Ultima reazione brigantesca a Palermo.

Si era appena sottoscritto il trattato di pace a Vienna, e nella Venezia si preparavano già febbrilmente le feste plebiscitarie, che un'altra reazione brigantesca scoppiava a Palermo.

Forse il nuovo discredito del governo contribuì ad accelerarne l'esplosione.

I nuovi metodi politici di centralizzazione violavano troppe tradizioni, specialmente nelle provincie meridionali, separate dal resto del regno da lunga distanza di periodi civili, per non produrvi un vivo malcontento. La coscrizione militare, la moltiplicità grandinante delle tasse, la soppressione delle corporazioni monacali, vi irritavano tutte quelle passioni piuttosto compresse che soffocate dalla guerra spietata contro il brigantaggio. La stessa epopea garibaldina, che sugli albori della rivoluzione vi aveva infiammato la fantasia delle moltitudini, non era più per esse che un ricordo di lontane vittorie dopo la catastrofe di Aspromonte.

Una mortificazione d'indefinibili speranze inaspriva i dolori di una cronica miseria, alla quale il governo non aveva potuto sino allora che domandare sacrifici. Le vanità tradizionali dell'autonomia duravano ancora nell'isola, la lunga reazione brigantesca del Napoletano, cresciuta quasi a guerra civile, vi sostituiva lentamente nelle immaginazioni la magnifica teatralità delle imprese garibaldine: tutto e tutti contribuivano a preparare una nuova ribellione, la plebe delle campagne colla brutalità, quella cittadina coll'abbiettezza, la borghesia coll'avarizia, il patriziato colla superbia e coll'ignoranza, il clero colla superstizione e colla perfidia.

Il governo, ancora sotto il peso delle ultime umiliazioni, non solo non s'accorgeva del nuovo pericolo, ma, avvisatone dai propri funzionari, temeva di raddoppiarlo mostrando di premunirsi.

La reazione brigantesca esplose naturalmente a Palermo, ove le velleità di autonomia rifermentavano ad ogni coazione dell'unità contro l'egoistica indipendenza regionale. La rivolta fu breve, ma violenta, facinorosa, incredibile di odio e di insania. Già profittando della guerra nel Veneto, per la quale tutti i presidii delle città erano stati ridotti al minimo, dalle congiure sordamente riprese all'indomani dell'annessione si era venuti alle bande armate: mancava un disegno, un uomo, una bandiera. Non si sapeva neppure chiaramente lo scopo della rivolta; non vi erano intese con altre regioni, non accordi diplomatici, non vera preparazione di guerra. Ma un odio indefinibile riuniva tutte le classi contro il governo: si sognava di autonomia senza il coraggio di precisarla nemmeno come sogno: si moltiplicavano i pretesti alle ribellioni traendoli da ogni novità. Il brigantaggio napoletano era stato una reazione legittimista: la reazione siciliana doveva essere un malandrinaggio senza aspirazione nè al passato nè all'avvenire.

Il 16 settembre (1866) le bande armate aggirantisi da molte settimane sui monti si raccozzarono improvvisamente ed entrarono a Monreale mettendo a rumore la città: quindi irruppero su Palermo, ne sollevarono la plebaglia, ne asserragliarono le vie, vi assediarono nel palazzo il prefetto Torelli colla poca truppa accorsa a difenderlo, e composero un governo provvisorio. Parve, ed era il rovescio della conquista dei Mille. Tutta l'isola ne fu commossa, ma per mancanza di un disegno e di una bandiera il moto non potè espandersi. Il governo, che alle istanze reiterate del prefetto non aveva voluto accrescere il presidio della città ridotto a 3500 uomini, dovette quindi mandare su Palermo il generale Cadorna con grosso nerbo di truppa per soffocarvi la guerra civile. L'orribile tumulto durò sei giorni: la vittoria rimase naturalmente al governo, ma il combattimento fu indescrivibile di ferocia e grande la strage: si dovette riconquistare ogni via, ogni casa; dai conventi mutati in fortezze frati e monache combattevano per gli insorti; la plebaglia, che non aveva seguìto Garibaldi nel 1860, si ostinava adesso con atroce temerità contro l'esercito regolare. Di questo perirono nella mischia quasi cento soldati e trecento furono feriti; degli altri non si volle fare il conto perchè sarebbe stato troppo difficile e vergognoso.

L'ordine fu ristabilito. Gli autonomisti, che avevano mestato nella congiura e fornito le bande, spaventati essi medesimi dalla truce anarchia, riaderirono prontamente al governo. Per prudenza politica questo non volle indagare nè le vere origini, nè quali fossero i maggiori colpevoli della rivolta.

Nelle provincie napoletane più infette dal brigantaggio quel moto siciliano non ebbe ripercussione: con esso finì la reazione meridionale separatista.

Il gabinetto Ricasoli, già indebolito dai disastri della guerra, ne ricevette un colpo mortale.

Share on Twitter Share on Facebook