo impedirla cercava sfruttarla. La sua attività in questo periodo fu tanto meravigliosa di accanimento quanto vana nel risultato. A Napoli tutti gli sforzi per suscitarvi una rivoluzione riuscirono vani: i liberali del comitato dell'Ordine non osarono muoversi, mentre i patrioti radicali, più generosi e più coraggiosi, pure non ribellandosi apertamente, riuscirono ad impadronirsi dello scarso moto liberale e a dirigerlo verso Garibaldi. Bertani da Genova spingeva la rivoluzione. Dopo la spedizione di Medici e di Cosenz nella Sicilia, gli arruolamenti proseguiti con maggiore alacrità avevano prodotto un altro esercito: duemila volontari erano pronti nelle Romagne e nella Toscana; altri novemila dovevano partire da Genova per scendere nello stato pontificio. Bertani aveva saputo provvedere armi, munizioni, vestiti, vascelli. Si era offerto il comando al celebre Charras, rivale di Lamoricière, ma quegli aveva ricusato, perchè ancora troppo debole il numero delle truppe: poi si pensò di affidarlo al Pianciani, mettendogli a fianco il Rüstow, allora eccellente ufficiale e più tardi insigne scrittore di guerra, come capo di stato maggiore; Giovanni Nicotera, superstite capitano dell'impresa di Pisacane, uscito allora di carcere, guiderebbe la legione toscana. Ma Cavour, spaventato da siffatto aire, vi si opponeva in mille modi. Poichè non poteva apertamente contrastare a questo moto divenuto nazionale, cercava di togliergli anzitutto il significato: la sua stampa ministeriale bersagliava ogni giorno con satanica malvagità Mazzini e Bertani, come intesi a cospirare per la republica e a smembrare così l'Italia: li accusava di feroce giacobinismo e d'ignobili ladrerie. Nullameno Bertani poteva seguire nell'opera, mentre Mazzini era costretto a nascondersi. Cavour, infatuato di arrestarlo, ne aveva dato l'ordine a Medici, che ricusò generosamente di ubbidire, e a Persano, che non seppe ubbidire.
A questo, da lui spedito in Sicilia, scriveva: «Il governo del re non farà chiassi, ma non intende di lasciarsi giuocare in tal guisa; quindi, dopo la spedizione di Cosenz già in corso, disporrà che nulla più per parte sua vada in Sicilia, sino a che non sia affatto tolta al Bertani ogni sua ingerenza negli invii». Farini, mandato a Genova, cercò di persuadere al Bertani come riguardi diplomatici costringessero il governo ad impedire che i novemila volontari sbarcassero da Genova nello stato pontificio; veleggiassero invece al golfo degli Aranci, poi toccassero la Sicilia.
Allora Bertani corse al Faro ad avvisarne Garibaldi: questi, sentendo la necessità di una più pronta operazione nel Reame, invece d'invadere lo stato pontificio, ebbe per un momento l'idea di un colpo ardito su Napoli; ma dei novemila volontari cinquemila soli erano al golfo degli Aranci; gli altri, per ordine del governo piemontese, erano già sbarcati a Palermo. Giovanni Nicotera, col consenso di Ricasoli, aveva radunato in Toscana un corpo di duemila volontari, pattuendo ai primi contrordini da Torino di non sbarcare nè sul litorale toscano, nè sul romano, se prima non avesse preso terra nello stato napoletano; ed invece poco dopo sentiva intimarsi di sciogliere la brigata. Il fiero rivoluzionario ricusò, i volontari rumoreggiarono così forte che Ricasoli dovette riconsentire il primo patto: senonchè la brigata a Livorno non trovò che due bastimenti francesi sprovveduti di viveri e noleggiati dal governo per condurli in Sicilia. Un bastimento sardo da guerra, entrato nel porto, strinse d'appresso i due vapori; la batteria del molo puntò contro di essi le proprie batterie: il Nicotera, per evitare una battaglia fratricida, dovette cedere e andare in Sicilia, protestando con veemenza di republicano contro il tradimento del governo.
Ma il conte di Cavour, sospinto dalle circostanze, precipitava la propria azione monarchica: nel costringere tutto lo sforzo della rivoluzione al sud, si manteneva aperto l'adito a penetrarvi primo e solo per lo stato pontificio. Le sue vessazioni al partito rivoluzionario, mentre le vittorie garibaldine lo illuminavano di poesia, gli avevano svelato tutta la debolezza della rivoluzione. Il ministro Farini in una circolare aveva potuto calunniare e minacciare impunemente i comitati rivoluzionari, si erano bistrattati i volontari, si domandavano loro i passaporti da paese a paese italiano, si erano sequestrate cartucce quando Garibaldi ne mancava al fuoco; a Genova si erano persino imprigionati alcuni fabbricanti di polvere, senza che alcuno dei rivoluzionari osasse reagire; Garibaldi seguitava nella fede al re, Mazzini non chiedeva più che «lasciateci fare anche per voi». Le provincie romane tacevano sotto le minacce di Lamoricière forte appena di ventimila uomini; il Napoletano ciarlava, guardando Garibaldi armeggiare invano per passare lo stretto.
Il Piemonte dominava sempre l'Italia coll'apparenza di forte stato nazionale.
Ma la sua politica si sbrogliava al soffio della rivoluzione. L'impresa ormai inevitabile di Garibaldi su Napoli obbligava il Piemonte ad intervenirvi. Garibaldi vittorioso dei Borboni potrebbe marciare su Roma, attirando sull'Italia una guerra colla Francia.
Per salvare il papa e schiacciare contemporaneamente la rivoluzione, bisognava dunque invadere lo stato pontificio, cansare Roma, arrivare su Napoli a tappe forzate, e, prima ancora che l'Europa si riavesse dallo sbalordimento, risponderle collo spettacolo del governo costituzionale già stabilito, e del papa libero entro più ristretto territorio.
Di questo era d'uopo però persuadere anzitutto Napoleone.