Capitolo Quarto. La reazione del brigantaggio nel Mezzogiorno

L'impresa garibaldina non aveva ancora trionfato nel Mezzogiorno che una reazione borbonica e brigantesca vi era già scoppiata.

In Sicilia Nino Bixio e il maggiore Bassini avevano dovuto soffocarla con terribile prontezza nel sangue; sul continente i cafoni avevano sconfitto il manipolo garibaldino guidato da Francesco Nullo e da Alberto Mario: Ariano e Avellino erano insorte, sebbene non troppo pericolosamente. Il patriottismo italiano delle provincie meridionali era per lo meno di una lega male definibile. Le bande siciliane, presentatesi a Garibaldi in Salemi, assistettero alla battaglia di Calatafimi coll'arma al piede in numero di oltre tremila, incerte fra le parti combattenti, e forse pronte a schierarsi col vincitore; almeno così credettero molti garibaldini siciliani, che conoscevano bene l'indole di quegli insorti. I picciotti, arruolatisi coi Mille, si batterono poco: i morti garibaldini venivano spogliati ignudi dagli abitanti del paese. Se l'odio dei siciliani contro borbonici e napoletani era profondo, il loro amore all'Italia era troppo superficiale. Solo Garibaldi, col fascino del nome e coll'irradiazione simpatica del proprio spirito, poteva appassionare i loro cuori così da trascinarli alla rivoluzione.

Nell'intendimento delle masse e di gran numero fra gli stessi maggiorenti politici, che poi lo negarono, la Sicilia avrebbe dovuto compiere una rivoluzione separatista: forse le simpatie dell'Inghilterra per l'insurrezione siciliana nascondevano il proposito, se non d'impossessarsi politicamente dell'isola, almeno di dominarla economicamente sfruttandola.

A ogni modo i più fra quei pochi siciliani, che combatterono coi Mille, si stancarono presto della guerra; quindi tornarono alle proprie case, ritennero armi, munizioni, quanto poterono. Certo non mancarono alla Sicilia patriotti del più nobile eroismo, e basterebbe alla sua gloria il solo Rosolino Pilo; ma l'italianità del sentimento era scarsissima nel popolo, che, invece di levarsi dopo le vittorie di Palermo e di Milazzo per seguire Garibaldi sul continente, imbroncì fieramente alla prima parola di coscrizione. Infatti, quando il governo ve la stabilì, i renitenti raggiunsero presto l'enorme cifra di seimila, onde si dovette dar loro la caccia come ad assassini, trattando famiglie e villaggi con crudeltà così borbonica, che Garibaldi indignato si dimise dal parlamento (1864). Sul continente il concorso dei volontari napoletani riuscì altrettanto scarso che inefficace: i calabresi del barone Stocco furono fra i pochi che meglio si batterono; bande di insorti nel nome di Garibaldi commisero ogni sorta d'angherie e di ladronecci; alcune esattorie vennero saccheggiate. Moto rivoluzionario e militare non v'ebbe e non poteva esservi. La superstizione politica e religiosa era troppo profonda nel paese, ove gli stessi liberali odiavano il governo borbonico meglio che non comprendessero la nuova idea democratica, e tutti si sentivano più napoletani che italiani. Il trionfo dell'unità vi si dovette alla doppia conquista garibaldina e regia, dalle quali Napoli fu sopraffatta. Il popolo festeggiò, acclamò, menò la più scapigliata gazzarra, sperando dalla libertà venuto il tempo della licenza. L'aristocrazia potentissima, specialmente sulle campagne, fu trascinata nel moto dall'elemento monarchico: se l'Italia si fosse costituita a republica, una reazione forse indomabile sarebbe scoppiata nel mezzogiorno. La celebre frase, che Francesco Crispi doveva pronunciare nel 1864: «la monarchia ci unisce e la republica ci dividerebbe», a cui Mazzini rispose con eloquenza terribile di ironia, conteneva nullameno una verità altrettanto umiliante che terribile.

Infatti i governi luogotenenziali di Palermo e di Napoli non erano ancora assisi che la reazione divampava in molte terre con impeto anche maggiore della rivoluzione: questa era stata una festa teatrale, mentre l'esercito borbonico indietreggiava sbandandosi, quella erompeva da un odio regionale contro i nuovi conquistatori, che il feudalismo dell'aristocrazia, la corruzione del governo cessato, la superstizione religiosa, il costume brigantesco e la barbarie del paese spiegavano e purtroppo giustificavano. Il clero, aizzato da Roma, aizzava; i grossi signori legittimisti aiutavano sotto mano; lo stato pontificio era rifugio alle bande e magazzino per armi e munizioni; la dinastia decaduta dava carattere di rivolta politica all'insurrezione, coprendola col manto della propria legittimità; l'assassina abitudine della camorra e della mafia favoriva l'organizzarsi dei banditi; un patriottismo di municipio e di regione, ignorante, aspro, inconciliabile, metteva nella rivolta una poesia capace di rinnovare i prodigi del valore garibaldino. Infatti Garibaldi, il miglior giudice d'insurrezione e di guerra, in un libro che scrisse poi, rese omaggio al valore dei briganti napoletani, i quali, non raggruppati dal re ad esercito, senza altri capitani che i propri capi, senza programma e senza bandiera, resistettero siffattamente per anni a tutti gli sforzi del governo nazionale da costringerlo all'umiliazione di dovere per essi sospendere le guarantigie statutarie, sostituendo a Napoli luogotenenti a luogotenenti, mutando nella campagna più di un generale, discendendo finalmente a una guerra di esterminio così orribile di ferocia che si dovette e si deve ancora nasconderla alla storia.

Le prime bande erano manipoli degli eserciti borbonici congedati da Garibaldi, che dalla condizione di gendarme, unico ufficio dei soldati sotto il governo di Ferdinando II e di Francesco II, passavano naturalmente a quella del bandito. Il momento non poteva essere per loro più propizio: i municipi abbandonati a se medesimi, disciolta la polizia, la guerra ancora accesa, il saccheggio facile, preti, signori e re complici del disordine per speranza di recupero.

All'infuori delle più grosse città, ove la cultura delle idee aveva sviluppato l'italianità del sentimento, tutto il resto del paese si sentiva conquistato come da signoria straniera. Infatti l'accentramento del nuovo governo in queste provincie, abituate alla rilassatezza dell'antico regime, si annunciava al sentimento insubordinato delle masse come una servitù: il servire nell'esercito piemontese fuori dai confini del reame differiva troppo dal servire nella milizia borbonica, che non aveva in questo secolo mai date vere battaglie; l'aumento delle imposte, inintelligibile allo spirito oscuro della moltitudine, diventava spogliazione; la guerra dell'Italia al papa si mutava nella superstizione popolare in guerra di religione; l'unità italiana minacciava d'annullamento l'individualità napoletana rimasta distinta da ogni altra in tutti i lunghi periodi della storia italica. Il popolo napoletano non era più affine ai piemontesi di Vittorio Emanuele che ai francesi di Murat; ma quelli, invece che mercenari ai servigi di una dinastia desiderosa di fondersi nel paese, erano tutta l'Italia del nord, che invadeva il mezzogiorno preparandosi a mutarlo, battendogli già sull'intelletto e sul cuore col martello della modernità.

La reazione scoppiò feroce, spontanea, simultanea.

Se Francesco II, invece di riparare a Roma, ospite di Pio IX nel bruno palazzo dei Farnesi, si fosse subito presentato nelle provincie insorte, lanciando un proclama all'esercito disciolto poco accortamente dalla monarchia, che avrebbe invece dovuto internarlo e sorvegliarlo nelle provincie del nord, forse nè Vittorio Emanuele, nè Garibaldi sarebbero bastati a tenere salda la conquistata unità. Alla rivoluzione per agire faceva d'uopo di potersi gridare spontanea, alla monarchia di essere invocata; forse l'Austria e la Francia, quella per la tradizionale politica dello smembramento italiano, questa per le aspirazioni del bonapartismo, avrebbero secondata la reazione.

Ma a Francesco II due grandi difetti impedivano l'impresa: un'assoluta incapacità militare e politica e una intransigenza politica che lo condannava al più antiquato ed impossibile legittimismo. I Vandeani, insorti contro la grande Convenzione francese, avevano avuto una bandiera e un principio; i ribelli napoletani, senza l'uno e senza l'altra, non erano e non poterono essere che briganti. La guerra durata più anni si sminuzzò quindi in atroci fazioni, e fu guerra della barbarie contro la civiltà, del feudalismo contro la democrazia, del federalismo contro l'unità.

Il conte Ponza di S. Martino , mandato luogotenente a Napoli da Cavour, pensò di richiamare sotto le bandiere i borbonici congedati, ma non avendo provvisto a tempo i denari per le paghe, i soldati disertarono in massa diffondendo il discredito sul governo. Al Ponza di San Martino succedette il Cialdini. Dalla Terra di Lavoro il brigantaggio si era già propagato in tutto il mezzogiorno. Se quegli aveva corteggiato gli aristocratici per amicarli al governo, irritando i radicali, questi lusingò i rivoluzionari, inasprendo i signori: onde il brigantaggio infierì. A domarlo, Cialdini costituì un corpo di guardie nazionali mobili in ogni distretto, coll'intedimento di opporre napoletani a napoletani, e così interessarne almeno una parte in favore del governo; ma l'espediente non fu troppo benefico. Le guardie nazionali, poco disposte ai rischi di una guerra nella quale i briganti non concedevano quartiere e il governo non premiava con gradi militari il valore, non potevano odiare tanto improvvisamente i propri compaesani da combatterli a vantaggio dei piemontesi incapaci di tenerli soggetti. La prima mossa strategica di Cialdini fu di occupare il Principato Ulteriore e la Capitanata per mantenersi aperte le comunicazioni colle Puglie e l'Adriatico, tagliando in due la rete del brigantaggio e chiudendo alle bande del mezzogiorno il rifugio dello stato pontificio. Nelle guerre si mescolarono congiure: a Roma si ordì un complotto per sorprendere in Napoli il Castello Nuovo, quello di Sant'Elmo e il palazzo reale; Cialdini, avvertitone a tempo, potè arrestare e mandare l'arcivescovo prigioniero a Civitavecchia, licenziare lo Spaventa capo della polizia, sbarazzarsi del Castelli, grande consigliere d'amministrazione, e sostituirlo col Visone, governatore di Piacenza.

La Francia, sempre con la stessa politica tergiversante, ora vessata dalle rimostranze inglesi più vivaci delle italiane ammoniva severamente i Borboni rifugiati in Roma di non aizzare il brigantaggio, ora chiedeva altezzosamente spiegazioni al ministro Ricasoli, che le ricusò, sulle sevizie usate contro i briganti dal generale Pinelli. Infatti queste furono tali da far dimenticare quelle del francese Manhés. Soldati e briganti, invece di combattersi apertamente, si cacciavano come selvaggi: nessuna legge, nessun quartiere. Il generale Pinelli e il maggiore Fumel opposero terrore a terrore. I briganti sorprendendo qualche manipolo di soldati li martoriavano, li mutilavano vivi, li vituperavano morti; scene di cannibalismo desolavano campagne e villaggi; si vendeva sui mercati, si mangiava carne di soldati; mezze compagnie di bersaglieri accolte a festa in qualche borgo erano convitate ed avvelenate dalle stesse autorità municipali. Quindi il generale Pinelli e il maggiore Fumel, sferzando la giusta ira delle milizie, le spinsero a tutti gli eccessi. Vennero saccheggiati paesi, arse a dozzina le borgate senza pietà nè agli infermi, nè ai fanciulli, nè ai vecchi; si fucilò a caso, per qualunque sospetto; non si vollero prigionieri ma cadaveri. Ai briganti forniti di cavalleria si oppose la cavalleria regolare, si dovettero usare i cannoni, si profuse l'oro comprando tradimenti, massacrando famiglie intere per colpa di uno solo. Nella strage non si contarono le vittime, benchè i soldati vi morissero in troppo maggior numero che non nella campagna delle Marche e in tutta l'impresa garibaldina; il governo vergognando taceva dei propri morti e degli altri.

Nullameno le stragi e gl'incendi del generale Pinelli furono tali che il governo dovette richiamarlo. Il brigantaggio era soffocato, non vinto: dagli immensi boschi della Sila sbucavano sempre bande nuove; l'odio ai piemontesi cresceva coi danni e coi dolori patiti: una ostinazione demente dava talora al coraggio delle bande e alla bravura assassina dei loro capi una sinistra poesia non senza grandezza.

Ma gli eccessi medesimi di questa guerra ne impedivano lo sviluppo. La viltà di re Francesco, appiattato in Roma e dilapidante il proprio patrimonio fra i briganti più accorti che gli promettevano vittorie per mungergli denaro, rendeva inutile lo stupido e crudele fanatismo dei cafoni; la loro organizzazione, nell'assenza del re e di veri ufficiali, non divenne mai militare; le città sbigottite non si mossero; i legittimisti imitarono la codardia del re.

Il moto separatista, scoppiato a Castellamare di Sicilia sui primi dell'anno 1862 e soffocato furiosamente nel sangue dal governo, persuase della inutilità della rivolta: le rimostranze severe di Napoleone a re Francesco, lo sfratto di quattro generali borbonici da Roma finirono per avvilire il partito reazionario; l'energia spiegata dal governo contro i renitenti alla leva anche nelle altre provincie diede alla coscrizione il carattere di una ineluttabile necessità. Infatti non solo i renitenti venivano cacciati come assassini, ma a togliere loro l'appoggio delle famiglie si mandava in queste un manipolo di soldati col diritto di farsi alloggiare e nutrire finchè il renitente fosse preso o si consegnasse da se medesimo. A questo rigore di giustizia medievale, che aveva almeno l'utilità di incutere spavento, il governo, sempre incerto nei criteri, faceva poi succedere la più umiliante confessione d'impotenza bandendo una sottoscrizione nazionale a favore dei danneggiati dal brigantaggio: così, fatto accattone per coloro, che non aveva saputo guarantire, invitava il popolo a legalizzare colla propria elemosina l'insufficienza della legge e l'inettitudine del potere. Nullameno la sottoscrizione fruttò un milione: l'idea era stata del Peruzzi.

Naturalmente il credito della nazione ne scapitava moltissimo all'estero e all'interno: là si cominciava a dubitare della rivoluzione italiana; qua si accresceva il dispregio per un governo, che, affettando rigore contro i rivoluzionari sino ad imprigionare Garibaldi dopo averlo ferito in Aspromonte, non sapeva sperdere qualche banda di briganti.

La giunta parlamentare, inviata nel Mezzogiorno a studiare sul luogo le cagioni e i rimedi del brigantaggio, lesse alla Camera in adunanza segreta la propria relazione dettata dal Massari. La quale onestamente dotta ed arguta non scoperse cosa che già non si sapesse, e non trovò cura al male: i suoi due modi di provvedimenti furono, per l'avvenire l'affrancazione dei beni di manomorta onde mutare i cafoni in possessori, la costruzione di strade, l'impianto di scuole, il taglio dei boschi ed altre di simile fatta; pel presente la ripresa del metodo di Pinelli cacciando i briganti come belve, massacrando i sospetti, sospendendo ogni giurisdizione, riassumendo tutte le pene in quella della morte e della galera.

La legge a tal uopo votata, e che prese il nome di Pica dal deputato proponente, importava la soppressione di qualunque giustizia nelle provincie infette di brigantaggio, mutando poco accortamente in misura legale quelle che avrebbero dovuto essere più prontamente provvisioni di guerra. Pinelli aveva commesso stragi ed incendi da soldato, che si potevano ufficialmente negare o scusare: i nuovi disonorerebbero insieme parlamento, giustizia ed esercito nazionale.

Fortunatamente Napoleone, perduta ogni speranza di effetto politico dalla reazione del brigantaggio pei suoi tardi sogni bonapartisti, sentì la necessità di purgarsene in faccia all'Europa coll'imporre più severamente al papa e al Borbone di cessare dall'alimentarlo. Le bande, abbandonate dal partito reazionario, non furono più che di volgari assassini: il paese stesso, esausto da tante vessazioni, se ne stancò; si comprese l'impossibilità di scrollare il governo; i primi benefici effetti della libertà scemaron l'odio ai piemontesi ed accrebbero le adesioni alla monarchia. I capibanda vennero ad uno ad uno traditi o trucidati: la reazione capitolò.

V'ebbe ancora qualche ripresa; nei paesi più malmenati dalla repressione militare covarono lunghi odii ai liberali sotto la paura; quindi la stessa coscrizione, mescolando la gioventù napoletana a quella delle altre provincie, ne migliorò il carattere; clero e signori da reazionari intransigenti si mutarono in partigiani del governo per sfruttarlo, mentre il progresso della vita penetrava come un soffio di primavera fra la caliginosa aridezza delle provincie più brigantesche.

Così la reazione legittimista, dopo una guerra di masnadieri, finiva piuttosto vinta dall'influenza benefica della libertà che da una rapida e logica azione della monarchia: governo borbonico e papale erano stati battuti in pochi giorni quasi senza combattere; essa invece lottò parecchi anni con ferocia pari al coraggio, con perversità forse maggiore della stupidaggine, per acquetarsi lentamente come una di quelle convulsioni, che, dopo aver dato al malato la violenza di un delirio e lo spasimo di un'agonia, lo lasciano spossato ma senza nessun organo offeso e colla fisonomia di prima.

Verso il 1866, al rompere della guerra contro l'Austria, la reazione del brigantaggio nel napoletano era quasi finita.

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