Ultima lotta fra Garibaldi e Cavour.

Intanto le difficoltà politiche del primo assetto urgevano: bisognava abbreviare con ogni mezzo possibile i governi luogotenenziali, pacificare il mezzogiorno ove il brigantaggio era già scoppiato, assimilare politicamente ed amministrativamente tante provincie diverse, fondere sette bilanci in uno solo e già oberato da un passivo di mezzo miliardo, organizzare il nuovo esercito.

Il conte di Cavour fu ammirabile di destrezza e di coraggio. Il suo profondo acume politico gli scoprì che di tutti gli elementi rivoluzionari il più pericoloso per la monarchia era allora il più nobile, quello che con prodigi di valore e di fortuna aveva conquistato più che mezzo il regno. I mazziniani battuti idealmente e politicamente non erano ormai altro che una setta; i garibaldini invece rimanevano ancora maggiori di un partito. La loro incorporazione nell'esercito piemontese vi avrebbe dissipato il prestigio monarchico e distrutta la devozione al re: la politica, entrando nelle caserme, avrebbe resa la sinistra parlamentare arbitra della camera, tristissimi pronunciamenti alla spagnola sarebbero scoppiati ad ogni difficile questione di governo. Bisognava dunque rifiutare nell'esercito le bande garibaldine, accogliendovene quei capi più illustri che si convertissero alla monarchia: così, prive dei migliori capitani e disorganizzate dalle defezioni, non potrebbero che difficilmente riordinarsi per una ribellione. Questa politica era la conseguenza della campagna delle Marche e dell'ingresso delle truppe piemontesi nel Napoletano per soffocarvi la anarchia rossa: dopo aver disonorata l'impresa garibaldina in faccia all'Europa, era d'uopo esautorarla nell'opinione d'Italia col respingere dall'esercito nazionale i reggimenti vincitori.

Garibaldi, rinunciando nelle mani del re la dittatura, gli aveva raccomandato con passione di capitano i propri soldati; quindi, conscio delle nuove trame, aveva già protestato da Caprera e minacciava di venire in parlamento a farvi uno scandalo pericoloso. Tutta la sua magnanimità non poteva tollerare che gli eroi di Calatafimi e del Volturno fossero peggio trattati dei loro prigionieri borbonici. Egli poteva sorridere vedendo generali d'Italia Nunziante e Pianell, l'uno ferocemente reazionario prima della rivoluzione e vilmente disertore del proprio re nell'ora delle battaglie, l'altro ministro di Francesco II durante la conquista del regno napoletano, entrambi a lui preferiti dalla nuova politica ministeriale; ma per coscienza di generale e di cittadino, per carità di soldato e di patriota, non doveva sopportare che le ferite e i gradi guadagnati dai propri soldati sul campo di battaglia fossero senza valore per quello stesso governo, che profittava delle loro vittorie.

Nullameno una più alta ragione imponeva agli eroi delle sue imprese questo nuovo sacrificio.

Garibaldi coll'impetuosità del proprio carattere soldatesco, e stimolato da molti partigiani, aveva esorbitato nei primi attacchi al ministero. Egli, nizzardo, non poteva perdonare a Cavour la cessione di Nizza; egli, italiano e democratico, odiava eroicamente Napoleone III, che dopo aver tradito il Piemonte a Villafranca, impedendo la liberazione della Venezia ed esigendo come prezzo del tradimento Nizza e Savoia, negava ancora Roma all'Italia.

Nella superba ingenuità del proprio istinto rivoluzionario egli non comprendeva nulla delle difficoltà diplomatiche del nuovo regno: per lui ottenere il riconoscimento officiale dalle grandi potenze monarchiche d'Europa non era nemmeno un problema. Esaltato dall'entusiasmo delle ultime vittorie, domandava ad alte grida l'armamento di tutta la nazione, confidando di battere con essa tutta l'Europa. Cavour con più sicuro senso della realtà giudicava invece l'Italia incapace di sostenere altra guerra con l'Austria e, siccome questa cercava di esservi provocata, non voleva fornirle pretesti. Nei primi giorni del 1861 per l'incoronazione del principe reggente e futuro imperatore, Guglielmo I, aveva mandato a Berlino il generale Lamarmora per sedurre la Prussia coll'esempio della rivoluzione italiana a conquistare contro l'Austria l'egemonia germanica; ma il nuovo re, tardo di mente e di cuore, non ne rimaneva persuaso, quantunque il ministro Schleinitz si lasciasse piegare. La Russia rimaneva pur troppo ostile, la Francia sempre oppressiva nella propria politica tergiversante tardava a rannodare col governo piemontese le relazioni officiali, mentre una vera anarchia reazionaria scoppiava nel mezzogiorno in mezzo al più scandaloso disordine dei partiti, compromettendo all'estero la dignità del nuovo regno. Il Farini, il principe di Carignano, poi il conte Ponza di San Martino, mandati l'uno dopo l'altro a reggere Napoli, vi avevano ripetuto lo stesso infelice esperimento; il Napoletano pareva diventare una nuova Irlanda saldata dalla rivoluzione ai fianchi del regno d'Italia.

Cavour, malgrado la coraggiosa elasticità del proprio ingegno, piegava ogni tanto sotto il peso dell'enorme problema: l'intervento di Garibaldi nella politica interna poteva produrre la guerra civile. Il dittatore rappresentava in quel momento la passione rivoluzionaria della nazione, non ancora domata dalla proclamazione e dall'assetto della monarchia: le sue invettive al ministero, giuste nel concetto rivoluzionario, esaltavano la publica opinione malcontenta della troppa viltà di quell'ora; l'aureola di tante vittorie lo rendeva un rivale pericoloso pel re.

Intanto il parlamento frustato dalle accuse di Garibaldi nella coscienza della propria servilità s'impennava, minacciando di voler mettere il generale in accusa: ribellione di liberti contro il liberatore, che nessuna regolarità di procedura costituzionale avrebbe potuto giustificare! Il parlamento era allora troppo poca cosa in Italia per farsi arbitro della contesa fra rivoluzione e monarchia. Il conte di Cavour già vincitore di Garibaldi alla camera, quando questi da Napoli aveva chiesto al re di cacciare il ministero, trovò anche questa volta un ottimo espediente. Fra tutti gli uomini parlamentari di allora il più illustre per nome, per opera, per carattere, era il barone Bettino Ricasoli. La sua austerità aristocratica, la sua alterezza patriottica, il suo coraggio politico, lo rendevano altrettanto stimato che temuto: in quella gazzarra di conversioni e di transazioni, nella quale i migliori caratteri si dissolvevano, egli restava fermamente saldo nel proprio concetto rivoluzionario e monarchico, impaziente contro il vassallaggio francese, favorevole per ingenita intrepidezza ad una ripresa di guerra.

Il conte di Cavour oppose Bettino Ricasoli a Giuseppe Garibaldi.

Con profonda abilità di parlamentare Ricasoli, anzichè accusare Garibaldi, affermò in una interpellanza di crederlo calunniato. «Io, disse, gli ho stretto la mano dal momento, in cui prese il comando dell'esercito dell'Italia centrale: noi eravamo allora animati dagli stessi sentimenti, noi eravamo tutti e due egualmente devoti al re. Noi abbiamo giurato entrambi di fare il nostro dovere: io ho fatto il mio. Chi dunque potrebbe reclamare il privilegio di patriottismo e d'innalzarsi sopra gli altri? Una sola testa fra noi deve dominare su tutte le altre, quella del re. Davanti al re tutti debbono inchinarsi, ogni altro atteggiamento sarebbe di ribelle... Chi ebbe la fortuna di compiere il proprio dovere più generosamente, in una più larga sfera d'azione, in una maniera più proficua alla patria, e l'ha veramente compito, questi ha un dovere anche più grande, di ringraziar Dio d'avergli accordato così prezioso privilegio, concesso a pochi cittadini e di poter dire: ho servito bene la mia patria, ho interamente compito il mio dovere».

Garibaldi da accusatore diventava accusato: la solennità dell'intimazione fattagli dal Ricasoli lo costringeva a venire in parlamento per sostenere quanto aveva scritto. Garibaldi, che non voleva e non poteva ribellarsi, era già vinto: prima ancora di giungere a Torino pubblicò una lettera, smentendo ogni intenzione di attacco contro il re e il parlamento. Non gli restava quindi di fronte che il ministero, il quale nella camera era sicuro della vittoria.

Nullameno la giornata fu aspra.

Il parlamento, costretto dalla propria dedizione incondizionata a seguire una politica servile all'estero ed ingiusta all'interno, era tuttavia affollato di uomini illustri per ingegno e per sacrifici, che sentivano di non meritare le accuse di Garibaldi. Il loro risentimento, giustificato dall'orgoglio delle opere compiute ed inasprito dalla coscienza del torto presente, degenerava in aperta ed ingenerosa ostilità. Si dimenticavano i titoli di Garibaldi alla riconoscenza nazionale per non vedere più in lui che un volgare vanesio ed uno scapigliato ribelle.

Quando entrò nella sala colla camicia rossa e il solito poncho americano, la singolarità dell'abito parve una brutta teatralità. Il suo primo doloroso rimprovero a Cavour per la cessione di Nizza provocò la tempesta; alla sua accusa contro il ministero di avere arrestato la rivoluzione trionfante nel mezzogiorno con ogni maniera d'insidie e colla provocazione di una guerra civile l'uragano scoppiò. Solo Garibaldi rimase calmo. L'accusa era troppo vera perchè non bisognasse smentirla. Ma Garibaldi non poteva andare oltre. La stessa ragione, che lo aveva sottomesso in Napoli agli ordini del re, lo costringeva ad accettare ora le spiegazioni di Cavour. Il generale Fanti, ministro della guerra, si destreggiò abilmente nell'esposizione dei motivi, che impedivano la incorporazione in massa dei garibaldini nell'esercito; si respinse l'altro progetto di Garibaldi di formare coi giovani non compresi nell'esercito dai 18 ai 35 anni una guardia nazionale mobile, cui lo stato fornisse d'armi, di cavalli e di materiali inscrivendo in bilancio una somma di trenta milioni. Cavour, pronto a servirsi di tutta la propria superiorità in quel momento, riassunse con sobrietà magistrale la propria politica, chiudendo il parlamento nel dilemma o di accettarla intera o di buttarsi ai rischi immediati di un'altra guerra o di un'altra rivoluzione.

Garibaldi piegò: i garibaldini furono sacrificati. Invano, nell'abboccamento con Cavour procuratogli dal re, egli tornò malinconicamente ad insistere per un migliore trattamento dei propri soldati; l'abile ministro rimase inflessibile.

L'indomani il generale Cialdini, tristamente ammalato d'invidia per l'eroe, credendo propizio il momento per levarsi contro di lui come campione della monarchia, lo apostrofò con una lettera altrettanto assurda che arrogante.

Cavour con questa suprema vittoria assicurava la propria politica di moderazione. Ma egli stesso era fiaccato dalla immensa opera.

Share on Twitter Share on Facebook