Andrée

Anche questa sera nel piccolo caffè del villaggio un vignaiolo mi domandava, vedendomi gettare il giornale:

— Nessuna notizia di Andrée? —

Molti altri cuori, frementi nella trionfale esultanza del suo eroismo, aspettano ancora come la buona novella un dispaccio, che lo narri in viaggio dal deserto polare verso di noi.

Il mondo invece lo perdette già nell'oblio profondo del proprio passato, dal quale emergono solamente le figure illuminate dal riflesso perenne di una idea. Tutti gli altri, che una virtù erse per qualche momento sulla vita, attirando loro gli sguardi ed i cuori, diminuirono a grado a grado nella morte, come ombre del crepuscolo nella tenebra imminente della notte. Appena qualcuno dei viaggiatori, che rimontano curiosamente il corso della storia, ritrovando sopra una carta il loro nome, si ferma a leggerla per dimenticarla nuovamente fra le troppe, delle quali è ingombra la via. Eppure da queste escono talora mirabili rivelazioni di bellezza, e sono pensieri simili a diamanti tralucenti dalle sabbie, figure che balzano vive dalla loro opera consunta, quasi nel miracolo di una risurrezione; ma il cuore troppo stanco non può incamminarsi sulla loro traccia, e salutiamo quindi con un sorriso di dolce riconoscimento, come in un incontro [48] fuggevole ed improvviso con amici di altri giorni, mentre la lunghezza della strada e gli appelli lontani del tempo ci sospingono irresistibilmente.

La poesia sola alza i magnifici sepolcri sulla via Appia della storia, e serba intatte dentro la propria luce le figure della bellezza.

Andrée aspetta ancora l'ode.

Non mai il desiderio di essere poeta mi vinse come nel giorno che lessi il dispaccio dallo Spitzberg: «Andrée è partito». Tutta l'antica odissea non aveva nei lunghi canti, così pieni delle parole della notte e del mare, tanta poesia come quella breve notizia incisa sopra una colonna di giornale, fra l'indifferente promiscuità di cento altre.

Egli era partito finalmente.

Da anni perseguiva quell'impresa di sogno colla tenacia nostalgica delle grandi passioni contro ogni difficoltà della vita, e quelle ancora della fede che ci abbacina col suo miraggio, e della incredulità che lo dissipa col riso come il vento spazza i vapori. Che cosa vi era al polo? Dei ghiacci, forse delle terre come dappertutto, una solitudine inabitata ed inabitabile, senza interesse per la vita, senza importanza per la scienza. Questa ha potuto egualmente risolvere i massimi problemi della sfera terrestre, quella non vi cerca e non ne attende rivelazioni. Il polo è inaccessibile, ecco la sua forza magnetica sulle anime che, guardatolo una volta attraverso il mistero della sua lontananza, vi rimangono fise e trepide come l'ago della calamita. Non è un altro mistero quest'ago ostinatamente immoto ad un punto, come se lo spazio, a rovescio del tempo, non avesse che un'ora sola? Questa linea invisibile che un ago può egualmente segnare attraverso la terra, in ogni sua posizione, malgrado le scosse e i tremoti, che la sconvolgono? Tutti i nostri viaggi non sono che una distanza da questo ago; la nostra geometria non ha una linea meno inestesa e più sicura della sua, la nostra metafisica un simbolo più astratto e preciso.

[49] Al di sopra delle conquiste consacrate dalla storia, certamente quella della terra fu la più antica e la più grande.

Ovunque uomini assalirono uomini, non la terra fu l'oggetto della conquista ma gli uomini stessi; padroni che cercano dei servi, servi che ricacciano dei padroni, non altra è la spiegazione di tutte le vittorie. Ma l'uomo dovette prima cercare la terra. La nostra poesia nacque in questo viaggio, esprimendone l'emozioni profonde fra le terribili meraviglie dell'ignoto, dentro la bellezza delle solitudini che non aspettavano l'uomo, dinanzi ai monti che non erano ancora confini, sui lidi dai quali la mobile distesa delle acque si allontanava a toccare la curva dei cieli nella vacuità trasparente della luce. I primi uomini andavano sempre, senza fermarsi, perchè la terra era ancora troppo grande ed essi troppo piccoli per concepire l'idea di possederla; si nutrivano ovunque, morivano ovunque.

Nulla è rimasto della nostra vita in quei giorni, che possa parlarne adesso al nostro spirito: appena qualche eco ne trema forse nei poemi, che diciamo antichi e son anch'essi moderni dell'epoca letteraria, quando la poesia cantava già per ascoltarsi. Allora invece l'uomo cantava come gli uccelli, senza intenzione o memoria di arte: la sua poesia era una esaltazione dello spirito nella verginità mattinale della coscienza che si ignora, nell'impeto inconsapevole degli istinti non anco stancati dalla riflessione. Correre sulla terra o sul mare, quando non si sa ancora che cosa vi sia, senza ricordo di altre vite, nella differenza degli animali per la morte, trovando un nuovo panorama per ogni giorno, pensando ove non fu mai pensato, creando i primi fantasmi fra le cose, annunziando le prime idee alla natura, gridando sul silenzio del mondo la profezia dell'ideale, ecco la poesia che nessun poeta potrebbe oggi rinnovare. «Navigare necesse est, vivere non necesse est» — fu il motto eroico di Ulisse che salpò da Itaca verso la morte oltre i confini di Ercole, [50] la parola segreta di Colombo che cercò sino quasi alla vecchiaia una nave, il grido impaziente di Andrée che attese quasi due anni il vento; perchè di questa poesia, sepolta sotto tanta rovina di memorie nell'anima umana, qualche fiamma guizza ancora, ripetendovi i barbagli della luce, dentro la quale la bellezza del mondo apparve già nella sua stupefacente novità.

Oggi esso è vecchio al pari di noi, lo abitiamo come una casa, lo possediamo come un campo; tutti i suoi luoghi portano le nostre tracce, tutte le solitudini furono attraversate e salite tutte le vette. Quei viaggiatori, che si avventurano ancora nei deserti, vi cercano qualche nascosta ricchezza o la prova di una ipotesi scientifica, per la quale tornare fra gli applausi della gloria. Essi troppo sanno anche prima. Il deserto a loro sconosciuto è abitato da selvaggi primitivi dinanzi all'orgoglio della nostra civiltà, e tuttavia lontani quanto noi da quei primissimi giorni. Certamente il pericoloso viaggio esige l'anima grande, perchè la morte vi moltiplica tutte le proprie paure, ma non è il viaggio di Ulisse.

Il Laertiade non sapeva.

Dopo aver attraversato l'Iliade e l'Odissea, il vecchio eroe udi la voce del mare chiamarlo dentro la rustica reggia nelle lunghe notti senza sonno: egli aveva tutto veduto e tutto provato fra gli uomini. Quindi si levò cercando nelle case i più soli fra coloro, che gli erano rimasti fedeli; andarono alla nave, batterono i remi sull'acqua per non più ritornare. Navigavano, perchè il navigare è necessario non il vivere, verso il mondo senza gente, nel quale il sole discendeva ogni sera; ma quello che vi avrebbero veduto e dove sarebbero morti, doveva egualmente restare un mistero. Non portavano seco che l'acqua e il cibo di poche settimane: la loro anima anche più leggera della barca aveva lasciato sulla spiaggia tutto il carico della vita per quest'ultimo viaggio della morte.

Il mare delle terre, che li conosceva, mormorò sotto [51] la loro carena un lungo saluto, quando dallo stretto sboccarono nell'alto mare tenebroso; i venti li seguirono ancora fremendo al loro orecchio, il sole li riconobbe prima di sparire: poi la notte delle tenebre e delle acque li sommerse.

E non sarebbero morti egualmente sulla rocciosa Itaca nella fatica dei vincoli rotti uno ad uno, giorno per giorno, invece di partire così, lievi come ombre, coll'estrema curiosità del pensiero che guarda sempre finchè la luce gli arriva?

Ogni sera le ombre risalgono ai monti, e il mare mormora, il vento freme, il sole guarda questa ascensione di fantasmi dalla terra greve di tutto il peso della vita; è la sera di Ulisse, passano le ombre dei morti.

Navigare necesse est, poco importa sul mare o nel cielo o nel deserto sul dorso del cammello, che ha il medesimo rullio della nave. Oggi la terra è così piccola che basta quasi un mese a percorrere la sua fascia equatoriale: tutto è noto, l'uomo si urta dovunque all'uomo. Quindi gli spiriti, nei quali sopravvive la primissima poesia della scoperta, si affisano al cielo cercandone le vie per la sua trasparente leggerezza. Nessun problema pare più vano che quello della navigazione aerea, e nessuno sommuove più profondamente le anime. Ricordo come l'inverno scorso a Milano, passando per un viottolo, vidi sopra una piccola porta sucida un cartiglio con questa scritta «Società areostatica, residenza secondo piano». Il cuore mi battè. La casa era di aspetto povero, dalla porta un andito stretto e fangoso si perdeva nella sinuosità di una scaletta scura. Chi erano dunque i poeti, che vivevano lassù? Poveri, come i poeti, furono sempre, vivevano certamente di oblazioni carpite chissà con quale incanto di arte o di passione al tardo buon senso o alla ignorante vanità della gente affaccendata nei guadagni, ma alla quale quel sogno di un volo nell'azzurro, al disopra delle nuvole, rinnovava la gioia delle favole udite da bambini.

[52] Mi fermai dubbioso di salire a riconoscerli: piovigginava, il cielo si era abbassato così che sembrava radere i tetti. Una tristezza mi sospinse oltre.

Sapevo e voi pure, signora, lo saprete, che i poeti sono sempre meno belli della poesia, specialmente se questa sia la ganza del loro pensiero anzichè la dama della loro vita.

Ma quel cartiglio mi ricondusse nell'anima idee e imagini dimenticate da molto tempo. Se al pari di me non siete più giovane, dovete ricordare con melanconico rimpianto la stretta quasi soffocatrice del vostro cuore, quando la prima volta dinanzi ai vostri occhi, che guardavano attoniti i lunghi preparativi, improvvisamente il pallone come liberato da uno strappo furioso oscillò nell'aria forandola con incredibili rapidità; e vedeste al disotto, sospeso entro una fragile cesta di giunchi, un uomo già irreconoscibile agitare il fazzoletto bianco ad un estremo saluto. La vostra anima si tese verso di lui in una ansietà, che non avreste voluto mostrare, e nemmeno oggi sapreste spiegarvi: non era la paura della sua morte, mentre avevate veduto molte altre volte morire; non un voto istintivo e convulso per la sua salvezza; non la pietà talora così severa ammonitrice dinanzi a coloro, che per strappare pochi soldi al nostro egoismo gli offrono come un piacere lo spettacolo di un qualche rischio o di una tortura: ma la trepidazione di una invidia spaurita ed entusiastica come nel subito rivelarsi di una bellezza, qualche cosa d'ineffabile, che vi penetrava sino al fondo del cuore con la folgorazione della grazia. Quell'uomo trascorreva pel cielo, al quale voi salivate solamente coll'anima sull'ali della fede o di un sogno; e lassù era più solo dei morti sotto terra, che hanno pur troppo dei vicini.

Ve ne ricordate, signora?

Abbiamo tutti provato questa emozione, che poi la frequenza stessa degli aeronauti e la loro volgarità d'istrioni, attraverso l'esperienza ogni giorno in noi più [53] tragica della vita, hanno così logorato che giacque nella memoria sotto il peso di tante altre. Ma in qualche ora di solitudine, quando il cuore ricanta come gli uccelli nei mattini di maggio, o muto e affannato cerca in una più remota solitudine un più sicuro rifugio, se improvvisamente ci ricompaia la visione di quell'uomo già irreconoscibile che saluta ancora col fazzoletto, mentre il pallone sempre più piccolo s'invola per l'azzurro libero del cielo, il nostro cuore risente ancora quella stretta, e i nostri occhi involontariamente si affisano in alto. Vivere non è necessario, ma navigare «di retro al sol, nel mondo senza gente», come l'ombra di Ulisse ripetè a Dante, che errava egli pure dietro un'altra ombra grande dell'arte per il mondo del dolore eterno.

Solo il cielo è davvero senza gente, o se vi è un luogo sulla terra, ove sia sperabile di non trovarne, la poesia e la scienza lo suppongono egualmente al polo.

Un baluardo di gelo precinge quella solitudine indarno tentata dai più intrepidi viaggiatori. Tutti gli anni una qualche nave salpa alla stessa conquista polare per arrestarsi bloccata presso a poco al medesimo grado, e la stessa tragedia si rinnova fra il vitreo scenario dell'immenso teatro silenzioso: pochi muoiono, molti ritornano per raccontare a poeti, che non cantano più poemi, questa nuova bianca Odissea.

L'altro anno Nansen, un ignoto temerario, aveva giurato a se stesso di arrivarvi a piedi, varcando quelle giogaie di ghiaccio, scivolando nelle loro valli, vivendo come gli altri animali, che vi avrebbe certamente trovati. Egli stesso, accolto al ritorno da tutta la Scandinavia come un trionfatore benchè fosse un vinto, ha poi cantato la propria impresa, moderno aedo, pellegrinando alle regge dei popoli sovrani, di capitale in capitale, dinanzi ad una folla curiosa e svogliata, che voleva piuttosto vederlo che ascoltarlo. Quel milione così raccolto in cento conferenze era sicuramente meglio guadagnato che nei teatri lirici dai più acclamati tenori; ma parve [54] a molti che la bella figura dell'eroe fosse rimasta lassù fra i ghiacci, e un'altra, non simile a lui che nel volto, ingannasse il mondo con quel racconto. Ripugnava al cuore vedere l'uomo, capace di avere tanto osato, così sottomesso ai medesimi impresari dei saltimbanchi, che lo mostravano alla gente misurandogli l'ora e la voce perchè la prodiga curiosità non si stancasse, mentre, chino a raccogliere quei pubblici suffragi, egli narrava di aver sempre pregato Dio ginocchioni prima di addormentarsi nel lucido orrore della immensa solitudine, sulla quale nè la notte ne il giorno scandivano più le ore. Pensava egli anche allora alle conferenze, che farebbero di lui un milionario? Aveva egli cercato al polo quel milione, che tutti cercano nella vita e, trovato, non la rende più grande?

Se fossi donna come voi, non amerei quell'uomo.

Per quanto il suo libro sia sincero e bella la costanza nell'impresa e commovente quel rinnovarsi dei primi espedienti umani, egli nè poteva, nè meritava di riuscire.

Mancava in lui la dedizione incondizionata all'ideale, quel primo suicidio della persona mondana, che alza al miracolo della vittoria il pensatore e l'artista, l'inventore e l'apostolo. Un grand'uomo, che fallì una grande impresa non va ramingando di teatro in teatro a vendere la propria presenza come le moderne cantatrici di Citera da caffè in caffè: o quando affronti tale degradazione, quel danaro deve essere già purificato nell'olocausto della sua idea. Ma egli non accattò, magnifico mendico, per un nuovo viaggio al polo, come altri maggiori di lui avevano fatto per imprese egualmente perigliose, senza che la mano tremasse mai loro o la fronte dovesse abbassarsi all'umiltà di un guadagno. La più insultante delle fantasie satiriche non oserebbe presentarci Colombo nascosto dietro una tenda aspettando per mostrarsi al pubblico, pigiato entro una qualche antica piazza di Europa, che i bacili dell'impresario siano pieni di monete. Invece quel veggente dell'Oceano non sognava che la liberazione [55] del Santo Sepolcro, e voleva vestire il rude saio dei monaci.

Certamente altri illustri, poeti come Lamartine o romanzieri come Dickens, poterono accettare sottoscrizioni o girare l'America leggendo sempre il medesimo capitolo ad un diverso pubblico e facendoselo sempre egualmente pagare, perchè qualche cosa dell'istrione resta nell'artista, che gli impedisce di essere un eroe. Infatti egli non deve che raffigurarlo.

L'arte non è tutta la vita se non nei più grandi; Eschilo che esula da Atene piuttosto che domandarle perdono, Dante che ricusa di ritornare perdonato a Firenze; e nè l'uno nè l'altro avrebbero sicuramente permesso la sottoscrizione di Lamartine o consentito alle letture di Dickens.

Invece avrebbero già scritto il canto per Andrée.

Ecco l'eroe.

A che pro ritentare il polo come tanti, che vi perirono troppo lontani perchè il loro viaggio potesse accennarne almeno la strada? Perchè ricercare il passaggio di Nordenskiold, che non potrebbe essere praticabile se non nella fortuna di un giuoco? Perchè inventare una nave munita di un rostro, così più forte che nelle antiche triremi, da frangere per forza di vapore gli enormi ghiacci galleggianti? Nessuno sa ancora quali siano le barriere che il freddo costrusse coll'acqua, nè come i canali vi si insinuino, nè che altro possa dopo raddoppiare il loro ostacolo. Ma il polo stesso non è una meta. Ulisse, penetrando nell'Oceano tenebroso, sapeva di trovarvi la morte, ma cercava le terre di quell'altro mondo senza gente, perchè alla sua anima ogni limite diveniva doloroso. Non era quindi il suicidio di chi vinto cerca nella morte un rifugio, bensì l'instancabile necessità di vittoria, che affatica lo spirito nella sua conquista di scoperte: quel mondo senza gente era per Ulisse, come per Dante il mondo degli spiriti, un mistero nel quale bisognava penetrare.

[56] Oggi il polo è l'ultimo enigma della terra, e il pallone diventò il primo problema di tutti i futuri viaggi.

Concepito come un giocattolo, si mutò subito in una angoscia senza requie, nella quale grandi e piccini, retori e poeti dell'invenzione soccombono indarno da quasi un secolo. Per Mongolfier la soluzione era facile: costrurre un corpo più leggiero dell'aria perchè vi si innalzasse, e gli bastò quindi trarne l'aria stessa invertendo così la difficoltà della nave, nella quale bisogna impedire che l'acqua entri. Ma in tal modo si ascende, non si naviga: per dirigersi attraverso l'aria occorre invece una forza capace di respingerla, o profittare del vento o crearlo. Un corpo più pesante dell'aria può reggervisi se spinto ad una velocità, che vinca la forza centripeta della terra; ma il problema allora diventa altro.

Andrée pensò al vento.

La scienza studiando le sue correnti ha potuto spiegarne la genesi, tracciarne la carta, stabilirne l'orario, esse sono costanti come i fiumi, ubbidiscono al moto della terra come il flusso del mare. Bisognava quindi entrare in quella che attraversava il polo per discendervi e risalirne, sapendo tuttavia che vi è fra i venti un disordine di tempesta, al quale la scienza non ha potuto imporre i propri calcoli, che il gas fugge dal pallone meglio chiuso, che si possono aprire delle falle nei suoi fianchi, produrre degli scoppi dentro la sua vacuità.

Ed è sempre la stessa morte lassù.

Che importa, se il pallone almeno non deviasse prima!

Andrée non accettò che due compagni, dei quali il nome è già tramontato nel suo, perchè il rischio e la morte non parificano i soldati al generale. Molti si lagnano di questa giustizia nella moderna democrazia, che vorrebbe livellare coll'invidia l'altezza dei grandi uomini al piano vallivo delle moltitudini, senza pensare che ogni opera di queste è appunto dovuta ad una iniziativa di quelli, e che l'idea solamente ha ragione. Il grand'uomo è colui che impone una grande idea, liberandola [57] dalle oscurità dell'istinto nell'anima del popolo: a lui solo deve toccare la gloria, poichè il vantaggio ne resta intero alla gente.

Una nave portò sopra una riva dello Spitzberg quintali e quintali di ferro per poterne trarre l'idrogeno versandovi sopra botti di acido solforico, e gonfiare così il pallone: nella navicella erano viveri per tre mesi, gli istrumenti della scienza, la tenda di accampamento, qualche arme ed arnese per il ritorno. Ma come sperarlo? Che il vento fedele come l'acqua di un canale portasse il pallone in poche ore al polo e ne lo riconducesse prima che il gas fuggendo da tutti i pori della seta la rendesse troppo pesante, era uno sperare che l'impresa non fosse una impresa. Nessun scienziato credeva alla fortuna della temeraria avventura. Anzi il vento fu così infedele la prima volta, che non si potè nemmeno gonfiare il pallone, bisognò aspettare per altri sei mesi il ritorno della corrente.

Questa attesa fu certamente la più lunga e dolorosa fra quante sofferte da un'anima eroica. Intorno a lui la vita ordinaria seguitava a gorgogliare come l'acqua di un torrente, nel quale tutti pescano ed arraffano, mentre collo spirito teso al di là della morte egli doveva sopportare le importunità dei pochi che lo amavano, e degli altri sempre increduli per saggezza e di coloro, nei quali il riso è simile al gracidare delle rane. Ma l'eroe non pensava al ritorno. La sua anima come quella di Ulisse ripeteva a se stessa: «Navigare necesse est, non vivere» alta sulla vita del mondo, che le si era distaccata come una scorie iemale dall'albero riverdeggiante in aprile, o la tela impura dalla crisalide già libera coll'ali nel sole primaverile.

Morire nel cielo sarebbe stata la morte di Ulisse nel mare; morire al polo sul pallone sgonfio accanto ai cadaveri dei due compagni era la morte di Cristo sul Golgota, ma senza tutto il mondo ai piedi e che domani avrebbe creduto alla sua rivelazione.

[58] Nansen accettava ancora scritture da nuovi teatri per farsi vedere in altre conferenze, quando il vento tornò e Andrée si slanciò col pallone sulla sua corrente; qualcuno dall'isola deserta sarà accorso a vederlo, poi nessuno lo vide più.

Non mi chiedete, signora, che cosa io pensi, o come la mia anima abbia imaginato la sua morte.

Se ho potuto trarre alcune figure dalla storia, altre rappresentare dalla vita, io non sono il poeta di Andrée, ma quel poeta verrà.

Egli solo potrà nel poema rivelare il segreto, che affatica ancora tanti cuori: io non ho forse ancora sofferto abbastanza per intendere le mute parole di Andrée alla terra nel momento di perderla, e ciò che disse subito dopo ai compagni. Lassù, in quella navicella non più lunga delle ali aperte di un eider, la tragedia umana svolse la sua scena più sublime in un silenzio e in un deserto, dai quali solamente Dio ascoltava. Ciò che spesso ne susurra la fantasia di romanziere al mio cuore solitario, il cuore lo ricusa sdegnosamente come il solito racconto volgare della gente per ogni più magnifico eroismo: quello che la mia anima sente dinanzi a quei tre cadaveri cristallizzati, incorruttibili fra un lembo del pallone come fra le pieghe di una bandiera, cogli occhi aperti nella eterna vigilia del polo, la mia penna non saprebbe scriverlo.

Io non sono il poeta di Andrée, ma se fossi donna come voi, avrei amato quell'uomo, al quale nessun amore poteva bastare.

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