Capitolo Terzo. L'Italia in Europa

Così l'Italia in quindici secoli di una storia, la più complessa fra tutte, aveva potuto raggiungere la propria individualità politica costituendosi in nazione.

Splendidi e squallidi i suoi avvenimenti si erano succeduti con foga precipite attraverso le scene di un dramma, nel quale tutte le leggi della vita per lungo tempo erano sembrate capovolgersi. Nessuna unità apparente fra tante avventure, nessun carattere dominante nel suo popolo composto dalla sintesi di tutte le razze. Già prima ancora che Roma, dilatandosi a città universale, desse al mondo la prima unità politica, quando nell'Europa la barbarie era più antica e più fitta, il popolo misterioso degli Etruschi aveva improvvisato fra il Tevere e il Po una civiltà meravigliosa d'arte e di scienza, di politica e di religione. Roma, costituita in una immensa città militare, che imporrebbe poi a tutto il mondo la propria giurisprudenza, non aveva potuto fondere in un solo getto le troppe genti d'Italia: la sua azione politica restava loro fatalmente esterna, mentre il suo orgoglio quiritario considerandole come materia di conquista, le respingeva dall'eguaglianza civile dei suoi cittadini, che era tutto il resultato della sua vita storica. Ma quando Roma, cresciuta ad impero universale, dovette diventare come il centro neutro del mondo, e le sue legioni composte di sudditi ribellandosi al governo dei Cesari nominarono i propri imperatori e s'impadronirono dell'orbe, una nuova eguaglianza avvenne fra cittadini e concittadini, fra capitale e provincie.

Naturalmente queste, conservando contro quella un residuo di originalità etnografica, si giovarono dei suoi elementi civili per rinnovellarsi in nazioni indipendenti. La grande religione del cristianesimo aiutò singolarmente col principio della propria eguaglianza morale e della libertà di coscienza questo processo d'individuazione già affrettato dalla decadenza imperiale cogli orrori di una corruzione, nella quale con Roma sembrava perire la coscienza umana. E quando per l'inevitabile spostamento di governo determinato dalla necessità di resistere alle frontiere orientali più vivamente minacciate dai barbari, la capitale da Roma emigrò a Bisanzio, l'Italia, pur conservandosi nominalmente centro dell'impero occidentale, non fu più che una provincia come tutte le altre. Roma passava per lungo ed incerto tramite dall'impero al papato, dal paganesimo al cristianesimo, mentre Ravenna, antico villaggio lacustre e mediocre stazione navale, s'ingigantiva con improvvisa ed effimera fortuna a capitale d'occidente. Allora irruppero le invasioni che rinnovarono il mondo antico preparando il moderno. Popoli barbari cresciuti in una selvaggia verginità dilagarono sulle terre romane, e ne assorbirono la civiltà, disparendo per dar luogo ad una razza più mista, nella quale un sangue giovane beveva tutti gli aromi vaporanti dalla rovina di una antica civiltà. Il mondo fu quindi e dovunque federale.

Bisanzio, perduta sul confine dell'Asia, cessò quasi di appartenere alla storia europea per attendere fra gli orrori e gli splendori della più spirituale decadenza quella rinnovazione mussulmana, che doveva poi imporre al cristianesimo d'occidente l'ultima e più difficile prova.

Ma se nell'Europa il mareggiare delle invasioni sembra ubbidire piuttosto alle leggi fisiche della gravitazione che a quelle ideali della storia, nell'Italia, ove a Roma dura ancora l'idealità dell'impero e splende più pura ed universale l'altra della chiesa, le invasioni s'illuminano d'incandescenti chiarori, e si sottopongono quasi con umiltà di olocausto a questi due supremi poteri. Senonchè il loro tumulto è così sanguinario, le loro battaglie così spaventevolmente effimere, le loro stratificazioni storiche sul suolo italiano così confuse, la loro inconsapevolezza così ingenua, le loro catastrofi così ritmiche, mentre i due concetti della chiesa e dell'impero s'alzano sempre nelle tenebre medioevali sino a parere due stelle di una medesima costellazione, che nè cronisti, nè storici, nè vincitori, nè vinti, nè barbari, nè latini, nè politici, nè sacerdoti, nè poeti, nè filosofi possono comprenderne l'idea o apprezzarne almeno approssimativamente il risultato.

Al momento, in cui s'attendono le conseguenze più previste nel dramma dei personaggi e nella tragedia dei popoli, altre invasioni irrompono, nuovi prologhi scompongono gli epiloghi, la narrazione s'interrompe nello sbigottimento di un nuovo racconto, altre geste disperdono le immagini delle quali la leggenda stava rivestendo le imprese degli ultimi trionfatori. Goti, Longobardi, Franchi, Alemanni si succedono scacciandosi, schiacciandosi, sovrapponendosi gli uni agli altri: Normanni, Angioini, Aragonesi, Francesi perpetuano queste invasioni, che interventi pontifici e discese imperiali trasformano in disastri periodici. Ogni mattina i popoli sembrano ricominciare la trama della propria storia: le loro città si trasformano in teatro di glorie straniere, i loro campi servono a battaglie di una guerra scoppiata nella Scandinavia o nella Germania, nella Francia o nella Spagna.

Quindi una confusione inestricabile di forme e di periodi politici rende inintelligibile la storia di questi primi tempi. Guerre ed invasioni sono così continue che non si discernono più nè vincitori nè vinti, nè invasi nè invasori: chiesa ed impero sovrastano, municipii romani e città militari si osteggiano, il moto indigeno è come una corrente di fiume nel mare, che vi diventi inavvertibile a pochi passi dalla foce. I governi, che s'improvvisano sul suolo ancora tutto pregno di elementi romani e solcato da tutti gl'istrumenti della nuova religione cristiana, sono qua comunali, là feudali, normanno in Sicilia, bizantino a Venezia, teocratico a Roma, regio a Pavia: o s'irrigidiscono in fragili regni, si stemperano in labili republiche, si distaccano in villaggi indipendenti, si sminuzzano in gruppi abbaziali, urtandosi coi più imprevedibili contrasti nella più abbacinante fantasmagoria.

Un dualismo riprodotto dappertutto dalla più eterogenea multiplicità rovescia l'alta Italia sulla bassa, municipii contro municipii, città contro città, castelli contro castelli: gli odii s'invertono per rianimarsi, le guerre stancano i secoli senza una tregua, gli eserciti compaiono talora come indipendenti dai popoli, questi vigoreggiano sballottati da convulsioni troppo lunghe per essere un morbo, l'anarchia rinnova tutti i governi senza soccombere ad alcuno di essi, l'impero è impotente come la chiesa e non per tanto chiesa ed impero sono le due sole idee e i due unici poteri invincibili.

L'Italia ha dimenticato il mondo sul quale regnava con Roma, e ridotta Roma sede del pontefice e capitale di una piccola regione turbolenta quanto Genova, meno colta di Firenze, più povera di Milano, quasi nulla politicamente di fronte a Venezia.

Ma dopo quattro o cinque secoli la lava delle invasioni si è già solidificata amalgamandosi col terreno, dal quale germoglia una nuova flora. Una razza mista di sangue e di colore, di tendenze, d'abitudini, di tradizioni, d'ideali è disseminata per l'Italia in tanti piccoli stati con governi di tutti i modi, con dimensioni che sfuggono a tutti i calcoli. Un particolarismo angusto e fratricida costituisce la loro forza e la loro originalità: il comune è una idea, che vale quella dell'antica urbe e la supera potendosi riprodurre da per tutto, mentre Roma era condannata ad essere unica nel mondo e contro il mondo. Il comune nega inconsciamente la tradizione pagana, le invasioni barbariche, le trasformazioni dell'impero romano, la feudalità, il papa, la nazione, il mondo. La sua vita, circoscritta al suo territorio, si fortifica nell'oblio di ogni universalità: i suoi nuovi cittadini imbevuti di tutte le superstizioni medioevali, oppongono una indipendenza capace di qualunque bassezza e di qualunque eroismo a tutte le autorità religiose e politiche; la loro tenacia stanca tutte le inimicizie, la loro passione li mette a paro con tutte le idee, la loro originalità li sovrappone a tutti i poteri. Quindi il nuovo federalismo si organizza nei comuni attraverso rivoluzioni, nelle quali i partiti pullulano e le sètte si suddividono; dittatori, tiranni, signori, si moltiplicano; le epopee si specializzano, le politiche si frantumano, e ogni comune diventa un governo, uno stato, una nazione, un mondo separato ed antagonista, che solo la legge arcana della federazione avvince a tutti gli altri, e che nell'orgoglio della propria individualità pretenderebbe ad una storia speciale come Roma ed Atene. La guerra, che come una bufera sbatte gli uni sugli altri i comuni, sprigiona dalla loro idea scintille che rischarano ed incendiano: la loro prima vittoria è contro i castelli, la seconda contro le città militari, la terza dei comuni più grandi e spirituali sui più piccoli e meno intelligenti. Laonde la loro storia riproduce a distanza di secoli quella dell'antica Grecia; la Toscana supera l'Attica nella molteplicità del genio, e basta da sola ad iniziare una terza epoca di incivilimento mondiale. Tutti i borghi hanno grandezze che illustrerebbero una grande nazione: la loro vita resiste a tutte le sventure, prospera fra tutti i delitti, si decora di tutte le virtù, si scinde in tutte le varietà per riunirsi in unico risultato. Nè la chiesa nè l'impero possono prevalere contro i comuni, che sono il nocciolo infrangibile della patria e della nazione futura.

La guerra, invece di distruggerli, li amalgama in corpi sempre maggiori, che vittorie e sconfitte consolidano: alleanze ed esigli stringono le prime fratellanze politiche; le stesse rivalità inconciliabili, incatenandoli l'uno all'altro, li preparano a sempre maggiore unità.

Mentre i loro cronisti sembrano chiudersi ognuno nella cerchia angusta delle proprie mura, la storia invisibile li appaia e li coordina: il loro racconto inintelligibile diventa chiaro proseguendo oltre i confini dei loro territori e della loro epoca nel racconto degli altri: malgrado l'intrattabilità degli odii, che lo esagerano, nell'assenza di ogni preconcetto e di ogni giudizio morale riesce quasi sempre vero.

Coll'impero, col papato e coi comuni l'Italia è ancora il centro della nuova civiltà. Ogni moto viene all'Europa dall'Italia: Cesari e pontefici debbono incoronarsi a Roma; da Roma si diffondono il diritto e la religione, la tradizione e l'avvenire. Tutti gli altri popoli, usciti appena dalla preistoria e oscillanti ancora nella marea delle invasioni, aspettano da Roma e dall'Italia le idee: il loro istinto non può diventare coscienza che per mezzo di una rivelazione italiana, la loro bravura mutarsi in virtù che al contatto del sentimento italiano, la loro forza essere creatrice che sotto la direzione del genio italiano. L'Italia sola è classica: impero, papato, religione, scienza, arte, politica, tutto prosegue in essa e la trascende senza stremarla. L'Italia basta al mondo, e si serve indifferentemente dei Cesari e dei papi, doma la propria religione coll'incredulità, respinge l'ateismo coll'arte, sgretola tutti i dispotismi con una libertà, alla quale concede l'efferatezza di tutte le tirannidi; è dotta, marinara, tribunizia, bancaria, agricola, democratica, mentre l'Europa non ha ancora che barbari alle prese colla propria gerarchia militare e colla nuova religione cristiana.

Il numero delle rivoluzioni italiane è così enorme che oggi stesso la scienza storica stenta ad accettarlo, la gamma delle sue forme politiche così ricca che nessun progresso vi può essere impedito, la folla de' suoi grandi uomini così densa che la fortuna e non il merito deve assegnare loro l'immortalità. Appena i suoi comuni, respingendo come un cuneo la doppia barriera del papato e dell'impero, arrivano alla grande libertà di potere decorare se stessi, una primavera di bellezza comincia per tutta l'Europa: l'epoca della barbarie è conchiusa, l'Italia ha trionfato del mondo.

Le altre nazioni riunite dalla guerra a grandi unità con pochi ma potenti e contrari caratteri potranno dietro l'impulso italiano proseguire nell'opera dell'incivilimento. L'Italia, come stanca della propria immensa elaborazione, si riposa in un'orgia di bellezza, moltiplicando i propri artisti ed imponendo loro come a soldati la conquista quotidiana di un capolavoro. I suoi comuni divenuti signorie stanno per sparire nei principati, la sua religione romana per essere spezzata da uno scisma, del quale la coscienza umana si coprirà come di uno scudo; il suo Cesare non è più che un simbolo, il suo papa un vescovo, le sue republiche non sono più una libertà, i suoi regni non hanno ancora unità, perchè il federalismo necessario alla sua vita per la produzione di tante idee e di tante forme non può sparire che sotto l'azione di un'idea maggiore della chiesa e dell'impero.

Ma l'Italia, indietreggiando dall'avanguardia della civiltà, copre la propria ritirata col lanciare Colombo alla scoperta dell'America e Galileo a quella del cielo: così, dopo aver dato al mondo l'unità romana e cristiana, vi aggiunge quella geografica e l'universalità planetaria sorpassando lo stesso cristianesimo, col quale l'aveva salvato dalla barbarie medioevale.

La sua immensa storia di venti secoli s'impicciolisce quindi in quella del Piemonte e della Sicilia; Firenze non è più che una stazione ove le belle arti essendosi troppo a lungo fermate, hanno perduto ogni energia di progresso; Venezia s'irrigidisce in una inutile difesa contro i turchi, dando al proprio governo l'immutabilità dei marmi, coi quali ha costrutto i propri incantevoli palazzi; Milano decade a provincia francese o spagnola; Roma è appena la capitale di uno stato pontificio senza potere, senza nazionalità e senza governo.

La storia italiana, mutata in eco della storia europea, deve ripetere le voci di Francia, di Germania, d'Austria, di tutti. Il suo federalismo si è arrestato all'ultimo termine, e s'inizia segretamente il periodo dell'unità. L'Italia, che colle proprie idee universali ha dato all'istinto individualistico degli altri stati la profondità di una coscienza nazionale, attende dai contraccolpi della propria opera l'energia di organizzarsi in nazione. Per ora la diffrazione delle sue tendenze e l'esaurimento delle sue forze lo contendono. Come nel medio evo, la sua grande valle del Po seguita quindi ad esser il teatro ove si decidono le massime contese europee, ma nelle quali solo il Piemonte si mescola per educarsi all'abilità necessaria di una futura egemonia italiana. Mentre la Germania s'insanguina nella rivoluzione della Riforma per togliere a Roma il primato religioso e l'estrema fattizia unità mondiale all'Italia, questa dalla festa della bellezza durata tutto il cinquecento è già tornata all'azione, dando ai propri scienziati l'impeto degli antichi legionari romani.

Il seicento è l'epoca eroica delle scienze, l'ultimo trionfo del genio italiano. Dopo questo sforzo supremo l'Italia pare cancellata dalla storia: Inghilterra, Francia, Spagna, Olanda, Portogallo, Austria, Russia, si dividono il mondo: l'America è già misurata, girata l'Africa, contornata l'Asia, scoperta l'Australia: il mondo, libero da ogni antica unità religiosa o politica, è aperto a tutte le carriere, ma solo quei popoli, che vi raggiunsero l'indipendenza e la libertà di nazione, possono agirvi efficacemente. L'Europa in preda ad una febbre di operosità urge tutte le proprie genti. La Spagna, succeduta nel posto dell'Italia all'avanguardia della storia, non ha potuto durarvi più di un secolo; la Francia, rimasta sola a difendere il primato delle razze latine, sembra perdere terreno dinanzi agli sforzi giganteschi della razza teutonica rappresentata dall'Inghilterra e dalla Germania; ma poichè il genio romano è inesauribile, la Francia contrappone presto alla Riforma, che aveva emancipato la coscienza religiosa, una rivoluzione, che crea la coscienza civile.

E l'Italia ritorna nella storia con Napoleone I, ultimo Cesare e ultimo condottiero, che dilata la rivoluzione francese con due antichi concetti romani, l'universalità imperiale e la democrazia militare.

La nazionalità italiana riappare quindi fugacemente entro l'impero napoleonico nei limiti di un regno, nel quale persino il papa è scomparso, e sul quale comanda un fanciullo col titolo di re di Roma. Ogni traccia di federalismo vi è cancellata: l'Italia, presa nell'orbita della rivoluzione francese, ha ricevuto dal suo urto la forza di conglomerarsi politicamente in nazione; l'impero napoleonico si scomporrà come un immenso bolide; ma l'Italia, aggirandosi sempre in quell'orbita, potrà in solo mezzo secolo consolidarsi in nazione.

Tale è oggi in Europa.

Ma quale è in questo glorioso continente il suo posto e la sua missione?

La moderna Europa civile non somiglia all'antica: questa guardava il Mediterraneo, quella fronteggia tutto il mondo. Dopo il Rinascimento l'Europa si creò nel mare Baltico un secondo centro, ove Olanda, Germania, Inghilterra, Scandinavia, Russia si fusero come le antiche nazioni mediterranee; ora tutte le coste dei suoi mari brillano di fari civili, all'interno tutte le sue grandi città sono centri di scienza e di vita. Le sue vittorie sull'Islamismo, col quale l'Asia aveva tentato più volte di sopraffarla, le hanno da quasi due secoli assicurata la primazia su tutti i continenti; i suoi popoli organizzati in nazione offrono lo spettacolo di una forza, alla quale l'antichità non saprebbe trovare in se stessa alcun paragone. L'Inghilterra possiede un impero maggiore del romano, la Russia ha un territorio quasi pari a quello della Cina, piccoli paesi come il Portogallo e l'Olanda posseggono colonie decuple di loro stessi.

L'Europa libera non ubbidisce a nessuno dei propri popoli, non soccombe più ad alcuna loro preponderanza fattizia, ma conquista, illumina, rinnova tutti gli altri continenti. L'America è già tutta europea di spirito, figlia primogenita e rivale dell'Europa: questa vi possiede ancora qualche colonia, che può sfruttare come una fattoria, ma che perderà presto come tutte le altre. L'America è democratica: l'altro ieri fucilava al Messico l'ultimo imperatore avventuriero, ieri distruggeva nel Brasile l'ultimo impero e rinviava in Europa Pietro I di Braganza, come un servitore pensionato.

I due grandi problemi esteri per l'Europa sono l'Africa e l'Asia, che essa deve attirare l'una dalla preistoria nella storia, l'altra dalla storia antica nella storia moderna. Tutte le nazioni europee si sono date in questo secolo la posta sul continente nero; Russia ed Inghilterra si contendono la gloria e l'utile di trasformare l'Asia; il secolare problema della Turchia sul Bosforo non è che un dato del problema orientale. Ma la Russia, già distesa nell'Asia sovra immensi territori, cinge colla Siberia la Cina a nord-ovest, e dal Caucaso discendendo per la Persia e l'Afganistan minaccia di asserragliarla al sud per sopraffarvi l'Inghilterra; una ferrovia russa, miracolo d'improvvisazione, in pochi anni, tocca già al Tibet; Annenkoff, il generale che l'ha costrutta, ne sta disegnando un'altra sino all'estrema frontiera chinese verso il Giappone. L'America ha offerto i miliardi dei propri banchieri al Celeste Impero per aprirvi le prime grandi arterie ferroviarie; gli inglesi solcano di ferrovie l'India; il commercio ha dischiusi tutti i porti asiatici; la Francia, sempre liricamente avventuriera, è penetrata vittoriosa fino a Pechino e si è ritirata fermandosi conquistatrice nell'Annam, nella Cocincina e nel Tonkino.

Mentre l'Europa penetra con sì irresistibile espansione nei due vastissimi continenti, che quasi l'imprigionano, raddoppia in sè medesima con rapido processo le proprie forze. Tutti i suoi popoli in questo secolo si sono rinnovati al contatto della rivoluzione francese. Teocrazie, monarchie, aristocrazie, hanno dovuto soccombere ad una democrazia multiforme: appena costituite le nazioni, si pensa a confederazioni per razze. Nel Baltico un disegno di federazione presentato dal re di Svezia (1864) congiunge Svezia, Norvegia e Danimarca; l'avanguardia della democrazia latina ne propone un altro per stringere in un solo fascio Spagna, Francia e Italia; la Germania, riunitasi intorno alla Prussia in un impero di 45 milioni di cittadini, aspetta l'occasione di assorbire gli altri 12 milioni di tedeschi predominanti ancora nell'impero austriaco. Questo, scacciato dal centro d'Europa, tende ad inorientarsi, e per resistere al moto delle nazionalità comincia a concedere qualche autonomia ai maggiori popoli, onde è composto: l'Ungheria è già in possesso di un proprio parlamento, gli czechi di Boemia lo reclamano ad alte grida e propongono Praga a loro capitale, nei Principati Danubiani guerre e rivoluzioni vi educano le forti popolazioni a libertà. Bulgaria, Romania, Serbia, Montenegro, vi sono già indipendenti e con dinastie proprie; la Bosnia e l'Erzegovina, cedute in amministrazione all'Austria dal trattato di Berlino (1878), non intendono acconciarsi al nuovo padrone, che tutti gli slavi di Polonia, di Transilvania, di Gallizia, di Slavonia, di Dalmazia, guardano con occhio nemico. La Grecia ostinata nell'eroismo delle proprie rivendicazioni, tiene sempre la mano sull'elsa per slanciarsi contro il turco, del quale l'impero europeo, caduto nel fondo della più orribile rovina economica, si sfascia politicamente sotto l'azione combinata dell'idea greco-slava e dei propri principii barbarici. Ora le rivalità dell'Austria, della Russia e dell'Inghilterra lo proteggono ancora, ma l'irresistibile moto nazionale delle sue popolazioni cristiane non può essere arrestato da alcuna combinazione diplomatica. Qualunque sia dunque per essere il carattere che dominerà la formazione di questi nuovi stati divisi ancora da odii di sètte religiose e da gelosie storiche di razza; vi preponderi la influenza greca o slava, l'unità panslavistica di Pietroburgo, o una federazione più democratica che vi rispetti le originalità regionali; l'Austria si dissolva in questo moto o vi si rinnovi entrando coi proprii popoli in questa lega che potrebbe avere altrettante capitali che gli Stati Uniti d'America, Praga, Buda-Pest, Belgrado, Bucarest, Sofia, Atene, Costantinopoli, mentre Vienna sarebbe la seconda città della Germania: è impossibile che il processo d'individuazione si fermi in questi stati, cui l'islamismo non potè fondere, e che la moderna democrazia deve integrare.

Se nei primi passi all'indipendenza essi tutti, come il Belgio, la Grecia e l'Italia, accettarono o accattarono dinastie indigene o straniere, le quali naturalmente si destreggiarono diplomaticamente fra loro medesime e più forti vicini per timore di essere fuse in un grosso getto monarchico; questo tirocinio politico era necessario per addestrarli ai governi rappresentativi e per convergere in una fattizia unità di comando i loro sforzi sempre infranti da troppo minuti antagonismi.

Quindi il grande problema europeo, una volta dibattuto sul Reno, sul Po e sull'alto Danubio, ribolle ora alla foce di questo ultimo e sulle sponde del mare Nero, che dopo essere stato uno stagno turco sta per diventare un lago russo, se il panslavismo, nell'incalcolabile sua forza di espansione trionfando delle opposizioni riunite dell'Austria e dell'Inghilterra, offra alle popolazioni slave del sud più pronta indipendenza della Porta e maggiore fortuna politica coll'annessione all'impero degli czar.

L'avvenire della politica e della storia europea è dunque slavo.

Un immenso popolo, disseminato sulla metà del nostro continente, sta per aprirvi un periodo di civiltà pari al latino e al germanico. Il suo numero enorme è tuttavia piccolo per il suo territorio: la sua orbita abbraccia già una gran parte dell'Asia, e si piega dal mare di Behring al mar Glaciale sino al Baltico, penetra nella Scandinavia e nella Prussia, dal mar Nero tende al Mediterraneo e da questo all'Adriatico e all'Oceano Indiano. Le avanguardie slave vigilano già nella Dalmazia, sono accampate nel cuore dell'Austria, gli eserciti russi hanno già corso vittoriosi tutta l'Europa da Parigi a Costantinopoli. L'impero degli czar ha l'estensione e la varietà di un mondo. Nella sua spaventevole unità governativa presenta la più salda compattezza attraverso le antitesi di tutte le forme della vita primitiva colla vita moderna; religione e politica vi sono fuse da secoli nello czar, pontefice ed imperatore, che regna, governa, giudica, rivela a nome di Dio. La forza dell'impero è incalcolabile come l'autorità del suo governo: nessuna guerra può vincerlo, nessuna rivoluzione rovesciarlo. Entrato da poco più di un secolo nella storia europea, esso ne domina già le vicende: ha indigato la rivoluzione francese, cancellato il primo impero napoleonico, organizzato nella Santa Alleanza la reazione monarchica, liberata la Grecia, sottratti colla propria influenza i Principati Danubiani alla Turchia; colla voracità dei barbari divora tutti i prodotti della nostra civiltà per meglio assimilarsene la sostanza; ha già una scienza, una letteratura, una musica, una politica, della quale i disegni sorpassano tutte le combinazioni diplomatiche degli altri governi. Il suo raccoglimento è sublime di promesse, la sua attività miracolosa d'ardimenti. Coll'istinto infallibile dell'avvenire minaccia simultaneamente Asia ed Europa: il suo sogno è di espandersi dall'India all'Illiria, la sua marcia attraversa regioni di tutti i climi e di tutte le storie, lenta, calcolatrice, senza mai indietreggiare, assodando la conquista prima di aumentarla, aiutandosi egualmente colla barbarie ubbidiente della propria moltitudine e colla raffinata cultura del proprio governo. Nessuna tirannia è più terribile e meno capricciosa della sua, che ubbidisce ancora più fanaticamente del popolo all'idea di un mondo russo. Roma non era che una città di soldati, Londra non è che una città di mercanti, Pietroburgo è una città di padroni, che invece di soggiogare il mondo o di sfruttarlo, vogliono riempirlo di se medesimi. La loro devozione allo czar è fatta di fede in se stessi. Di fronte all'impero russo l'impero austriaco pare una piccola confusione burocratica, e quello germanico un accampamento militare: entrambi debbono destreggiarsi nella politica per difendere la propria importanza, mentre la Russia sa di essere inattaccabile.

La terribilità della sua forza si rivela ad intervalli nelle esplosioni de' suoi rivoluzionari, che col nome inesplicabile di nihilisti vorrebbero trarla dalla sua base per farne una improvvisata democrazia moderna. Solo il cristianesimo alla prima guerra contro Roma potè mostrare nei propri neofiti una pompa di volontà e una gloria di passione pari a quella dei moderni nihilisti.

Il moto delle nazionalità raddoppia la potenza della Russia, facendola centro di tutti gli slavi dispersi nel mezzo o nel sud dell'Europa: il panslavismo è la più vasta, profonda idea nazionale della storia europea. Grecia, Belgio, Italia, Germania, non vi prelusero che come saggi.

All'immensa iniziativa della rivoluzione francese solo il moto panslavista è degno risultato.

Quindi l'Europa non ha che due fuochi, Parigi e Pietroburgo: due originalità, la republica e lo czarismo: tutti gli altri governi costituzionali sono transizioni di epoche e transazioni di principii. Nessuna guerra se non russa può mutare sensibilmente la carta europea; nessun problema è più vitale per tutti i governi del come gli slavi del sud si riuniranno in nazione. I popoli occidentali d'Europa possono perfezionarsi piuttosto che crescere; il popolo russo può emigrare all'interno per una varietà sconfinata di terre, ove tutti i climi gli promettono tutte le ricchezze, prima che le collisioni del lavoro col capitale vi producano la tormenta politica delle nostre anguste democrazie.

Ora per quasi tutti i governi d'Europa la questione pregiudiziale è quella della loro forma monarchica, alla quale mancando la consacrazione religiosa e la giustificazione teoretica crescono ogni giorno le ostilità. Negli stati, ove le monarchie furono necessario strumento alla rivoluzione, la lotta è meno violenta per l'elasticità delle une e dell'altra; ma in quelli, ove le monarchie preesistevano alla rivoluzione, la lotta si accanisce nelle antinomie dei principii, che le costituzioni irritano cogli stessi espedienti di conciliazione.

Fra cittadino e re la guerra è anche più fiera che non fra operaio e capitalista, giacchè alle rivoluzioni sociali debbono sempre aprire il passo le rivoluzioni politiche.

Dopo la proclamazione della sovranità popolare tutte le monarchie sono idealmente reazionarie. Il loro ufficio in questo secolo fu di prestare alla rivoluzione il proprio ambiente per attuarvi l'originalità dell'idea democratica nella sproporzione pericolosa fra la coscienza culta delle classi dirigenti e la coscienza bruta delle classi dirette. Le monarchie diventarono come il punto neutro, ove s'accordarono le ragioni del passato e le istanze dell'avvenire, i pregiudizi e i privilegi storici colle uguaglianze e colle giustizie sociali. Nella garanzia di ordine offerta dalle monarchie si acquetarono le diffidenze delle plebi e gli odii delle aristocrazie contro il pareggiamento democratico; ma le contraddizioni della sovranità popolare col diritto divino dovevano mutare la pace costituzionale fra monarchi e popoli in una guerra parlamentare con interventi di piazza, appena le battaglie rompessero i confini statutari.

Le monarchie più gloriose furono in Piemonte e in Prussia, e dureranno più lungamente, finchè un egoismo dinastico o un errore di metodo inimicandole colla patria le rompa come il bozzolo, dal quale deve involarsi la farfalla.

In fondo a tutte le monarchie costituzionali sta la stessa republica.

Quale è dunque il posto e la missione dell'Italia monarchica in questa Europa, nella quale la popolazione aumenta da un secolo con nuova proporzione, e il militarismo prodotto dalle guerre di nazionalità mantiene armati nella pace tre o quattro milioni di soldati, e può raddoppiarli al primo scoppio di ostilità? L'Italia, che va liquidando la sovranità temporale del papato, e ha raggiunta fra tutti gli stati risorti a nazione la più intensa unità politica, con oltre duemila anni di storia la più gloriosa, e in breve territorio la più spiccata varietà di attitudini nel proprio popolo, quali idee e quale forza può recare nella politica europea? In questo secolo non è più possibile parlare di primati come quelli antichi di Roma; la civiltà futura d'Europa potrà colorarsi vivamente ai riflessi del mondo slavo, ma non sparirà più nel carattere di un solo popolo.

Ora all'avanguardia del progresso democratico sta ancora la Francia colla propria republica, mentre la Russia, attardata nella più arcaica forma di governo, addensa promesse su promesse di civili originalità: unità republicana e unità ieratica chiudono l'Europa come in una parentesi. Nella Germania il federalismo imperiale non ha altra vera unità che l'esercito; il lavoro dell'assimilazione politica, cui non basterà una sola generazione, converge all'interno tutte le forze nazionali; la Spagna non entra più nel concerto europeo che per risolvervi qualche difficoltà coloniale; l'Inghilterra non vi è spinta che da contraccolpi della questione orientale; l'Austria cerca una nuova base federalista per non uscirne. L'Italia, costretta dal proprio diritto nazionale alla conquista di Trento e di Trieste, e dalle proprie origini rivoluzionarie ad una politica democratica, dovrà attraverso le oscillazioni delle correnti parlamentari seguire una politica che secondi il liberalismo francese e le nazionalità slave. La sua opera nel Mediterraneo può essere prevalente: i suoi addentellati storici col mondo greco-slavo le permettono un'ingerenza altrettanto fortunata che gloriosa, le sue affinità colla Francia e colla Spagna le assicurano con una alleanza l'invincibilità.

Il suo nemico immutato è l'Austria; il mare, che può e deve essere suo, è l'Adriatico, mentre la Germania avrà il Baltico.

La sua monarchia dei Savoia potrà accompagnare la rivoluzione nazionale dell'unità sino alla conquista di Trento e di Trieste?

La scienza della storia non può rispondere a questo problema.

Ora l'Italia elabora in se stessa la propria coscienza di grande nazione. Se la forma monarchica del suo governo è naturalmente reazionaria, il suo spirito rivoluzionario ha potuto produrre in questo secolo le due maggiori originalità politiche con Napoleone I e con Garibaldi: il suo governo è ancora all'avanguardia della nazione, ma questa si affretta per raggiungerlo, e non può tardare molto a sorpassarlo.

L'alleanza attuale dell'Italia colla Germania e coll'Austria contro la Francia e la Russia non esprime più che l'ultimo stadio della sua inferiorità politica, nella contraddizione della sua posizione diplomatica colle sue tendenze storiche.

L'avvenire d'Italia sarà di assoluta libertà, e quindi fecondo di grandi iniziative.

La Germania all'indomani del proprio trionfo sul secondo impero napoleonico, nell'ebbrezza superba di sentirsi finalmente libera ed una, alzava a se medesima una statua colossale sulle rive del Reno fisa minacciosamente verso Francia; nè paga a questo monumento di un'ultima gloria militare, esorbitando dalla propria idea, ne levava un'altra ad Arminio che tagliava a pezzi le due legioni di Varo, quasi con quella vittoria aneddotica di un condottiero selvaggio volesse opporre se medesima all'immensa storia ideale di Roma. Quindi, bandendo per l'iscrizione latina, che doveva spiegare quel monumento, un concorso mondiale, con spavalda ironia dava il premio al romagnolo Ferrucci, retore latinista e abbastanza vacuo italiano per non sentire la vergogna di vantare una sconfitta romana così:

Hic, ubi romano rubuerunt sanguine valles,
Duxque datus saevae cum legione neci
Hostibus hic terror post saecula multa resurgo
Vindex Germani nominis Arminius.

L'Italia tacque.

Quando l'Italia avrà conquistata intera la coscienza della sua nuova grandezza in Europa, sentendo meglio quella antica nella quale fu centro a tutto il mondo, risponderà alla Germania col mettere in Campidoglio, al posto di Marco Aurelio, l'incomparabile statua di Giulio Cesare confusa ora nel museo capitolino fra troppi capolavori, e vi scriverà sotto con romana brevità:

DIVO
Caio Julio Caesari
URBS ET ORBIS

E ora esaminiamo le condizioni della lotta politica attuale.

Casola Valsenio, 2 giugno 1888-29 settembre 1890.

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