Mentana.

Tutto l'eroismo italiano fremeva nel campo di Garibaldi, ma la nazione rimaneva inerte così agli eccitamenti del generale come alle recriminazioni del governo. Vittorio Emanuele pareva dimenticato.

Però il moto garibaldino si veniva a mano a mano agghiacciando: i volontarii erano pochi, malissimo armati con vecchi fucili delle guardie nazionali, quasi senza cannoni e senza cavalleria. Fra loro brillavano veterani e neofiti superbi d'entusiasmo, qualche vecchio principe come il duca Lante di Montefeltro, qualche giovane aristocratico come il principe di Piombino esule romano, gli ultimi della famiglia dei Cairoli, che dovevano morirvi. Ma lo spirito militare vi era scarso, un dissidio politico separava garibaldini e mazziniani, il contegno oramai apertamente ostile della monarchia disanimava i più, la certezza di un intervento francese toglieva finalmente ogni speranza all'impresa.

Non era più una guerra ma un sacrificio.

Una lugubre ed altera poesia dava allo stesso disordine di quelle rosse falangi una maggiore solennità: si sentivano nel silenzio delle marcie i presagi dell'ecatombe, e nel furore dei primi assalti la frenesia della morte imminente.

Il 22 ottobre settantacinque giovani guidati da Giovanni e da Enrico Cairoli s'avanzano, tragica avanguardia, su Roma: il loro disegno è di promuovervi una sollevazione che tolga alla Francia la ragione d'intervenire, e forzi la monarchia ad associarsi alla rivoluzione. Ma la metropoli cattolica non esce nemmeno in quest'ora suprema dalla propria ignavia; la polizia papalina vi ha già arrestato alcuni capi della cospirazione; altri gliene hanno già venduto il segreto; il governatore Zappi mura sei porte della città, raddoppia i presidii di piazza Colonna e del Campidoglio, intercettando ogni comunicazione colla campagna.

I Cairoli, scesi di notte pel Tevere, si accampano sull'altura di Villa Glori aspettando invano il segnale dell'insurrezione: invece le loro vedette segnalano l'avanzarsi di alcune compagnie di antiboini. L'ecatombe incomincia, i settantacinque si votano alla morte: una mischia degna dei Maccabei glorifica per sempre quel piccolo poggio, e i due Cairoli cadono morenti sopra un mucchio di cadaveri.

— Muoio, sai. Saluta mammina. Il problema è sciolto! — mormora Enrico nell'agonia.

Poichè il loro impeto aveva fugato le due compagnie di antiboini, i rimasti poterono scampare a notte recando la triste notizia a Garibaldi.

Ma Roma non si è mossa. Solo in un lanificio di Trastevere alcuni cospiratori, sorpresi poco dopo (25 ottobre), resistono coraggiosamente animati dal coraggio di una donna, Giuditta Arquati Tavani, ultima romana nella decadenza papale che aveva precipitato Roma più basso dell'antica decadenza imperiale.

Garibaldi all'annunzio dell'eccidio dei Cairoli li immortala nel più bello dei propri proclami; quindi rassegnate le truppe (24 ottobre) a Passo Corese, ordina ai maggiori Valzania e Caldesi, romagnoli entrambi, l'assalto di Monterotondo. Il 25 ve li raggiunge con Mosto, Frigerio, Canzio ed altri capitani di battaglioni; Menotti, degno di lui, si è inoltrato sino a millecinquecento metri dal Pincio. Benchè quattrocento legionari antiboini guarniscano Monterotondo, mirabilmente asserragliati, dopo solo tredici ore di combattimento micidiale per i garibaldini la porta della piccola città è incendiata, e attraverso le fiamme i volontari irrompono vittoriosi. Dopo altre quattordici ore anche il castello dominante la città si arrende, ma il popolo conserva il più ostile mutismo verso i vincitori.

Nelle campagne l'odio ai garibaldini è anche più vivo ed assurdo: impossibile ad essi di chiedere una informazione ed ottenere una guida.

Fu l'unica, ultima vittoria garibaldina. L'indomani una divisione francese agli ordini dei generale De-Failly salpava da Tolone, e a Firenze s'insediava il ministero reazionario Menabrea.

Incomincia la settimana di passione. Francia e Italia si uniscono contro Garibaldi. La squadra del Riboty, che da Rattazzi aveva avuto l'avviso di tenersi pronta a sbarrare l'approdo francese, riceve contrordini; l'esercito italiano si prepara a varcare il Confine per assistere impassibile alla carneficina dei volontari, il re emana un proclama nel quale li sconfessa minacciandoli come ribelli e chiamando i francesi alleati e fratelli. Garibaldi già in marcia su Roma, dopo la vittoria di Monterotondo, riceve a Casal de' Pazzi contemporaneamente il proclama del re e le informazioni di Adamoli e di Guerzoni, penetrati in Roma travestiti e ritornati senza più speranza d'insurrezione. Per la prima volta l'audace condottiero deve battere in ritirata, mentre all'annunzio dei francesi sbarcati a Civitavecchia l'esercito regio passa il confine per dividere con loro l'occupazione del territorio pontificio e «poter imprendere in situazione pari a quella di Francia nuovi negoziati», secondo una nota diplomatica del ministro Menabrea a tutte le potenze. Ma di questo intervento, del quale allora la parte moderata si vantò come di un atto risoluto, la storia ignora ancora la ragione. Dacchè il governo intendeva di non combattere i garibaldini e di lasciarli schiacciare dai francesi, la sua presenza sul campo di battaglia diventava un anacronismo inutile ed ingeneroso. Ma alla ritirata da Casal de' Pazzi la confusione entra nella piccola truppa dei volontari. Vanita la speranza della conquista di Roma, l'insufficienza dell'impresa scoppia in tutte le coscienze come una rivelazione: i mazziniani memori delle ammonizioni di Mazzini sull'esito doloroso, si sbandano gettando le armi; Garibaldi, esacerbato dalla diserzione, accusa Mazzini, il quale colla solita magnanimità di sacrificio, dopo aver avversato la spedizione, aveva da ultimo ordinato di aiutarla a quelli di parte propria. Senonchè nell'incertezza di quell'ora i mazziniani si scusano, invocando le sue parole di altri giorni e fingendo d'ubbidire ad un suo ordine. Altri abbandonano il campo, ove erano accorsi sulla fede di un aiuto monarchico: una voce sinistra propala che l'esercito italiano appiedato alle spalle dei volontari attende che i francesi li attacchino di fronte per accerchiarli. La rotta precede la battaglia: da ottomila la piccola truppa discende a poco più di cinquemila, disperati della patria, reluttanti a morire invano e nullameno pronti a cercare in una suprema battaglia una fine a quell'impresa, nella quale di chiaro non v'era che la necessità di sacrificio.

Allora Garibaldi grandeggia. La sua ritirata da Roma non è che una sua mossa strategica; l'idea di ripassare il confine italiano, arrendendosi all'esercito regio senza aver combattuto i nuovi invasori, non gli passa nemmeno per il capo. Bisogna che l'Italia si riaffermi contro l'abbandono della monarchia e la prepotenza della Francia. Da Monterotondo, ove si era ripiegato, sfianca quindi su Tivoli, ove i colli gli offrono miglior terreno: i suoi ventisei battaglioni non avevano più che la metà dei soldati, la sua cavalleria è di sole dodici guide, le sue munizioni per l'artiglieria non superano le settanta cariche. Il 5 novembre la sua avanguardia è sorpresa al villaggio di Mentana da quella del generale papalino Kanzler: Garibaldi, costretto a mutare la linea di marcia in quella di battaglia, ritrova la migliore energia delle sue guerre d'America, ma i volontari mal destri si scompongono, gli zuavi pontifici ardenti di fanatismo assaltano con impeto: Garibaldi s'avventa egli stesso ad una carica alla baionetta, ma saettati di faccia e di fianco dai cannoni delle alture e dai nuovi fucili Chassepot a tiro rapido, i garibaldini debbono indietreggiare.

Nullameno la loro ritirata impone rispetto al nemico, che non sa occupare Mentana, terra aperta.

Garibaldi, sorpreso come Napoleone I a Waterloo dalla passione della morte, si precipita solo contro il nemico, e come Napoleone trova nei propri luogotenenti chi lo ferma.

La sera alle otto si decide la ritirata da Monterotondo su Passo Corese. La mattina seguente i volontari depongono i fucili sul ponte di confine per ritornare sbandati alle proprie case, e Garibaldi arrestato a Figline viene chiuso nuovamente al Varignano. La Convenzione di settembre era lacerata, Roma nuovamente in mano ai francesi, le sue chiese echeggiavano alle preghiere della vittoria, mentre l'Italia stava muta guardando un corpo del proprio esercito appiedato entro i confini del territorio pontificio.

Ma il governo francese protestò così superbamente contro tale violazione che il re dovette ordinare al generale Cadorna di ripassare la frontiera.

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