Difficoltà politiche.

Ma le questioni politiche soverchiavano. Mentre il governo a forza di procrastinarla rinunciava quasi alla conquista di Venezia e di Roma, si doveva nullameno sacrificare il paese all'improvvisazione di un esercito e di una marina capaci di maggior guerra appena se ne presentasse il destro. Il problema della riorganizzazione militare, già difficile in un periodo nel quale la scoperta di sempre nuove armi impone radicali e subiti mutamenti, diventava difficilissima in Italia per la fusione dei vecchi eserciti in quello piemontese. Mancavano illustri generali ed abili organizzatori: v'erano rivalità pericolose di milizia, tristissime abitudini da sradicare, odiosi privilegi da concedere.

Si dovevano accogliere reggimenti e generali, che avevano combattuto contro l'Italia o tradito i propri sovrani all'ultima ora, riformare i quadri, sottomettere gelosie, graduare meriti male definibili, fabbricare un numero immenso di armi, stabilire una nuova disciplina, creare la fede nella bandiera tricolore, profondere denaro, e nullameno dar paghe esigue fino al ridicolo.

Il partito piemontese, più forte ancora nell'esercito che nella camera, poteva diventare pericoloso; però l'esercito piemontese, per conseguenza della propria monarchia, doveva essere nucleo e tipo dell'esercito italiano. La flotta napoletana, maggiore della savoiarda, pretendeva al primato e lo meritava; ma non si poteva concederglielo per lo scarso patriottismo e la mala condotta del suo personale. Bisognava schiacciare nelle bande garibaldine il fiore della vita militare italiana, perchè il suo profumo non inebriasse pericolosamente le altre milizie.

Sotto l'insistente proclamazione di idee e di sentimenti militari il morto federalismo risorgeva odiosamente, formandosi in camorre regionali, che la cresciuta facilità di lucri e di onori stimolavano avaramente. Se i piemontesi affettavano la loro conquista sino ad irritare in molte provincie il sentimento politico, di rimpatto queste si gettavano sul governo nazionale come sopra una preda: in tanto inevitabile sperpero di milioni e di miliardi ognuno voleva accaparrarsi la parte più grossa.

E questa rapacità e vanità provinciale intralciava l'opera già difficile del governo: nel parlamento destra e sinistra si scindevano per interessi regionali; nei ministeri bisognava proporzionare il numero dei ministri all'importanza delle regioni, cui appartenevano come deputati, sotto pena di una coalizione di opposizione altrettanto assurda che invincibile. Nessun ministero si sarebbe sostenuto, se composto di uomini nati a caso in una sola parte d'Italia. Naturalmente nei ministeri preponderava l'elemento piemontese, cui contrastava poderosamente l'elemento napoletano come il più numeroso e compatto nella camera. Al senato invece, nell'assenza di un'aristocrazia davvero dirigente come in Inghilterra, la battaglia si risolveva in una accademia, giacchè il privilegio di nomina regia permetteva di non introdurvi che senatori o nulli o della più ortodossa devozione monarchica. Esso non funzionava quindi che come una valvola di sicurezza per dare sfogo ai troppi vapori della camera, e come un magazzino di scarti politici, dai quali trarne ancora qualcuno servibile.

L'opposizione francamente antimonarchica rimasta a combattere il governo perdeva terreno ogni giorno, poichè la quantità possibile di rivoluzione pel paese penetrava abbastanza facilmente nelle leggi e nei costumi della vita nuova. Già le defezioni di coloro, che si sentivano o si credevano atti alla vita parlamentare, e quelle dei moltissimi attirati dall'esercito, dalla burocrazia o da altri interessi trionfanti nel governo l'avevano miseramente assottigliata. Il mazzinianismo si restringeva sempre più a setta, l'ingrossare dell'esercito nazionale scemava l'importanza di altre future milizie garibaldine.

L'epopea era finita: alla rivoluzione non rimaneva che la sublime risorsa di qualche ultima tragedia.

Gli stessi disertori della rivoluzione nobilitavano contro di essa la monarchia agli occhi delle masse giudicanti sempre coll'istinto: nessun tentativo di rivolta avrebbe quindi trovato ribelli; Mazzini stesso non osava predicarla, Garibaldi non l'avrebbe capitanata. La parte rivoluzionaria era costretta a pretendere sulla monarchia una priorità d'iniziativa, alla quale il buon senso e la fiacchezza delle moltitudini si ricusavano; il nuovo regno d'Italia, entrando nel sinedrio delle potenze d'Europa, doveva d'ora innanzi agire diplomaticamente.

Le temerarie iniziative del momento venivano dall'opera legislativa, che sommoveva violentemente l'antico assetto italiano, pareggiando politicamente provincie differentissime per periodi di civiltà, per indole di storia e per irrigidimento di carattere. Lo stesso confuso e febbrile lavoro di costruzioni, comunicato dal governo alle provincie e ai comuni a guisa di un contagio, nascondeva all'occhio dei più iniziative non meno ammirabili delle più temerarie imprese garibaldine, come l'impianto delle ferrovie a rovescio d'ogni ragione economica e scientifica attraverso regioni quasi prive di ogni altra strada e quindi incapaci di alimentarle. Solo l'America aveva osato questo, ma l'America era ricca: l'Italia povera, in ritardo con ogni produzione, costretta ad improvvisare tutti i propri organi politici a un tempo, moltiplicando i debiti oltre qualunque elasticità di credito, esagerando le imposte, preparandosi ad altre guerre, coi terribili problemi di Roma e di Venezia insoluti, ancora smembrata e pericolante in uno stato provvisorio, era magnifica di ardimento nel gettare miliardi per ferrovie che saldando la sua unità dovevano, anzichè coronare il sistema stradale, svilupparlo ove era appena abbozzato.

Scientificamente e finanziariamente quelle ferrovie erano un errore; politicamente furono il maggiore dei vantaggi, e resteranno malgrado gli immensi difetti una delle migliori glorie del nostro risorgimento.

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